Principi in tema di responsabilità precontrattuale: il contatto sociale qualificato
Il contatto sociale qualificato che si instaura tra le parti durante la fase delle trattative volte alla stipulazione di un contratto genera reciproco affidamento e costituisce fatto idoneo a produrre obbligazioni (art. 1173 c.c.) dal quale derivano reciprochi obblighi di buona fede, protezione e informazione, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c. Ne discendono una serie di conseguenze, in particolare, sul piano dell’onere della prova e della prescrizione.
La responsabilità precontrattuale regolamenta e limita la libertà negoziale: l’interesse tutelato non è quello all’adempimento (presidiato dalla responsabilità contrattuale), ma l’interesse, comune ad entrambe le parti e, quando realizzato, determinante una relazione specifica, al corretto svolgimento di trattative volte a verificare se vi siano o si possano creare le condizioni per la manifestazione di una comune volontà negoziale. Sicché dalla violazione dei canoni di buona fede e correttezza nella conduzione delle trattative discende il diritto della parte adempiente – non già alla conclusione del contratto, bensì – a ottenere il risarcimento dell’eventuale danno subito sub specie di interesse negativo.
Lo svolgimento delle trattative può altresì essere a sua volta oggetto di un contratto, attraverso strumenti normativamente atipici ma socialmente tipici, quali, tra gli altri, le offerte non vincolanti o le lettere di intenti. Nulla vieta dunque, in astratto, che le parti possano regolamentare, quale aspetto o modalità dello svolgimento delle trattative, attività di esame documentale (c.d. due diligence), con l’avvertenza che, perché si crei un vincolo contrattualmente cogente, devono ricorrere i relativi requisiti, tra i quali, ad esempio, la determinatezza o determinabilità dell’oggetto, cioè appunto dell’attività di esame documentale e quindi dei documenti rispetto ai quali essa si deve svolgere.
Il requisito della necessaria indicazione della causa di merito in un giudizio cautelare non va interpretato in termini strettamente formalistici, con conseguente obbligo in capo al ricorrente di indicare in maniera espressa gli estremi della futura domanda di merito, precisandone finanche le relative conclusioni. Ciò che rileva è, piuttosto, che sia possibile dedurre dal tenore complessivo del ricorso il contenuto del possibile giudizio di cognizione, senza necessità di un’indicazione testuale ed analitica delle richieste da proporsi successivamente in detta sede. Ne consegue che l’onere di specificare l’azione di merito può ritenersi pienamente assolto qualora i termini della controversia siano ricavabili dal contesto complessivo dell’atto, dalla ricostruzione dei fatti e dalle violazioni lamentate.
Clausola simul stabunt simul cadent e revoca dell’amministratore
Non c’è abusivo esercizio della clausola simul stabunt simul cadent (nel caso di specie con la previsione che, al venire meno della maggioranza dei componenti del consiglio di amministrazione, decade l’intero consiglio di amministrazione) nel caso di revoca dell’amministratore se le dimissioni dei consiglieri sono sorrette da valide ragioni e non strumentali alla revoca.
Anche ove dovesse ritenersi fondata la responsabilità di uno dei consiglieri per la promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c. (nel caso di specie non provata), con riguardo alla quantificazione del danno, il risarcimento del danno potrebbe essere parametrato, al più, al compenso dovuto per il periodo di preavviso. Non può invece considerarsi come componente automatica, nel conteggio del compenso annuale, anche la porzione variabile del corrispettivo.
Licenza di marchio, proroga tacita del contratto e principio di non contestazione
Non è revocabile in dubbio l’ammissibilità di una proroga tacita di un contratto, atteso che, secondo costante orientamento giurisprudenziale di legittimità, il contratto, pur a fronte di una clausola di rinnovo espresso, può proseguire di fatto a condizione che tale volontà di prorogare tacitamente il contratto risulti inequivoca.
In ossequio all’art. 115 c.p.c., perché un fatto allegato in causa sia controverso e, quindi, bisognoso di prova, è necessario che controparte svolga una contestazione specifica e puntuale. Il requisito di specificità è da ritenersi soddisfatto esclusivamente laddove la contestazione sia circostanziata, ovvero introduca elementi fattuali idonei a contrastare nel merito quanto asserito da controparte, dovendosi equiparare la contestazione generica ad una mancata contestazione. Sul tema, la giurisprudenza ha costantemente affermato che il giudice, in materia di diritti disponibili, debba ritenere sussistente, senza alcun bisogno di prova, il fatto costitutivo non contestato; tale principio risulta ben sintetizzato dall’attribuzione al fatto non contestato del carattere di “fatto pacifico”, pur in mancanza di un’ammissione esplicita o implicita (sul punto, ex plurimis, Cass. SS.UU. n. 261/02).
