Divieto di patto leonino e di patto commissorio e strumenti finanziari partecipativi
Affinché il limite all’autonomia statutaria dell’art. 2265 c.c. sussista, è necessario che l’esclusione dalle perdite o dagli utili costituisca una situazione assoluta e costante. Assoluta, perché il dettato normativo parla di esclusione “da ogni” partecipazione agli utili o alle perdite, per cui una partecipazione condizionata (ed alternativa rispetto all’esclusione in relazione al verificarsi, o non, della condizione) esulerebbe dalla fattispecie preclusiva. Costante, perché riflette la posizione, lo status del socio nella compagine sociale, quale delineata nel contratto di società.
Sia il divieto di patto commissorio (artt. 1963 e 2744 c.c.) sia il divieto di usura postulano l’esistenza di un rapporto negoziale di natura (quantomeno) prevalentemente creditizio-finanziaria, pena l’impossibilità giuridica di applicare detti divieti.
E’ lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di società azionaria con il quale gli uni, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighino a manlevare un altro socio delle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato e il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società.
Il tenore letterale dell’art. 2346, co. 6, c.c. recita che lo strumento finanziario partecipativo possa essere emesso “a seguito dell’apporto da parte di soci o di terzi anche di opera o di servizi”: tale precisazione implica necessariamente che l’apporto del sottoscrittore non sia necessariamente limitato alla dazione di denaro o beni fungibili, ma si estenda anche allo svolgimento di una prestazione di facere, ipoteticamente contraddistinta da intuitus personae. Da ciò discende la possibilità di emettere strumenti partecipativi singoli e individualizzati e quindi non seriali.
E’ ammissibile una deroga statutaria del principio secondo il quale le cariche sociali sono nominate in modo collegiale da tutte le azioni riunite in assemblea ordinaria. Lo statuto può diversamente allocare il potere di assumere la decisione nell’ambito della compagine sociale, mediante la configurazione di “diritti diversi” attribuiti a una o più categorie di azioni ai sensi dell’art. 2348 c.c.
Natura e caratteri del patto leonino
Il patto leonino ricorre allorché gli accordi finalizzati all’esclusione del socio dalle perdite e dagli utili siano stati stipulati dai soci con la società, mentre il patto avente identico contenuto e finalità, ove stipulato inter socios, non è riconducibile nell’alveo del predetto divieto in quanto esso non sarebbe opponibile alla società rimasta ad esso estranea, la quale, per ciò, continuerebbe ad imputare perdite ed utili alle proprie partecipazioni sociali in base agli ordinari criteri e principi, nel rispetto anche del divieto de quo.
La ratio che informa il divieto del patto leonino di cui all’art. 2265 c.c., applicabile anche alle società di capitali, consiste nel preservare la purezza della causa societatis, evitando che un socio possa essere escluso dagli utili o dalle perdite; ipotesi questa che contrasta con l’interesse generale alla corretta amministrazione della società, inducendo il socio a disinteressarsi della proficua gestione della stessa, avendo comunque assicurato il guadagno o restando esonerato da ogni possibile perdita. Deve, quindi, trattarsi di un patto finalizzato alla regolamentazione degli assetti ed equilibri societari con conseguenti implicazioni anche di natura organizzativa/gestoria.
Il patto leonino è ravvisabile solo in presenza di una esclusione totale e costante dalle perdite e dagli utili e solo quando questa non integri una funzione autonoma meritevole di tutela. L’esclusione dalle perdite o dagli utili, quale situazione assoluta e costante, deve cioè riverberarsi sullo status del socio. Infatti, perché il limite all’autonomia statutaria dell’art. 2265 c.c. sussista è necessario che l’esclusione dalle perdite o dagli utili costituisca una situazione assoluta e costante. Assoluta, perché il dettato normativo parla di esclusione “da ogni” partecipazione agli utili o alle perdite, per cui una partecipazione condizionata (ed alternativa rispetto all’esclusione in relazione al verificarsi, o non della condizione) esulerebbe dalla fattispecie preclusiva. Costante, perché riflette la posizione, lo status, del socio nella compagine sociale, quale delineata nel contratto di società. Detta esclusione deve finire per alterare la causa societaria nei rapporti con l’ente-società, che trasla, quanto al socio interessato da quell’esonero dalla condivisione dell’esito dell’impresa collettiva, da rapporto associativo a rapporto di scambio con l’ente stesso.
