Accordi di risanamento, meritevolezza del contratto e divieto di patto commissorio
Il diritto dei contratti non impone un’uguaglianza assoluta tra le parti riguardo a condizioni, termini e vantaggi economici e contrattuali. Pertanto, non è la discrepanza tra prestazione e controprestazione a rendere un contratto immeritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c., purché tale differenza sia stata compresa ed accettata in piena libertà ed autonomia dalle parti stesse.
Il divieto di patto commissorio e la conseguente sanzione di nullità radicale sono estesi a qualsiasi negozio, tipico o atipico, quale che ne sia il contenuto, che sia in concreto impiegato per conseguire il fine, riprovato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore. Pertanto, in ogni ipotesi in cui quest’ultimo sia costretto ad accettare il trasferimento di un bene a scopo di garanzia, nell’ipotesi di mancato adempimento di una obbligazione assunta per causa indipendente dalla predetta cessione, è ravvisabile un aggiramento del divieto di cui agli artt. 1963 e 2744 c.c.
Nell’ambito dell’accertamento di una eventuale violazione del divieto di patto commissorio, il giudice di merito non deve limitarsi a un esame formale degli atti posti in essere dalle parti, ma deve considerarne la causa in concreto e, in caso di operazione complessa, valutare gli atti medesimi alla luce di un loro potenziale collegamento funzionale, apprezzando ogni circostanza di fatto rilevante e il risultato stesso che l’operazione negoziale era idonea a produrre e, in concreto, ha prodotto. Rientra in detta articolata casistica anche l’ipotesi in cui le parti pongano in essere più negozi, tra loro uniti da un vincolo di collegamento, configurabile anche quando siano stipulati tra soggetti diversi, purché essi risultino concepiti e voluti come funzionalmente connessi e interdipendenti, al fine di un più completo ed equilibrato regolamento degli interessi, ove dalla loro disamina emerga un assetto di interessi complessivo tale da far ritenere che il procedimento negoziale attraverso il quale venga compiuto il trasferimento di un bene dal debitore al creditore sia effettivamente collegato, piuttosto che alla funzione di scambio, a uno scopo di garanzia.
A prescindere dalla natura obbligatoria o reale del contratto o dei contratti che le parti pongono in essere, ovvero dal momento temporale in cui l’effetto traslativo sia destinato a verificarsi, nonché dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dall’identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti, si configura una violazione del divieto di cui all’art. 2744 c.c. qualora tra le diverse pattuizioni sia dato ravvisare un rapporto di interdipendenza tale che le stesse risultino funzionalmente preordinate a realizzare una situazione del tutto analoga a quella vietata dalla legge.
La conversione di crediti in azioni, lungi dal costituire una violazione del patto commissorio o di altra disposizione imperativa prevista dall’ordinamento, oltre a essere una prassi frequente sia nell’ambito di società in bonis sia nell’ambito delle procedure di ristrutturazione dei debiti, è un’ipotesi ritenuta lecita dal legislatore, tanto da essere espressamente prevista e disciplinata nell’ipotesi di concordato preventivo (art. 160, co. 1, lett. a, l. fall.) e pacificamente avallata dalla giurisprudenza di legittimità.
Divieto di patto leonino nelle società di capitali e opzione put
Il divieto ex art. 2265 c.c. assume rilevanza anche nel settore delle società di capitali ed anche in relazione a patti tra soci estranei allo statuto sociale, tale divieto riguardando le condizioni essenziali del tipo contratto di società nel quale la legge ha imposto non solo la costituzione di un patrimonio sociale ma anche la formazione ad opera di tutti i soci, in modo che tutti i membri della compagine siano partecipi del rischio di impresa al fine di garantire, nell’interesse generale, un esercizio avveduto e corretto dei relativi poteri.
La ratio del divieto di patto leonino risiede nel preservare la purezza della causa societatis. Una diversa regolamentazione, tale da escludere del tutto un socio dagli utili o dalle perdite, finirebbe per contrastare con il generale interesse alla corretta amministrazione delle società, inducendo il socio a disinteressarsi della proficua gestione (anche intesa con riguardo all’esercizio dei suoi diritti amministrativi) e non prodigarsi per l’impresa, quando non, addirittura, a compiere attività avventate o non corrette.