La domanda per una somma dovuta a titolo di royalties maturate sulla base di un contratto di licenza è oggetto di debito di valuta, il cui importo soggiace al principio del valore nominale di cui all’art. 1277 c.c. e, per l’effetto, non può essere oggetto di rivalutazione monetaria. Un debito di valuta, come tale, non è suscettibile di automatica rivalutazione per effetto del processo inflattivo della moneta; pertanto, spetta al creditore di allegare e dimostrare il maggior danno derivato dalla mancata disponibilità della somma durante il periodo di mora e non compensato dalla corresponsione degli interessi legali ex art. 1224, comma 2, c.c.
Con la promessa del fatto del terzo, il promittente assume una prima obbligazione di facere, consistente nell’adoperarsi affinché il terzo tenga il comportamento promesso, onde soddisfare l’interesse del promissario, ed una seconda obbligazione di dare, cioè di corrispondere l’indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia adoperato, il terzo si rifiuti di impegnarsi. Ne consegue che, qualora l’obbligazione di facere non venga adempiuta e la mancata esecuzione sia imputabile al promittente, ovvero venga eseguita in violazione dei doveri di correttezza e buona fede, il promissario avrà a disposizione gli ordinari rimedi contro l’inadempimento, quali la risoluzione del contratto, l’eccezione di inadempimento, l’azione di adempimento e, qualora sussista il nesso di causalità tra inadempimento ed evento dannoso, il risarcimento del danno; qualora, invece, il promittente abbia adempiuto a tale obbligazione di facere e, ciononostante, il promissario non ottenga il risultato sperato a causa del rifiuto del terzo, diverrà attuale l’altra obbligazione di dare, in virtù della quale il promittente sarà tenuto a corrispondere l’indennizzo.
In tema di domanda ex art. 96 c.p.c.: come noto, la condanna per risarcimento dei danni per lite temeraria può essere pronunciata, a condizione che l’iniziativa giudiziaria avversaria, oltre che infondata, sia tale da dimostrare la consapevolezza della sua infondatezza da parte dei ricorrenti e, contemporaneamente, un’ignoranza, gravemente colpevole, della sua inammissibilità.
La condanna del soccombente per lite temeraria postula, cioè, che l’istante deduca e dimostri la concreta ed effettiva esistenza di un pregiudizio in conseguenza del comportamento processuale della controparte. L’istante, peraltro, è tenuto, altresì, a dimostrare la ricorrenza in detto comportamento, del dolo o della colpa grave, cioè della consapevolezza o dell’ignoranza derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell’infondatezza delle proprie tesi, ovvero del carattere irrituale o fraudolento dei mezzi adoperati per agire o resistere in giudizio.
Il presupposto per l’applicabilità della norma di cui all’art. 96 c.p.c. – nel rispetto del principio secondo cui la responsabilità processuale aggravata si sostanzia in una forma di danno punitivo teso a scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia con la censura di iniziative giudiziarie avventate o meramente dilatorie – è la presenza, in capo al destinatario della condanna, della mala fede o della colpa grave previsti per la lite temeraria di cui al c. 1 di detta norma.
Natura, validità ed efficacia dei patti parasociali
I patti parasociali sono contratti atipici aventi carattere complementare e collaterale al contratto di società e sono diretti alla stabilizzazione degli assetti proprietari ovvero alla governance della società, quest’ultima intesa come “complesso delle attività svolte dagli organi societari”. Tali strumenti consentono, infatti, di neutralizzare ovvero temperare il conflitto che spesso sorge tra l’interesse personale del singolo socio, ovvero di gruppi di soci, e quello della società e possono essere stipulati in qualunque forma, tra soci ovvero anche tra soci e terzi estranei alla società.
L’introduzione degli artt. 2341 bis e 2341 ter c.c. ad opera del legislatore della riforma del 2003 ha avuto un duplice effetto: da un lato, quello di conferire dignità giuridica a tali accordi (della cui validità in passato si dubitava), e, dall’altro, di tipizzare taluni patti in funzione della loro idoneità a fornire alla società stabilità negli assetti proprietari o nel governo della società. L’art. 2341 bis c.c. disciplina espressamente i patti aventi ad oggetto l’esercizio del diritto di voto (cc.dd. sindacati di voto), quelli volti a limitare il trasferimento delle partecipazioni sociali (cc.dd. sindacati di blocco) e quelli aventi ad oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza anche dominante sulla società (cc.dd. sindacati di concertazione). Tale previsione normativa, lungi dal fornire una definizione di questa espressione dell’autonomia negoziale, è finalizzata a operare una selezione di tali patti (non sono previsti ad esempio i patti di consultazione, né quelli sull’acquisto di azioni) rispetto ai quali vi sia un interesse protetto al contenimento della durata e all’informazione di terzi. Infatti, per le convenzioni parasociali espressamente menzionate nella norma è prevista una durata massima di 5 anni e una particolare forma di pubblicità, ex art 2341 ter c.c. Come sancito dalla legge delega, però, le norme codicistiche che disciplinano i patti parasociali si applicano limitatamente alle s.p.a. e alle società che le controllano.