Il patto parasociale, in forza del quale taluni soci si impegnano ad eseguire prestazioni a beneficio della società, integra la fattispecie del contratto a favore di terzo, ai sensi dell’art. 1411 c.c., del quale sono legittimati a pretendere l’adempimento sia la società, quale terzo beneficiario, sia i soci stipulanti, moralmente ed economicamente interessati a che l’obbligazione sia adempiuta nei confronti della società di cui fanno parte.
Una domanda avente ad oggetto l’adempimento di obbligazioni nascenti da patti parasociali coinvolgenti società di capitali, e diretti, in generale, a disciplinare, inter alia, profili di natura organizzativa e gestoria della società partecipata, la circolazione delle relative partecipazioni e, quindi, l’assetto e la struttura della compagine sociale, nonché, a dotare quest’ultima delle necessarie risorse finanziarie, introduce una controversia, oggettivamente e soggettivamente, riconducibile a quelle per le quali la competenza è, ope legis, riservata, in via esclusiva funzionale ed inderogabile, ratione materiae, alle sezioni specializzate in materia di impresa, in virtù del disposto di cui all’art. 3, lett. c, d.lgs. n. 168/2003, il quale, tra le controversie attribuite alla competenza funzionale ed inderogabile delle sezioni specializzate in materia di impresa, include espressamente quelle “in materia di patti parasociali”.
Divieto di patto leonino nelle società di capitali e opzione put
Il divieto ex art. 2265 c.c. assume rilevanza anche nel settore delle società di capitali ed anche in relazione a patti tra soci estranei allo statuto sociale, tale divieto riguardando le condizioni essenziali del tipo contratto di società nel quale la legge ha imposto non solo la costituzione di un patrimonio sociale ma anche la formazione ad opera di tutti i soci, in modo che tutti i membri della compagine siano partecipi del rischio di impresa al fine di garantire, nell’interesse generale, un esercizio avveduto e corretto dei relativi poteri.
La ratio del divieto di patto leonino risiede nel preservare la purezza della causa societatis. Una diversa regolamentazione, tale da escludere del tutto un socio dagli utili o dalle perdite, finirebbe per contrastare con il generale interesse alla corretta amministrazione delle società, inducendo il socio a disinteressarsi della proficua gestione (anche intesa con riguardo all’esercizio dei suoi diritti amministrativi) e non prodigarsi per l’impresa, quando non, addirittura, a compiere attività avventate o non corrette.
Nell’ipotesi di opzione put a prezzo preconcordato, occorre ricostruire la causa concreta del programma contrattuale, per valutare se esista, sia lecita e meritevole di tutela: onde il patto non potrà ricadere nel divieto ex art. 2265 c.c. e supererà positivamente il vaglio ex art. 1322 c.c., laddove l’esclusione dalle perdite non sia strutturalmente assoluta e costante, né ne integri la funzione essenziale, o causa concreta, con riguardo al complessivo regolamento negoziale.
Tra le società di persone (dove i soci sono illimitatamente responsabili) e le società di capitali (dove la responsabilità è limitata), cambia il concetto di perdita: nelle società di persone significa responsabilità illimitata per debiti che la società non riesce a pagare; nelle società di capitali la perdita, per il socio, non può che essere intesa se non nell’accezione di cui agli artt. 2446, 2447, 2482 bis, 2482 ter c.c., ossia perdite di esercizio capaci di intaccare il capitale sociale per oltre un terzo, o addirittura di farlo scendere sotto il minimo legale. Sono invece irrilevanti le perdite che non intaccano il capitale sociale e quelle che lo intaccano per meno di un terzo.
