Sulla prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ai sensi dell’art. 146, co. 2, l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste in base all’attuale formulazione dall’art. 2476 co. 2 e co. 6, c.c., a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, che, seppur cumulate in un’unica domanda, non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo tra loro distinte, sia nei presupposti di fatto, che nella disciplina applicabile, attesa la natura contrattuale della prima ed extracontrattuale della seconda, differenti essendo, dunque, la distribuzione dell’onere della prova, i criteri di determinazione dei danni risarcibili e il regime di decorrenza del termine di prescrizione.
Sotto tale ultimo profilo, entrambe le azioni si prescrivono ai sensi dell’art. 2949 c.c. nel termine di cinque anni, ma, mentre il decorso della prescrizione quinquennale dell’azione sociale di responsabilità è dalla data del fatto dannoso e a esso si applica la sospensione prevista dall’art. 2941, n. 7, c.c., con la conseguenza che la prescrizione rimane sospesa tra le persone giuridiche e i loro amministratori finché sono in carica per le azioni di responsabilità contro di essi, nell’azione dei creditori sociali la prescrizione di cui all’art. 2949, co. 2, c.c. decorre dal momento in cui l’insufficienza patrimoniale si è manifestata come rilevante, ossia dal momento in cui i creditori abbiano potuto avere contezza dell’insufficienza patrimoniale, momento che, in caso di fallimento, si presume coincidere con la dichiarazione di insolvenza della società debitrice, salva prova contraria.
Responsabilità degli amministratori non esecutivi
Ai fini della decorrenza della prescrizione dell’azione sociale di responsabilità rileva non già il momento in cui il presupposto dell’azione prevista dall’art. 2394 c.c. è effettivamente conosciuto dai creditori sociali, ma il momento in cui il presupposto di quell’azione diviene da loro oggettivamente percepibile, con due precisazioni: in primo luogo, questo presupposto riguarda l’insufficienza della garanzia patrimoniale generica della società e non corrisponde perciò né allo stato d’insolvenza di cui all’art. 5 l.fall., né alla perdita integrale del capitale sociale; in secondo luogo, il momento in cui questo presupposto diviene oggettivamente conoscibile dai creditori sociali non coincide necessariamente con la dichiarazione di fallimento, ma può collocarsi tanto anteriormente quanto posteriormente ad essa.
L’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti, rilevante ai fini del decorso della prescrizione quinquennale, può risultare dal bilancio sociale che costituisce, per la sua specifica funzione, il documento informativo principale sulla situazione della società non solo nei riguardi dei soci, ma anche dei creditori e dei terzi in genere. Sicché spetta al giudice di merito, con un apprezzamento in fatto insindacabile in cassazione, accertare se la relazione dei sindaci al bilancio che abbia evidenziato l’inadeguatezza della valutazione di alcune voci – a fronte della quale l’assemblea abbia comunque deliberato la distribuzione di utili ai soci, senza rilievi da parte degli organi di controllo -, sia idonea a integrare di per sé l’elemento della oggettiva percepibilità per i creditori circa la falsità dei risultati attestati dal bilancio sociale.
In tema di responsabilità degli amministratori, l’assenza di delega non esonera di per sé da responsabilità, poiché sugli amministratori grava l’obbligo di verificare e controllare il corretto esercizio della delega conferita ad altri. Di fatti, ai sensi dell’art. 2381, co. 3, c.c., i componenti del CdA deleganti sono comunque tenuti a valutare l’operato dei delegati, richiedere informazioni, impartire direttive, avocare a sé il compimento di atti, tutti doveri che si riflettono nella responsabilità solidale degli amministratori, prevista dall’art. 2392, co. 2, c.c. nel caso in cui pur essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli non hanno adottato le misure idonee a impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.
La responsabilità dell’amministratore non esecutivo si configura come condotta omissiva colposa, laddove la colpa può consistere, in primo luogo, in un difetto di conoscenza, per non avere rilevato colposamente l’altrui illecita gestione: non è decisivo che nulla traspaia da formali relazioni del comitato esecutivo o degli amministratori delegati, né dalla loro presenza in consiglio, perché l’obbligo di vigilanza impone, ancor prima, la ricerca di adeguate informazioni, non essendo esonerato da responsabilità l’amministratore che abbia accolto il deficit informativo passivamente. Pertanto, si può parlare di colpa in capo all’amministratore nel non rilevare i cd. segnali d’allarme, individuabili anche nella soggezione all’altrui gestione personalistica.