L’affermarsi di pratiche di affari sempre piu’ evolute, che richiedono versatilità e duttilità, hanno contribuito al ricorso frequente anche a forme atipiche di patti parasociali, cui, pertanto, trova applicazione la disciplina generale in materia di contratti. I patti parasociali (e, in particolare, i cc.dd. sindacati di voto) sono, nella loro composita tipologia (che non consente, pertanto, la riconduzione ad uno schema tipico unitario), accordi atipici, volti a disciplinare, in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti, il modo in cui dovrà atteggiarsi, su vari oggetti, il loro diritto di voto in assemblea. Il vincolo che discende da tali patti opera, pertanto, su di un terreno esterno a quello dell’organizzazione sociale (dal che, appunto, il loro carattere parasociale e, conseguentemente, l’esclusione della relativa invalidità ipso facto), sicchè non è legittimamente predicabile, al riguardo, né la circostanza che al socio stipulante sia impedito di determinarsi autonomamente all’esercizio del voto in assemblea, né quella che il patto stesso ponga in discussione il corretto funzionamento dell’organo assembleare (operando il vincolo obbligatorio così assunto non dissimilmente da qualsiasi altro possibile motivo soggettivo che spinga un socio a determinarsi al voto assembleare in un certo modo), poiché al socio non è in alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l’interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere dell’inadempimento del patto.
Talvolta, tali patti sono confezionati anche secondo lo schema della promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c. e ciò accade, allorquando, ad esempio, uno o più soci si impegnano nei confronti di altri soci o di terzi a ottenere una condotta di uno o più amministratori, spesso determinata per relationem, mediante rinvio alle decisioni assunte in sede parasociale dalla maggioranza dei soci sindacati o dall’organo direttivo del patto.
Ai fini, poi, della configurazione di tali accordi, non è essenziale che tutti i partecipanti rivestano la qualità di socio e che il patto parasociale, in forza del quale taluni soci si impegnano a eseguire prestazioni a beneficio della società, integri la fattispecie del contratto a favore di terzo ai sensi dell’art. 1411 c.c., del quale sono legittimati a pretendere l’adempimento sia la società, quale terzo beneficiario, sia i soci stipulanti, moralmente ed economicamente interessati a che l’obbligazione sia adempiuta nei confronti della società di cui fanno parte.
Non sussiste alcuna preclusione a che la convenzione parasociale venga sottoscritta oltre che dai soci anche da terzi, purché l’oggetto del patto sia l’assunzione di obbligazioni in relazione all’esercizio dei diritti sociali all’interno della società. Nessuna norma preclude a un terzo di prendere parte al patto parasociale, non essendo previste limitazioni soggettive, atteso che l’intesa deve vertere sostanzialmente sull’esplicazione dei diritti sociali all’interno della compagine societaria interessata.
Nessun precetto obbliga al fatto che la volontà assembleare si formi soltanto nel consesso assembleare (a tal proposito, emblematici sono gli istituti del voto per rappresentanza e per corrispondenza). Sono inderogabili le regole formali del procedimento assembleare (convocazione, votazione, verbalizzazione, ecc.), ma non quelle relative alle modalità di formazione della volontà dei soci. Pertanto, se i criteri di nomina degli amministratori o la formazione della volontà dell’organo consiliare sono prestabiliti all’esterno, rispettivamente, dell’assemblea sociale o del CdA, ciò non assume conseguenze particolari sulla compagine societaria o sull’ordinamento societario, semprechè non si configuri un conflitto con l’interesse sociale.
Il patto parasociale vincola il parasocio ad assumere un certo comportamento all’interno della vita societaria, ma lo stesso non assume un obbligo coercitivo in tal senso. Il socio conserva comunque il diritto alla libera partecipazione alla formazione della volontà assembleare e, quindi, può liberamente decidere di non rispettare il sindacato di voto, né tantomeno l’adempimento può essere suscettibile di esecuzione in forma specifica. Il mancato rispetto del patto parasociale lo esporrà inevitabilmente alle conseguenze dell’inadempimento, ma non condiziona sempre e comunque l’esercizio dei propri diritti sociali. D’altra perte, il patto con cui alcuni soci si accordino per votare in una certa maniera non costituisce di per sé una violazione del principio della libertà di voto poiché i soci sono comunque liberi di disporre del proprio voto, né il patto di per sé pone in discussione il corretto funzionamento dell’organo assembleare sotto il profilo di una alterazione della corretta formazione della maggioranza poiché al socio non è in alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l’interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere dell’inadempimento del patto.
