Concorrenza sleale: condotte non tipizzate e appropriazione illecita del risultato di mercato del concorrente
L’art. 2598, comma primo, n. 3, c.c., stabilendo che compie atti di concorrenza sleale l’imprenditore che si avvale – direttamente o indirettamente – di ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda – è norma in bianco e di chiusura della disciplina, diretta a riassumere tutte le ipotesi, diverse da quelle contemplate dai nn. 1 e 2 della disposizione, i cui unici presupposti applicativi sono costituiti dal possesso della qualità di imprenditore in capo ai soggetti coinvolti e l’esistenza – tra di essi – di una situazione di competizione o concorrenzialità sul piano imprenditoriale.
Detta norma impone che le imprese operanti nel mercato conformino il loro comportamento a regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna di esse possa ottenere, a danno della altrui impresa vantaggi competitivi raggiunti grazie a metodi contrari a dette regole; nella previsione dell’art. 2598, n. 3 c.c. rientrano dunque tutte quelle condotte, non tipizzate, che hanno come effetto l’appropriazione illecita del risultato di mercato della impresa concorrente.
Con la precisazione che se la violazione di un patto di non concorrenza consente di configurare una responsabilità contrattuale derivante dalla violazione appunto di detto patto di non concorrenza, gli atti compiuti dopo la cessazione del rapporto contrattuale, sia pure occasionati dal pregresso rapporto contrattuale, ben possono configurare un illecito extracontrattuale ex art. 2598, n. 3 c.c. laddove si ravvisi la presenza di condotte sleali, lesive nel senso su esposto, dell’impresa concorrente.
L’assunzione in giudizio della qualità di erede costituisce accettazione tacita dell’eredità
Quando i chiamati all’eredità si costituiscono in giudizio dichiarando la propria qualità di eredi dell’originario debitore, senza in alcun modo contestare l’effettiva assunzione di tale qualità ed il conseguente difetto di titolarità passiva della pretesa, essi compiono un’attività non altrimenti giustificabile se non con la veste di erede, che esorbita dalla mera attività processuale conservativa del patrimonio ereditario, in quanto dichiarata non al fine di paralizzare la pretesa, ma di illustrare la qualità soggettiva nella quale essi intendono paralizzarla. L’assunzione in giudizio della qualità di erede costituisce quindi accettazione tacita dell’eredità, che non può essere rimessa in discussione per effetto di un atto successivamente intervenuto e dipendente da una libera scelta dei medesimi interessati, qual è la rinuncia all’eredità.
La risoluzione per inadempimento è rimedio previsto con riguardo ai soli contratti sinallagmatici, in cui ciascuna prestazione trova la propria ragion d’essere nella prestazione di controparte, spiegandosi così perché l’inadempimento di una legittima l’altra ad agire per ottenere la risoluzione del contratto. Nel contratto di cessione di quote, un nesso di corrispettività sussiste di certo tra l’obbligazione di pagamento e il trasferimento delle quote, ma non anche tra l’obbligazione di pagamento e l’eventuale clausola di non concorrenza, che riveste natura meramente accessoria e che, in mancanza di una espressa previsione, non potrebbe giustificare neppure una riduzione del prezzo, anche tenuto conto del disposto dell’art. 2596, co. 2, c.c., in forza del quale ove la durata del patto di non concorrenza sia stata determinata dalle parti in un periodo superiore a cinque anni la sua validità è limitata entro tale periodo di tempo.
Patto di non concorrenza ex art. 2596 c.c. e accertamento della stipula mediante contratti standard per adesione
In ordine ai limiti contrattuali della concorrenza, la disposizione contenuta nell’art. 2596 c.c. regola in modo espresso e specifico il patto di non concorrenza, disponendo che questo debba essere circoscritto, in via alternativa, a una determinata zona o a una determinata attività.
L’apposizione di una clausola di non concorrenza in un contratto (nel caso di specie, un contratto di associazione in partecipazione) richiede l’accertamento di una specifica e particolareggiata trattativa sul contenuto della clausola limitativa; trattativa che si esclude nel caso di contratti standard, composti da varie clausole predisposte unilateralmente e sottoscritte per adesione ex art. 1341 c.c.
Non integra il requisito della specifica approvazione per iscritto, ex art. 1341, comma 2 c.c., il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto o di gran parte di esse, comprese quelle prive di carattere vessatorio. Infatti, posto che l’art. 1341 c.c. non si limita a richiedere la sottoscrizione separata, ma anche la scelta di una tecnica redazionale idonea a suscitare l’attenzione del sottoscrittore sul significato delle clausole specificamente approvate, con la loro sottoscrizione indiscriminata non sarebbe garantita l’attenzione del contraente debole verso la clausola a lui sfavorevole, in quanto ricompresa tra le altre richiamate.