L’amministratore non esecutivo non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della mera posizione di garanzia, ma risponde per una propria condotta omissiva consistente nel mancato esercizio dei poteri impeditivi che l’ordinamento gli riconosce, quali, ad esempio, le richieste di convocazione del consiglio di amministrazione, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima o all’impugnazione della deliberazione viziata, l’attivazione ai fini all’avocazione dei poteri, gli inviti ai delegati di desistere dall’attività dannosa, la denunzia alla pubblica autorità, con informazione al p.m. ai fini della richiesta ex art. 2409 c.c., nella formulazione ante riforma.
Nel caso di responsabilità dell’amministratore per omesso versamento di imposte, il danno risarcibile non coincide con le imposte non versate, che, siccome dovute, rappresentano un debito titolato, che non diventa danno solo per il fatto di essere rimasto inadempiuto, ma è pari all’importo delle sanzioni, spese esecutive e aggi, che non sarebbero stati applicati se l’amministratore avesse ottemperato tempestivamente all’obbligo di versamento delle imposte.
In tema di responsabilità dei sindaci, la configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, co. 2, c.c. non richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate ovvero denunciandole al tribunale, ai sensi dell’art. 2409 c.c.
Responsabilità di amministratori, sindaci e revisore
Gli elementi costitutivi della fattispecie integrante la responsabilità solidale degli amministratori non esecutivi sono, sotto il profilo oggettivo, la condotta d’inerzia, il fatto pregiudizievole anti doveroso altrui e il nesso causale tra i medesimi e, sotto il profilo soggettivo, almeno la colpa, i cui caratteri risultano indicati all’art. 2392 c.c. La norma stabilisce che la colpa può consistere o nell’inadeguata conoscenza del fatto di altri, il quale in concreto abbia cagionato il danno, o nel non essersi il soggetto con diligenza utilmente attivato al fine di evitare l’evento, aspetti entrambi ricompresi nel concetto di essere immuni da colpa. La regola della responsabilità solidale e presunta come paritaria in capo a tutti i componenti dell’organo gestorio viene meno, però, a fronte della prova della concreta insussistenza o ininfluenza della condotta di taluno nella causazione del danno. Permane ai sensi dell’art. 2381 c.c. il dovere di vigilare sul generale andamento della società rispetto al quale non ha alcun rilievo il difetto di delega, salva la prova che gli altri consiglieri, pur essendosi diligentemente attivati, non abbiano potuto in concreto esercitare detta vigilanza a causa del comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio.
I presupposti della responsabilità dei sindaci, in concorso con quella degli amministratori, sono: la commissione, da parte degli amministratori, di un atto di mala gestio, la derivazione causale da tale atto di un danno a carico della società ex art. 2393 c.c., la derivazione di un danno dall’omessa o inadeguata vigilanza sull’operato degli amministratori da parte dei sindaci. Compito essenziale ex art. 2403 c.c. dell’organo di controllo è di verificare, secondo la diligenza professionale ex art. 1176 c.c., il rispetto dei principi di corretta amministrazione, controllando in ogni tempo che gli amministratori compiano la scelta gestoria nell’osservanza di tutte le regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale, alla stregua delle circostanze del caso concreto. I doveri di controllo imposti ai sindaci sono contraddistinti da particolare ampiezza, si estendono a tutta l’attività sociale in funzione della tutela e dell’interesse dei soci e di quello concorrente dei creditori sociali. Il sindaco non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della sua mera posizione di garanzia; si esige tuttavia, a fini dell’esonero dalla responsabilità, che egli abbia esercitato o tentato di esercitare l’intera gamma dei poteri istruttori e impeditivi affidatigli dalla legge.
L’esercizio del controllo da parte del revisore nelle società di capitali è finalizzato ad assicurare la verifica della corretta appostazione dei dati contabili nel bilancio della società e, di conseguenza, della corretta gestione contabile dell’ente, al fine di assicurare la conoscibilità, in capo ai terzi, delle effettive modalità di gestione contabile e dell’oggettività del patrimonio. Il revisore nello svolgimento della sua funzione deve necessariamente operare un controllo sulla correttezza e congruità di tutte le voci di bilancio. Proprio in funzione della peculiare ampiezza e incisività del controllo affidato al revisore contabile si prevede che esso risponda, in solido con gli amministratori, nei confronti della società che ha conferito l’incarico di revisione, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri. Non si tratta di un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma anche il revisore risponde in solido con l’organo gestorio nei limiti del contributo effettivamente dato al danno.