Ai fini della verifica della compatibilità di un accordo con il divieto di patto leonino, non deve confondersi il concetto di perdita con il valore della partecipazione (aspetto economico), né con il prezzo della cessione della partecipazione (aspetto giuridico). Non con il valore perché esso, anche nelle società chiuse, ha un rapporto con la rappresentazione contabile della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società del tutto mediato e non diretto (metodi di valutazione patrimoniali, reddituali e misti). Non con il prezzo perché l’oggetto della compravendita della partecipazione è la partecipazione stessa, rispetto alla quale il patrimonio sociale è oggetto mediato di cui è invece titolare la società. Pertanto, si ha esclusione dalle perdite del socio di società di capitali quando, per statuto o per patto parasociale, il socio è in grado, mantenendo la stessa partecipazione, di scaricare il relativo costo su altri soci.
La configurabilità della nullità della previsione che esclude in modo continuato ed assoluto uno dei soci dalla partecipazione alle perdite per violazione del divieto di patto leonino presuppone logicamente che la pattuizione sia adottata al momento della costituzione del rapporto sociale, così che al socio sia assicurata l’esenzione per tutta la sua durata dall’alea tipica dell’investimento nella società in modo tale da alterare stabilmente la ripartizione del rischio di impresa fra i soci. Per poter avere l’effetto di alterare la causa del contratto sociale, la previsione negoziale che realizzi l’effetto vietato dall’art 2265 c.c. deve essere contenuta nell’atto costitutivo, nello statuto o in un patto parasociale coevo all’acquisto della partecipazione. La pattuizione dell’opzione di vendita successiva contenuta in un contratto di compravendita fra soci si risolve, invece, in una comune vicenda circolatoria della partecipazione esterna al contratto sociale e inidonea ad alterarne la causa.
Il fallimento non è causa di estinzione immediata della società sicché la perdurante esistenza in vita dell’ente, sia pure ormai privo di ogni potere in relazione al suo patrimonio, conferisce natura di beni commerciabili alle relative quote di partecipazione, quindi l’azione, oggetto del contratto di trasferimento, permane come bene esistente anche in caso di fallimento dell’ente.
Il patto leonino si configura solo se stipulato al momento della costituzione del rapporto sociale
La configurabilità della nullità della previsione che esclude in modo continuato ed assoluto uno dei soci dalla partecipazione alle perdite per violazione del divieto di patto leonino presuppone logicamente che la pattuizione sia adottata al momento della costituzione del rapporto sociale così che al socio sia assicurata l’esenzione per tutta la sua durata dall’alea tipica dell’investimento nella società, in modo tale da alterare stabilmente la ripartizione del rischio di impresa fra i soci. Per poter avere l’effetto di alterare la causa del contratto sociale, la previsione negoziale che realizzi l’effetto vietato dall’art. 2265 c.c. deve essere contenuta nell’atto costitutivo, nello statuto o in un patto parasociale coevo all’acquisto della partecipazione. La pattuizione dell’opzione di vendita successiva, contenuta in un contratto di compravendita fra soci si risolve, invece, in una comune vicenda circolatoria della partecipazione, esterna al contratto sociale e inidonea ad alterarne la causa.
L’andamento negativo dell’attività di impresa e la perdita di valore della partecipazione sociale che ne deriva non rappresentano uno degli avvenimenti straordinari e imprevedibili che, in un contratto con prestazioni corrispettive, può giustificare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c.
La compensazione legale è difficilmente configurabile fra obbligazioni reciproche scaturenti dallo stesso contratto e concepite dalle parti per essere ciascuna autonomamente eseguita in funzione della realizzazione degli interessi in concreto perseguiti da ciascuna di esse. In una simile fattispecie, l’effetto estintivo potrebbe prodursi solo a seguito di una compensazione volontaria.
La domanda volta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto che abbia ad oggetto il trasferimento della proprietà di cose determinate non può essere accolta se la parte che l’ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge. L’altro presupposto della pronuncia ex art. 2932 c.c. è costituito dalla possibilità giuridica del trasferimento azionario al momento della pronuncia della sentenza, in relazione alla configurabilità o meno nel trasferimento coattivo della titolarità delle azioni di una società fallita del c.d. aliud pro alio rispetto alla prestazione promessa nell’impegno preliminare relativo al trasferimento di azioni di una società ancora in bonis.
Opzione put in un contratto di acquisizione di partecipazioni: patto leonino e meritevolezza ex art. 1322 c.c.