Nell’ipotesi di opzione put a prezzo preconcordato, occorre ricostruire la causa concreta del programma contrattuale, per valutare se esista, sia lecita e meritevole di tutela: onde il patto non potrà ricadere nel divieto ex art. 2265 c.c. e supererà positivamente il vaglio ex art. 1322 c.c., laddove l’esclusione dalle perdite non sia strutturalmente assoluta e costante, né ne integri la funzione essenziale, o causa concreta, con riguardo al complessivo regolamento negoziale.
Tra le società di persone (dove i soci sono illimitatamente responsabili) e le società di capitali (dove la responsabilità è limitata), cambia il concetto di perdita: nelle società di persone significa responsabilità illimitata per debiti che la società non riesce a pagare; nelle società di capitali la perdita, per il socio, non può che essere intesa se non nell’accezione di cui agli artt. 2446, 2447, 2482 bis, 2482 ter c.c., ossia perdite di esercizio capaci di intaccare il capitale sociale per oltre un terzo, o addirittura di farlo scendere sotto il minimo legale. Sono invece irrilevanti le perdite che non intaccano il capitale sociale e quelle che lo intaccano per meno di un terzo.
Ai fini della verifica della compatibilità di un accordo con il divieto di patto leonino, non deve confondersi il concetto di perdita con il valore della partecipazione (aspetto economico), né con il prezzo della cessione della partecipazione (aspetto giuridico). Non con il valore perché esso, anche nelle società chiuse, ha un rapporto con la rappresentazione contabile della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società del tutto mediato e non diretto (metodi di valutazione patrimoniali, reddituali e misti). Non con il prezzo perché l’oggetto della compravendita della partecipazione è la partecipazione stessa, rispetto alla quale il patrimonio sociale è oggetto mediato di cui è invece titolare la società. Pertanto, si ha esclusione dalle perdite del socio di società di capitali quando, per statuto o per patto parasociale, il socio è in grado, mantenendo la stessa partecipazione, di scaricare il relativo costo su altri soci.
La configurabilità della nullità della previsione che esclude in modo continuato ed assoluto uno dei soci dalla partecipazione alle perdite per violazione del divieto di patto leonino presuppone logicamente che la pattuizione sia adottata al momento della costituzione del rapporto sociale, così che al socio sia assicurata l’esenzione per tutta la sua durata dall’alea tipica dell’investimento nella società in modo tale da alterare stabilmente la ripartizione del rischio di impresa fra i soci. Per poter avere l’effetto di alterare la causa del contratto sociale, la previsione negoziale che realizzi l’effetto vietato dall’art 2265 c.c. deve essere contenuta nell’atto costitutivo, nello statuto o in un patto parasociale coevo all’acquisto della partecipazione. La pattuizione dell’opzione di vendita successiva contenuta in un contratto di compravendita fra soci si risolve, invece, in una comune vicenda circolatoria della partecipazione esterna al contratto sociale e inidonea ad alterarne la causa.
Il fallimento non è causa di estinzione immediata della società sicché la perdurante esistenza in vita dell’ente, sia pure ormai privo di ogni potere in relazione al suo patrimonio, conferisce natura di beni commerciabili alle relative quote di partecipazione, quindi l’azione, oggetto del contratto di trasferimento, permane come bene esistente anche in caso di fallimento dell’ente.
Garanzia di manleva e autonomia contrattuale
L’art. 1322 c.c. se da un lato non esclude affatto la libera espressione dell’autonomia contrattuale delle parti e quindi l’approdo delle stesse alla conclusione di contratti atipici, dall’altra pone un limite nella meritevolezza degli interessi a cui i relativi accordi contrattuali sono preordinati, da valutarsi ex ante.
La valutazione circa la ricorrenza della meritevolezza degli interessi perseguiti impone quindi di procedere all’analisi dell’interesse concretamente perseguito dalle parti (i.e. della ragione pratica dell’affare), valutando l’utilità del contratto, la sua idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale, fermo restando il rispetto dei principi racchiusi nell’art. 41 Cost.