Nell’ipotesi di perdita del capitale e sua riduzione al di sotto del minimo di legge lo scioglimento della società si produce automaticamente e immediatamente, salvo il verificarsi della condizione risolutiva costituita dalla reintegrazione del capitale o della trasformazione regressiva della società, da deliberarsi con le maggioranze richieste per le modificazioni dell’atto costitutivo. Il danno derivante dall’inerzia dell’organo gestorio a fronte della perdita del capitale sociale è un danno per i creditori sociali ed è rappresentato dall’incremento dell’indebitamento ovvero dall’aggravamento della situazione patrimoniale della società (già in situazione di deficit) con conseguente detrimento della prospettiva di soddisfazione per i creditori.
Per quanto attiene alla conservazione del capitale sociale è evidente l’esigenza che per tutta la durata della società persista quell’ammontare di risorse investite dai soci su cui si localizza, in via primaria, il rischio di impresa. In mancanza, nell’ipotesi in cui i soci non abbiano più nulla da perdere, non si può consentire la prosecuzione di un’iniziativa che altrimenti proseguirebbe ad esclusivo rischio di creditori sociali. Occorre in altri termini assicurare in ogni momento della vita sociale che il potere di direzione dell’iniziativa sia controbilanciato dalla esposizione al rischio. Gli artt. 2446 e 2447 c.c. esprimono principi fondamentali della attività economica di impresa in forma sociale: la tempestiva rilevazione di una situazione di crisi, con l’attivazione di procedure idonee a prevenirne l’aggravamento e l’immediato blocco di nuove operazioni imprenditoriali quando non sussista più quel minimo di investimento che è il presupposto per il regime di responsabilità limitata dei soci.
Azione di responsabilità esercitata dal curatore per atti di mala gestio
L’azione di responsabilità svolta dal curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall. cumula in sé le diverse azioni di responsabilità previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali. Il curatore può conseguentemente formulare istanze risarcitorie verso gli amministratori tanto con riferimento ai presupposti della loro responsabilità contrattuale verso la società (art. 2392 c.c.), quanto a quelli della responsabilità extracontrattuale verso i creditori. Costituisce un accertamento di fatto rimesso all’apprezzamento del Tribunale verificare se, con la propria domanda, il curatore abbia inteso azionare la responsabilità contrattuale verso la società dell’amministratore ovvero la relativa responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali.
In base alla business judgment rule, la responsabilità dell’amministratore non può essere semplicemente desunta dai risultati della gestione e, perciò, al giudice investito dell’azione di responsabilità non è consentito sindacare i criteri di opportunità e di convenienza seguiti dall’amministratore nell’espletamento dei suoi compiti. Tuttavia, sebbene la business judgment rule osti al sindacato giudiziale delle scelte gestionali compiute dagli amministratori, il tribunale può valutare le decisioni gestionali qualora l’organo amministrativo abbia omesso di adottare quelle cautele, verifiche o informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quella natura, che può configurare la violazione dell’obbligo di adempiere con diligenza il mandato di amministrazione e può quindi generare una responsabilità contrattuale dell’amministratore verso la società.
In tema di compenso cui ha diritto l’organo amministrativo per l’attività svolta per conto della società in adempimento del mandato ricevuto, l’art. 2389 c.c. stabilisce che, ove lo statuto nulla disponga in merito, competente per la relativa determinazione è l’assemblea dei soci, che può provvedervi sia con la medesima delibera di nomina dei soggetti preposti alle funzioni gestorie, sia con autonoma e separata deliberazione. Ove nulla disponga al riguardo lo statuto ovvero l’assemblea si rifiuti o ometta di procedere alla relativa liquidazione o, ancora, lo determini in misura assolutamente inadeguata, il compenso deve intendersi indeterminato e quindi può essere giudizialmente determinato, su domanda dell’amministratore, in applicazione dell’art. 1709 c.c., anche mediante liquidazione equitativa. Di tal che, l’accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza non assume alcun effetto giuridico, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge. Inoltre, sono illegittime le auto-liquidazioni compiute dall’amministratore.