Quella di cui all’art. 2265 c.c. è una norma transtipica, applicabile ad ogni tipo societario e, dunque, anche alle società di capitali, in quanto se la societas è l’unione di più patrimoni, al fine del raggiungimento dello scopo comune di suddividere i risultati dell’impresa economica, si pone in contrasto con questa causa tipica la totale esclusione di uno o più soci, quali soggetti titolari di una quota di capitale sociale, da quei risultati. Nell’ambito delle società di capitali – dove non può propriamente parlarsi di utili e perdite nel senso originariamente inteso dalla disposizione codicistica con riferimento alla società semplice – la disposizione di cui all’art. 2265 c.c. deve intendersi riferibile esclusivamente ad un patto che intercorra non tra due soci, ma tra il socio (o più d’uno) e la società stessa. Ciò poiché la ratio del divieto di patto leonino – o, meglio, il principio generale sotteso all’art. 2265 c.c., che ne consente l’applicabilità trasversale ad ogni tipo societario – consiste nella volontà del legislatore di sanzionare gli accordi che intacchino la purezza della causa societatis come individuata dall’art. 2247 c.c.
La causa societatis ha ad oggetto unicamente il rapporto del singolo socio con la società medesima e, quindi, il suo status all’interno della stessa; sicché, perché essa venga alterata, è necessario un patto che comporti, per previsione statutaria, l’esclusione completa del socio dagli utili, dalle perdite, o da entrambi. Esclusione che si concreterebbe in una vera e propria modificazione dello status di socio quale parte del contratto societario. Pertanto, l’indagine volta a saggiare l’eventuale nullità di un patto ai sensi dell’art. 2265 c.c. non è diretta semplicemente a verificare se siano integrati i due lemmi dal contenuto alquanto generico previsti dalla norma medesima, ma in definitiva a valutare se la causa societatis del rapporto partecipativo del socio in questione permanga invariata nei confronti dell’ente collettivo o se, invece, venga irrimediabilmente deviata dalla clausola che lo esonera, atteso il suo contenuto, dalla sopportazione di qualsiasi perdita risultante dal bilancio sociale o dalla divisione degli utili maturati e deliberati in distribuzione ex art. 2433 c.c., o da entrambi, perché solo in tal caso potrà dirsi che l’art. 2265 c.c. sia stato violato.
L’alterazione della causa societatis non può verificarsi qualora tra due soci intervenga un patto con cui l’uno, in ultima istanza, si impegni a manlevare l’altro dai rischi inerenti all’acquisto di una partecipazione nella società, poiché tale accordo non modifica le caratteristiche essenziali del rapporto tra il socio e la società medesima, ossia la partecipazione del primo, latu sensu, agli utili ed alle perdite della stessa. Un patto siffatto si pone, dunque, totalmente al di fuori del perimetro applicativo dell’art. 2265 c.c.
Più che ad un’analisi volta ad accertarne la nullità ex art. 2265 c.c., i patti inerenti alla gestione della società conclusi tra i soci devono, piuttosto, essere sottoposti alla valutazione di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c. A tal fine, è necessario ricostruire la causa concreta del programma contrattuale, per valutare se essa esista, sia lecita e meritevole di tutela.
L’accordo interno tra due soci, con il quale uno si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative attraverso l’attribuzione di un diritto di put out entro un termine dato, deve ritenersi caratterizzato da una causa meritevole di tutela. Ciò in quanto la causa dell’operazione di acquisto delle azioni con opzione put, palesatasi nel mondo degli affari, è proprio quella di finanziamento dell’impresa, anche indirettamente, mediante il finanziamento ad altro socio, nell’ambito di operazioni di alleanza strategica tra vecchi e nuovi soci. Nel momento della costituzione della società, o quando si intenda operarne il rilancio mediante una particolare operazione economica, il contributo di ulteriori capitali, rispetto a quelli disponibili per i soci che il progetto abbiano concepito, può divenire essenziale, anche quale condicio sine qua non del progetto imprenditoriale programmato. Nel caso di cessione di un pacchetto azionario, la meritevolezza di un meccanismo siffatto potrebbe, in linea di principio, essere ravvisata nella finalità di agevolare il trasferimento di azioni, per loro natura votate alla circolazione e dallo scambio, e l’ingresso di nuovi soci, i quali saranno vieppiù motivati all’investimento per il fatto di essere “garantiti” da eventuali perdite conseguenti alla pregressa gestione societaria.