[Nella specie, il Tribunale ha dichiarato la nullità parziale di una clausola del patto che stabiliva un quorum di approvazione del 70% in relazione a qualsiasi delibera assembleare per contrarietà al disposto dell’art. 2369, co. 4, c.c. – ai sensi del quale lo statuto non può imporre maggioranze più elevate per l’approvazione del bilancio e per la nomina e revoca delle cariche sociali – senza che ciò determinasse l’estensione di tale nullità parziale alle altre disposizioni del patto parasociale, le quali non erano contrarie a norme imperative o elusive di norme o principi dell’ordinamento].
Perché un soggetto sia considerato amministratore di fatto della società, le attività gestorie dallo stesso poste in essere devono presentare carattere sistematico e non si devono esaurire soltanto nel compimento di singoli atti di natura eterogenea ed occasionale; sempre che detto esercizio non sia giustificabile in base ad un rapporto lavorativo subordinato e/o autonomo con la società, per cui l’interessato verta in una posizione di subordinazione o soggiaccia a poteri di direttiva dell’amministratore di diritto. Non è richiesta la riferibilità degli atti compiuti all’intero spettro delle attività amministrative, risultando sufficiente un intervento incisivo e non occasionale, che, in quanto idoneo a influenzare le scelte imprenditoriali in settori chiave, sia tale da improntare di sé l’operato complessivo della società. In quest’ottica, pur dovendosi riconoscere che un siffatto condizionamento non può non trasparire nei rapporti con i terzi, deve altresì escludersi la necessità che esso si traduca nel diretto compimento di atti a rilevanza esterna, risultando invece sufficiente che le determinazioni riguardanti la gestione sociale siano riconducibili alla volontà dell’amministratore di fatto, eventualmente anche in concorso con l’amministratore di diritto, il quale non deve necessariamente rivestire il ruolo di mero prestanome.
Ai fini della riduzione ad equità della clausola penale ex art. 1384 c.c., l’apprezzamento dell’eventuale eccessività della penale per inadempimento suppone – si tratti di richiesta di parte o di iniziativa d’ufficio – che le circostanze rilevanti per il giudizio di sproporzione comunque emergano dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, quale risultante ex actis, senza che il giudice possa ricercarlo d’ufficio. L’intervento di riduzione ad equità presuppone che la manifesta eccessività della penale sia valutata tenendo conto dell’interesse che il creditore aveva all’adempimento.
Scissione societaria e patti connessi
Il patto di opzione di vendita previsto in un accordo contrattuale in stretta connessione con un’operazione di scissione deve ritenersi venuto meno per fatti concludenti se non risulti più riprodotto né nel progetto di scissione, né nell’atto di scissione definitivo, né nei verbali assembleari di approvazione dell’operazione.
Operazioni straordinarie e promessa del fatto del terzo
Nel caso di promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo (nel caso di specie avente ad oggetto l’esecuzione di operazioni straordinarie aventi quali effetto il trasferimento della titolarità di un certo compendio patrimoniale), il promittente dell’obbligazione che sia rimasto del tutto inoperoso non essendosi attivato con la dovuta diligenza, va condannato a rifondere i danni cagionati dal suo totale inadempimento già al primario obbligo di facere diligenter.
Cessione di quote sociali e promessa del fatto del terzo
Nell’ambito di un’operazione di cessione di quote sociali, dove l’acquirente si adoperi affinché un terzo provveda al pagamento del corrispettivo della cessione medesima, tale impegno non costituisce [ LEGGI TUTTO ]
Impossibilità sopravvenuta della prestazione e inadempimento del terzo
L’inadempimento del terzo che si era obbligato con il convenuto a procurare la provvista necessaria per permettere a quest’ultimo di sottoscrivere un aumento di capitale deliberato dalla società attrice [ LEGGI TUTTO ]
Promessa del fatto del terzo: opzione di acquisto e di vendita non vincolante
L’accordo tra due società, a loro volta socie al 50% di una holding, contenente specifici impegni e indicazioni programmatiche per l’assegnazione delle attività del gruppo in seguito al progetto di scissione [ LEGGI TUTTO ]
Questioni in materia di interpretazione del contratto: promessa del fatto del terzo o contratto a favore di terzo
La qualificazione giuridica attribuita dalle parti all’accordo può essere superata dal Giudice, in forza del principio iura novit curia, purché egli ponga a fondamento dell’operazione in parola gli stessi elementi di fatto esposti dalle parti ed il loro oggetto (nel caso di specie, la clausola [ LEGGI TUTTO ]