In tema di sottrazione di risorse dalla cassa-contanti ovvero di assegni, una volta provato il compimento da parte dell’amministratore di prelievi di somme della società da lui amministrata, incombe sul medesimo fornire debita giustificazione di tali atti in conformità ai doveri anzidetti. Ciò si giustifica tenendo presente il disposto dell’art. 1218 c.c., che la duplice natura giuridica della azione di responsabilità azionabile dal curatore rende applicabile. Più nello specifico, la responsabilità della cassa grava sull’amministratore, sicché su di lui incombe l’onere di provare che le somme che, secondo la contabilità sociale, avrebbero dovuto costituire il saldo cassa e invece non reperite al momento del fallimento, fossero comunque state utilizzate per scopi sociali.
Dies a quo di decorrenza della prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146, co. 2, l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma, quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali, implicandone una modifica della legittimazione attiva, ma non dei presupposti. Sicché, dipendendo da rapporti che si trovano già nel patrimonio dell’impresa al momento dell’apertura della procedura concorsuale a suo carico, e che si pongono con questa in relazione di mera occasionalità, non riguarda la formazione dello stato passivo e non è attratta alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ex art. 24 l.fall., restando soggetta a quella del tribunale delle imprese, ex art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 168 del 2003, propria di tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, da chiunque promosse.
Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., anche se esercitate cumulativamente ai sensi dell’art. 146 l.fall., debbono considerarsi distinte, perché basate su presupposti differenti e soggette a diverso regime giuridico, con particolare riferimento al calcolo dei termini per la prescrizione. Infatti, le due azioni di responsabilità si prescrivono nel termine di cinque anni ex art. 2949 c.c.; tuttavia, la decorrenza del termine varia a seconda del profilo di responsabilità azionato dal curatore. Se il curatore agisce per far valere la responsabilità dei componenti degli organi sociali nei confronti della società ai sensi dell’art. 2393 c.c., il termine decorre da quando è cessata la carica prima del fallimento o da quando il fallimento è stato dichiarato, se il soggetto passivo dell’azione di responsabilità sia in carica in quel momento, in forza della causa di sospensione di cui all’art. 2941, n. 7, c.c. Se il curatore esercita invece l’azione di responsabilità dei creditori sociali ex art. 2394 c.c., il termine di prescrizione decorra dalla conoscibilità esteriore dell’incapienza patrimoniale e quindi dell’insufficienza dell’attivo sociale a soddisfare i debiti, in forza del dato normativo letterale secondo cui l’insufficienza patrimoniale deve comunque “risultare”, il che può avvenire prima, dopo o al momento del fallimento.
In considerazione dell’onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando pertanto all’amministratore che sollevi la relativa eccezione fornire la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale.
La prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c., proposta nei confronti degli amministratori e dei sindaci per mala gestio, decorre non già dalla commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, o dalla cessazione dalla carica, bensì dal momento dell’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti e, per meglio dire, dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di venire a conoscenza di tale insufficienza. Tale incapacità, consistente nella eccedenza delle passività sulle attività, non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale (che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo) né allo stato di insolvenza, trattandosi di uno squilibrio patrimoniale più grave e definitivo che può essere sia anteriore che posteriore alla dichiarazione di fallimento.
Azione sociale di responsabilità nei confronti dell’amministratore ex art. 2476 c.c.
Mancata quantificazione del danno in un’azione di responsabilità ex art. 2395 c.c.
Il danno all’immagine e alla reputazione, inteso come danno conseguenza, non sussiste in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. Sicché la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice in base non tanto a valutazioni astratte, bensì al concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato. Alla mancata prova del danno non può sopperire la valutazione equitativa dello stesso considerato che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia dimostrata l’esistenza di danni risarcibili, ma che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo preciso ammontare, fermo restando dunque l’onere della parte di dimostrare l’an debeatur del diritto al risarcimento.
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore è di competenza della sezione imprese
In tema di competenza per materia, l’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146, co. 2, l. fall. (art. 255 CCII) cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma, quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali, implicandone una modifica della legittimazione attiva, ma non dei presupposti, sicché, dipendendo da rapporti che si trovano già nel patrimonio dell’impresa al momento dell’apertura della procedura concorsuale a suo carico e che si pongono con questa in relazione di mera occasionalità, non riguarda la formazione dello stato passivo e non è attratta alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ex art. 24 l. fall. (ora art. 32 CCII), restando soggetta a quella del tribunale delle imprese.