L’opzione put a prezzo preconcordato può superare positivamente il vaglio ex art. 1322 c.c. laddove l’esclusione dalle perdite non sia strutturalmente assoluta e costante, né ne integri la funzione essenziale, o causa concreta, con riguardo al complessivo regolamento negoziale.
Istanza cautelare di sospensiva di delibera di società di persone e modifica del criterio di distribuzione degli utili
Deve ritenersi ammissibile in corso di causa – secondo le regole generali – l’istanza anticipatoria di sospensione degli effetti della delibera impugnata, ponendo l’art. 2378 c.c. un vincolo solo quanto alla preventiva instaurazione del giudizio di merito. L’istanza cautelare deve ritenersi ammissibile anche in relazione all’impugnativa delle delibere di società di persone.
Nelle società semplici il contratto può essere modificato esclusivamente con il consenso di tutti i soci se non è convenuto diversamente ex art. 2252 c.c. Se tale deroga è prevista dallo stesso atto costitutivo, deve ritenersi legittima la delibera dei soci che deroghi al criterio ordinario di ripartizione degli utili ex art. 2263 c.c., introducendo un diverso criterio, purché rispettoso del principio dell’art. 2265 c.c.
Violazione del divieto di patto leonino
Non è integrata la fattispecie vietata dall’art. 2265 c.c. ove sia prevista una diversa distribuzione di utili o perdite rispetto alle quote di partecipazione; sussiste, invece, violazione del divieto di patto leonino ove sia prevista l’esclusione totale e costante dalla partecipazione agli utili o alle perdite [nella specie, una clausola statutaria assicurava a un socio spettanze economiche fisse, costanti e immutabili, che non avrebbero avuto significato laddove non si fosse esclusa la partecipazione alle perdite].
Opzione put e divieto di patto leonino. Validità dell’opzione anche in caso di perdita totale di valore della quota
L’opzione put realizza una ipotesi di patto leonino soltanto qualora l’’esclusione di un socio dalle perdite o dagli utili sia assoluta e costante e non risponda a interessi meritevoli di tutela. Non viola dunque il divieto di patto leonino una opzione put che preveda l’esclusione dalle perdite non assoluta (riguardando soltanto una parte della quota di capitale sociale acquistata) e che non sia costante (dovendosi esercitare l’opzione all’interno di un limitato arco temporale) (vedi Cass., n. 2927/1994, n. 642/2000; Trib. Milano, n. 9301/2015 del 6 agosto 2015).
Non sussiste la nullità per difetto sopravvenuto della causa in concreto di un’’opzione put per effetto della totale perdita di valore della quota, in quanto neppure il fallimento di una società determina lo scioglimento per impossibilità sopravvenuta del contratto di compravendita delle azioni o quote della stessa società, essendo la dichiarazione di fallimento causa di scioglimento, ma non di immediata estinzione, della società, sicché la perdurante esistenza in vita dell’ente e della sua organizzazione sociale conferisce, di per sé, natura di beni commerciabili alle relative quote di partecipazione, con conseguente liceità dei negozi che abbiano ad oggetto il loro trasferimento (vedi Cass., n. 12831/2013, n. 11361/1999, n. 4584/1999; n. 7693/1998).
L’opzione di vendita non viola il divieto di patto leonino: manca l’esenzione assoluta e totale dalle perdite
Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto infondata la domanda di nullità di un accordo avente ad oggetto una opzione di vendita per il presunto aggiramento del divieto di patto leonino, poiché nel caso concreto [ LEGGI TUTTO ]
Nullità dell’opzione put per violazione del divieto di patto leonino: presupposto necessario è il carattere assoluto e costante dell’esclusione dalle perdite e dagli utili
Per la configurabilità del patto leonino, è necessario che l’ingresso nel capitale sociale si accompagni a opzioni put a prezzo predeterminato in favore dell’investitore, così “garantito” rispetto a qualsiasi andamento dell’ente e, dunque, esonerato dal sopportarne le perdite [ LEGGI TUTTO ]