Patto di non concorrenza contenuto in un contratto di cessione di quote
L’art. 2557 c.c., in tema di divieto di concorrenza, trova applicazione analogica nel caso in cui, anziché l’azienda, siano cedute le partecipazioni di controllo di una società che esercita un’impresa commerciale. La concorrenza vietata è quella consistente nell’iniziare una nuova impresa idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. L’attività concorrenziale del cedente l’azienda non può che essere un’attività d’impresa, anche se esercitata mediante lo schermo di una società o di un prestanome.
Non viola il divieto di concorrenza chi svolge attività di lavoro subordinato presso una società per azioni concorrente, in cui, tuttavia, non ricopre incarichi gestori e di cui non possiede una partecipazione al capitale.
È nullo, in quanto contrastante con l’ordine pubblico costituzionale (artt. 4 e 35 Cost.), il patto di non concorrenza diretto, non già a limitare l’iniziativa economica privata altrui, ma a precludere in assoluto ad una parte la possibilità di impiegare la propria capacità professionale nel settore economico di riferimento.
Violazione della clausola di non concorrenza contenuta nel contratto di cessione di quote
La costituzione, pochi mesi dopo la cessione delle quote di una società, di una nuova società concorrente con la predetta, costituisce violazione del patto di non concorrenza, a nulla rilevando che il socio cedente si sia servito di una società fiduciaria. Lo schermo offerto dalla fiduciaria non solo non esonera il cedente dal rispetto dell’impegno assunto, ma dimostra la piena consapevolezza di violare il patto di non concorrenza. È irrilevante accertare se il cedente abbia esercitato funzioni gestorie, poiché l’avere costituito la società, operante in concorrenza con quella di cui aveva ceduto le quote, già integra l’inadempimento dell’obbligazione negoziale. Non può dubitarsi che la società costituita in concorrenza sia indirettamente controllata dal cedente qualora questi detenga il 50% del capitale sociale. Non è dunque la mera partecipazione sociale a comportare la violazione del patto di non concorrenza, ma l’avere dato vita ad un’impresa concorrente con quella di cui le quote erano state cedute, malgrado l’impegno assunto di astenersi da ogni iniziativa in tal senso.
La necessità di indagini e di istruttoria ai fini dell’accertamento della concorrenza sleale per sviamento di clientela
L’illiceità della condotta in tema di concorrenza sleale per sviamento di clientela non dev’essere ricercata episodicamente, ma va desunta dalla qualificazione tendenziale dell’insieme della manovra posta in essere per danneggiare il concorrente, o per approfittare sistematicamente del suo avviamento sul mercato. Ne consegue che pur a fronte di un apprezzamento indiziario, la fisiologia del passaggio di clientela, ove ecceda la normale tollerabilità, necessita di indagini e istruttoria al fine di verificare se sia stato posto in essere un piano di attività preordinato e sviluppato proprio al fine di determinare un massiccio esodo in violazione della libera determinazione del volere della clientela che si assume sviata. Quanto all’elenco dei clienti, affinché il trasferimento di un complesso di informazioni aziendali, riservate o costituenti veri e propri segreti aziendali, possa configurare atto di concorrenza sleale, è necessario che ci si trovi in presenza di un complesso organizzato e strutturato di dati cognitivi, seppur non secretati e protetti, che superino la capacità mnemonica e l’esperienza del singolo normale individuo e configurino così una banca dati che, arricchendo la conoscenza del concorrente, sia capace di fornirgli un vantaggio competitivo che trascenda la capacità e le esperienze del lavoratore acquisito.
La violazione del patto di non concorrenza
Costituiscono violazione del patto di non concorrenza: i) la partecipazione, anche in forma riservata, alla gestione dell’impresa concorrente; ii) l’utilizzazione del database dei clienti; iii) l’assunzione di numerosi dipendenti dell’impresa concorrente. Tutte queste attività sono rilevanti nel caso di attività svolta nello stesso campo dell’impresa concorrente.
La funzione della penale per la violazione del patto di non concorrenza è quella di indicare preventivamente l’ammontare presumibile del danno. Perciò può essere riqualificata dal giudice in base al danno effettivamente subìto per la violazione del patto, in modo da evitare un indebito arricchimento del creditore.
Concorrenza sleale e pubblicità ingannevole
Tra la disciplina della concorrenza sleale e quella dell’illecito civile intercede un rapporto di specie a genere, che consente di colmare le lacune della prima mediante il ricorso alle regole generali proprie della seconda.