La prescrizione dell’azione di responsabilità spettante ai creditori sociali ex art. 2394 c.c. decorre dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di avere percezione dell’insufficienza del patrimonio sociale, per l’inidoneità dell’attivo, raffrontato alle passività, a soddisfare i loro crediti che risulti da qualsiasi fatto possa essere conosciuta tale circostanza.
Responsabilità per atto distrattivo, reati societari e termine di prescrizione dell’azione del curatore del fallimento
La registrazione di una somma come credito anziché come liquidità non integra alcuna dispersione dell’attivo e, quindi, non può fondare una domanda di risarcimento, la quale può trovare piuttosto fondamento in un atto distrattivo.
Quello previsto e punito dall’art. 223 L.F. è un reato complesso, dato dalla unione di un reato societario (tra quelli disciplinati dagli art. 2621 e ss. c.c.) e l’elemento del dissesto della società, che si configuri come ulteriore effetto di quel reato; l’elemento soggettivo del reato complesso è, a sua volta, composto dalla colpa della contravvenzione societaria e dal dolo del reato fallimentare, a proposito del quale è sufficiente la consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico, non essendo invece necessaria l’intenzionalità dell’insolvenza. Quello in esame, inoltre, è un reato proprio, che può essere commesso solo da un amministratore (o altro soggetto indicato dalla norma); ma è possibile il concorso di un extraneus con l’autore diretto, ove la sua condotta rechi un apporto apprezzabile al verificarsi dell’evento e sia assistita dalla consapevolezza del depauperamento del patrimonio sociale.
Il disposto dell’art. 2947, comma 3, c.c. si applica ad ambedue le azioni esercitabili dal curatore nei confronti dell’amministratore della società a responsabilità limitata fallita: quella contrattuale spettante alla società e quella extracontrattuale dei creditori.
Il risarcimento del danno nell’ambito di intese restrittive della concorrenza
In materia antitrust è indispensabile che la vittima dell’illecito sia in condizione di conoscere l’identità dell’autore della violazione per poter proporre un’azione di risarcimento del danno; pertanto, in caso di intese, la decorrenza del termine di prescrizione quinquennale va individuato nella data in cui il provvedimento sanzionatorio della Commissione europea è pubblicato.
In relazione al disposto di cui all’art. 16 Reg. UE 1/03, il giudice nazionale nel pronunciarsi su accordi, decisioni e pratiche ai sensi dell’articolo 101 TFUE già oggetto di una decisione della Commissione europea, non può prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione. Di conseguenza tali accertamenti risultano per il giudice nazionale vincolanti rispetto all’accertamento dell’esistenza degli accordi illeciti valutati e definiti nella Decisione in esame tra i soggetti sopposti a sanzione.
Il consulente nominato dall’ufficio può sempre avvalersi dell’opera di esperti specialisti, al fine di acquisire, mediante gli opportuni e necessari sussidi tecnici, tutti gli elementi di giudizio, senza che sia necessaria una preventiva autorizzazione del giudice, né una nomina formale, purché egli assuma la responsabilità morale e scientifica dell’accertamento e delle conclusioni assunte dal collaboratore.
Ai fini della responsabilità solidale di cui all’art. 2055, comma 1, c.c., è richiesto solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome – e pure se diversi siano i titoli di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale -in quanto la norma considera essenzialmente l’unicità del fatto dannoso, e riferisce tale unicità unicamente al danneggiato, senza intenderla come identità delle norme giuridiche violate. La fattispecie di responsabilità implica che sia accertato il nesso di causalità tra le condotte caso per caso, in modo da potersi escludere se a uno degli antecedenti causali possa essere riconosciuta efficienza determinante e assorbente tale da escludere il nesso tra l’evento dannoso e gli altri fatti, ridotti al semplice rango di occasioni (così da ultimo Cass. SS.UU. 13143/22).
La mera allegazione dei possibili teorici elementi che potrebbero influire sulla sussistenza dell’effetto di traslazione a valle del sovrapprezzo non può determinare per se stessa la prova in concreto dell’esistenza del fenomeno stesso nella fattispecie indagata, posto che ciò determinerebbe in radice l’impossibilità di conseguire il risarcimento di qualsiasi danno e dunque ostacolerebbe indebitamente il corretto sviluppo del private enforcement come elemento concorrente ed integrativo dell’intervento sanzionatorio degli organismi comunitari e nazionali di tutela della concorrenza.