Legittimità della clausola che impone al dipendente di retrocedere la partecipazione detenuta nella controllante al termine del rapporto di lavoro
La condizione si dice meramente potestativa, con conseguente sanzione di nullità ai sensi dell’art. 1355 c.c., quando l’efficacia del negozio è collegata non già ad una ponderata valutazione di seri od apprezzabili motivi e delinei un’alternativa capace di soddisfare anche l’interesse del soggetto obbligato – sicché l’evento dedotto dipende anche dal concorso di fattori estrinseci che possono influire sulla determinazione della volontà pur se la relativa valutazione è attribuita all’esclusivo apprezzamento dell’interessato – ma è viceversa rimessa al suo mero arbitrio, così da presentarsi come effettiva negazione di ogni vincolo obbligatorio.
Il giudizio di meritevolezza risulta ancorato al presupposto dell’atipicità contrattuale. In particolare, del contratto atipico deve essere individuata la causa concreta, la quale definisce lo scopo pratico del negozio, vale a dire la sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato. La meritevolezza di cui all’art. 1322, co. 2, c.c. non si esaurisce nella liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa, dovendosi piuttosto procedere all’analisi dell’interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie, cioè della ragione pratica dell’affare, dovendosi valutare l’utilità del contratto, intesa come la sua idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale.
Il giudizio di meritevolezza costituisce una peculiare valutazione concernente non tanto il contratto in sé, quanto piuttosto il risultato che, mediante quel particolare schema contrattuale, viene perseguito dalle parti nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, assurgendo esso giudizio a necessario controllo di conformità dell’atto stesso al sistema giuridico vigente e ai suoi valori costituzionali, da svolgersi alla stregua del parametro dei superiori valori costituzionali previsti a garanzia degli specifici interessi perseguiti attesa l’interazione, sulle previgenti norme codicistiche, delle superiori e successive norme di rango costituzionale e sovranazionale comunque applicabili quali principi informatori o fondanti dell’ordinamento stesso. In particolare, il contratto o la singola clausola pattizia dovranno dirsi immeritevoli allorquando appaiano contrari alla coscienza civile, all’economia, al buon costume o all’ordine pubblico e laddove il risultato che il patto atipico intenda perseguire sia in contrasto con i principi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati.
La disposizione di cui all’art. 1322 c.c. non può trovare applicazione con riferimento a contratti tipici, riguardando il giudizio sulla meritevolezza unicamente fattispecie negoziali atipiche.
Il riscatto convenzionale costituisce un patto accessorio ad un’alienazione che, in forza del medesimo, risulta conclusa sotto condizione risolutiva potestativa consistente nella manifestazione di volontà del venditore, assunta come fatto condizionante, dalla quale dipende il venire meno dell’efficacia reale della cessione. Dalla previsione di una clausola di riscatto deriva il diritto potestativo del venditore – cui corrisponde una situazione giuridica soggettiva passiva di soggezione del compratore – di risolvere il contratto entro un tempo determinato, così automaticamente riacquistando la proprietà del bene contro restituzione del prezzo e rimborso delle spese. Il legislatore ha disciplinato dettagliatamente gli effetti dell’esercizio del riscatto, prevedendo, agli artt. 1500, co. 1, e 1502 c.c., che il riscattante è tenuto a rimborsare al compratore il prezzo, le spese e ogni altro pagamento legittimamente fatto per la vendita, le spese per le riparazioni necessarie e, nei limiti dell’aumento, quelle che hanno aumentato il valore della cosa, con diritto di ritenzione a favore del compratore fino al rimborso delle spese necessarie e utili. È, poi, previsto, sotto comminatoria di nullità parziale, che il prezzo del riscatto non possa essere superiore al prezzo di vendita (art. 1500, co. 2, c.c.). Ratio della norma e funzione del patto, nella sua declinazione tipica, è di conservare l’originario equilibrio di scambio, avulso da ogni influenza ad esso estranea – se non, del tutto coerentemente, per il dovuto rimborso delle spese di cui all’art. 1502 c.c. –, risolvendosi ogni disciplina diversa in un accordo che non è riconducibile al tipo contrattuale di cui si discorre.
Opzione put in un contratto di acquisizione di partecipazioni: patto leonino e meritevolezza ex art. 1322 c.c.