La specificità delle norme repressive dell’illecito concorrenziale non si coglie a livello di determinazione del danno per equivalente, nel senso, cioè, che la distorsione del mercato sia ex se produttiva di un pregiudizio risarcibile, ma, semmai, sotto il profilo dell’elettiva tecnica di repressione adoperata, basata principalmente sull’inibitoria e sugli altri provvedimenti idonei ad eliminare gli effetti della violazione (art. 2599 c.c.), lì dove, invece, è solo l’illecito civile ad essere strutturato in funzione prettamente risarcitoria. E difatti, colpa e danno, coessenziali al paradigma dell’art. 2043 c.c., sono soltanto eventuali, invece, nelle ipotesi di concorrenza sleale previste dall’art. 2598 c.c., e non a caso sono localizzati in una norma a parte sul risarcimento (l’art. 2600 c.c.), che presuppone, al pari dell’art. 2043 c.c., la colpa o il dolo, un danno effettivo (a differenza di quanto richiesto per la tutela inibitoria, accordabile anche per i danni futuri o potenziali) e il nesso causale tra questo e la condotta dei soggetto agente.
Il danno cagionato dal compimento di atti di concorrenza sleale non è in re ipsa ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, richiede di essere autonomamente provato secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito. Ne consegue che solo la dimostrazione dell’esistenza del danno consente il ricorso al criterio equitativo ai fini della liquidazione. A non diverse conclusioni si giunge allorquando il danno in questione rivesta natura non patrimoniale e venga particolarmente in questione la lesione dell’immagine commerciale della vittima dell’illecito: un tale danno, difatti, non costituendo un mero danno-evento, deve essere sempre oggetto di allegazione e di prova.
Secondo concorde dottrina e giurisprudenza, l’art. 2105 c.c. riguarda comportamenti che solo il lavoratore subordinato in quanto tale può tenere e presuppone, pertanto, la costanza del rapporto di subordinazione. Ne deriva che non può configurarsi l’illecito previsto da detta norma qualora i comportamenti denunziati siano successivi alla cessazione del rapporto di lavoro.
Inoltre, al fine di estendere il divieto di concorrenza al periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, è necessaria la stipula di un patto di non concorrenza ai sensi dell’art. 2125 c.c. In assenza di un patto di non concorrenza non può ritenersi di per sé illegittima la concorrenza che il prestatore, dopo la cessazione del rapporto, può svolgere nei confronti del precedente datore di lavoro.
Concorrenza sleale: tra sviamento di clientela e (liceità della) libertà di iniziativa economica
In tema di concorrenza sleale per sviamento di clientela, l’illiceità della condotta non dev’essere ricercata episodicamente, ma va desunta dalla qualificazione tendenziale dell’insieme della manovra posta in essere per danneggiare il concorrente, o per approfittare sistematicamente del suo avviamento sul mercato. Pertanto, mentre è contraria alle norme di correttezza imprenditoriale l’acquisizione sistematica, da parte di un ex dipendente che abbia intrapreso un’autonoma attività imprenditoriale, di clienti del precedente datore di lavoro il cui avviamento costituisca, soprattutto nella fase iniziale, il terreno dell’attività elettiva della nuova impresa, più facilmente praticabile proprio in virtù delle conoscenze riservate precedentemente acquisite, deve ritenersi fisiologico il fatto che il nuovo imprenditore, nella sua opera di proposizione e promozione sul mercato della sua nuova attività, acquisisca o tenti di acquisire anche alcuni clienti già in rapporti con l’impresa alle cui dipendenze aveva prestato lavoro.
Patti di non concorrenza e insussistenza dei presupposti comuni per la tutela cautelare
Non è ravvisabile un pregiudizio “imminente e irreparabile” – necessario presupposto per l’emanazione del provvedimento di urgenza ex art. 700 cpc – in relazione alla presunta violazione di un patto di non concorrenza da parte dell’amministratore delegato dimissionario se: (i) la pattuizione negoziale prevede il pagamento di una rilevante penale per il caso di violazione del patto di non concorrenza sicché il pregiudizio derivante dalla violazione del patto non possa dirsi di per sé irreparabile in quanto di difficile o impossibile monetizzazione; (ii) l’inadempimento contestato all’amministratore si concretizzi nell’impegno assunto da quest’ultimo di ricoprire un incarico simile o analogo a quello precedentemente ricoperto in una società operante sì nello stesso settore dell’attrice nonché ex datrice di lavoro dell’amministratore dimissionario, ma dedita in assoluta prevalenza a un segmento di mercato caratterizzato da peculiarità diverse da quelle proprie del segmento ove la reclamante opera in via principale e tale per cui la possibilità di future condotte dell’amministratore in grado di incidere sulla concreta operatività commerciale della reclamante appaia di per sé residuale; (iii) al momento della richiesta del provvedimento cautelare di urgenza, nessuna condotta dell’amministratore specificamente pregiudizievole della operatività dell’attrice possa dirsi in atto o essere valutata come imminente.