Quella di cui all’art. 2265 c.c. è una norma transtipica, applicabile ad ogni tipo societario e, dunque, anche alle società di capitali, in quanto se la societas è l’unione di più patrimoni, al fine del raggiungimento dello scopo comune di suddividere i risultati dell’impresa economica, si pone in contrasto con questa causa tipica la totale esclusione di uno o più soci, quali soggetti titolari di una quota di capitale sociale, da quei risultati. Nell’ambito delle società di capitali – dove non può propriamente parlarsi di utili e perdite nel senso originariamente inteso dalla disposizione codicistica con riferimento alla società semplice – la disposizione di cui all’art. 2265 c.c. deve intendersi riferibile esclusivamente ad un patto che intercorra non tra due soci, ma tra il socio (o più d’uno) e la società stessa. Ciò poiché la ratio del divieto di patto leonino – o, meglio, il principio generale sotteso all’art. 2265 c.c., che ne consente l’applicabilità trasversale ad ogni tipo societario – consiste nella volontà del legislatore di sanzionare gli accordi che intacchino la purezza della causa societatis come individuata dall’art. 2247 c.c.
La causa societatis ha ad oggetto unicamente il rapporto del singolo socio con la società medesima e, quindi, il suo status all’interno della stessa; sicché, perché essa venga alterata, è necessario un patto che comporti, per previsione statutaria, l’esclusione completa del socio dagli utili, dalle perdite, o da entrambi. Esclusione che si concreterebbe in una vera e propria modificazione dello status di socio quale parte del contratto societario. Pertanto, l’indagine volta a saggiare l’eventuale nullità di un patto ai sensi dell’art. 2265 c.c. non è diretta semplicemente a verificare se siano integrati i due lemmi dal contenuto alquanto generico previsti dalla norma medesima, ma in definitiva a valutare se la causa societatis del rapporto partecipativo del socio in questione permanga invariata nei confronti dell’ente collettivo o se, invece, venga irrimediabilmente deviata dalla clausola che lo esonera, atteso il suo contenuto, dalla sopportazione di qualsiasi perdita risultante dal bilancio sociale o dalla divisione degli utili maturati e deliberati in distribuzione ex art. 2433 c.c., o da entrambi, perché solo in tal caso potrà dirsi che l’art. 2265 c.c. sia stato violato.
L’alterazione della causa societatis non può verificarsi qualora tra due soci intervenga un patto con cui l’uno, in ultima istanza, si impegni a manlevare l’altro dai rischi inerenti all’acquisto di una partecipazione nella società, poiché tale accordo non modifica le caratteristiche essenziali del rapporto tra il socio e la società medesima, ossia la partecipazione del primo, latu sensu, agli utili ed alle perdite della stessa. Un patto siffatto si pone, dunque, totalmente al di fuori del perimetro applicativo dell’art. 2265 c.c.
Più che ad un’analisi volta ad accertarne la nullità ex art. 2265 c.c., i patti inerenti alla gestione della società conclusi tra i soci devono, piuttosto, essere sottoposti alla valutazione di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c. A tal fine, è necessario ricostruire la causa concreta del programma contrattuale, per valutare se essa esista, sia lecita e meritevole di tutela.
L’accordo interno tra due soci, con il quale uno si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative attraverso l’attribuzione di un diritto di put out entro un termine dato, deve ritenersi caratterizzato da una causa meritevole di tutela. Ciò in quanto la causa dell’operazione di acquisto delle azioni con opzione put, palesatasi nel mondo degli affari, è proprio quella di finanziamento dell’impresa, anche indirettamente, mediante il finanziamento ad altro socio, nell’ambito di operazioni di alleanza strategica tra vecchi e nuovi soci. Nel momento della costituzione della società, o quando si intenda operarne il rilancio mediante una particolare operazione economica, il contributo di ulteriori capitali, rispetto a quelli disponibili per i soci che il progetto abbiano concepito, può divenire essenziale, anche quale condicio sine qua non del progetto imprenditoriale programmato. Nel caso di cessione di un pacchetto azionario, la meritevolezza di un meccanismo siffatto potrebbe, in linea di principio, essere ravvisata nella finalità di agevolare il trasferimento di azioni, per loro natura votate alla circolazione e dallo scambio, e l’ingresso di nuovi soci, i quali saranno vieppiù motivati all’investimento per il fatto di essere “garantiti” da eventuali perdite conseguenti alla pregressa gestione societaria.
L’opzione put a prezzo preconcordato può superare positivamente il vaglio ex art. 1322 c.c. laddove l’esclusione dalle perdite non sia strutturalmente assoluta e costante, né ne integri la funzione essenziale, o causa concreta, con riguardo al complessivo regolamento negoziale.