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Responsabilità degli amministratori e dei sindaci di s.p.a.

La sospensione necessaria del processo civile ai sensi degli articoli 295 c.p.c., 654 c.p.c. e 211 disposizioni attuazione c.p.p., in attesa del giudicato penale, può essere disposta solo se una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile ed a condizione che la sentenza penale possa avere, nel caso concreto, valore di giudicato nel processo civile. Perché si verifichi tale condizione di dipendenza tecnica della decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto in ambito civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto dell’imputazione penale.

L’identificazione dell’oggetto della domanda va peraltro operata avendo riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati, producendosi la nullità solo quando, all’esito del predetto scrutinio, l’oggetto risulti “assolutamente” incerto.

Nel giudizio promosso dal curatore per il recupero di un credito del fallito il convenuto può eccepire in compensazione, in via riconvenzionale, l’esistenza di un proprio controcredito verso il fallimento, atteso che tale eccezione è diretta esclusivamente a neutralizzare la domanda attrice ottenendone il rigetto totale o parziale, mentre il rito speciale per l’accertamento del passivo previsto dagli artt. 93 e ss. l. fall. trova applicazione nel caso di domanda riconvenzionale, tesa ad una pronuncia a sé favorevole idonea al giudicato, di accertamento o di condanna al pagamento dell’importo spettante alla medesima parte una volta operata la compensazione (cfr. Cass. civ., 14 maggio 2024, n. 13345).

I provvedimenti resi sulla denuncia di irregolarità nella gestione di una società, ai sensi dell’art. 2409 cod. civ., ancorché comportino la nomina di un ispettore o di un amministratore con la revoca di quello prescelto dall’assemblea, ovvero decidano questioni inerenti alla regolarità del relativo procedimento, sono privi di decisorietà, in quanto, nell’ambito di attribuzioni di volontaria giurisdizione rivolte alla tutela di interessi anche generali ed esercitate senza un vero e proprio contraddittorio, si risolvono in misure cautelari e provvisorie, e, pur coinvolgendo diritti soggettivi, non statuiscono su di essi a definizione di un conflitto tra parti contrapposte, nè hanno attitudine ad acquistare autorità di giudicato sostanziale.

In caso di decadenza del sindaco, è necessario anche ai fini dell’applicabilità del meccanismo di sostituzione previsto dall’art. 2401 c.c. e, ulteriormente, ai fini dell’iscrizione nel Registro delle Imprese della cessazione della carica e della nomina del nuovo del sindaco, una deliberazione formale risulta un passaggio inevitabile per consentire che l’avvenuta decadenza sia resa conoscibile alla società ed ai terzi, nei confronti dei quali la decadenza sarà opponibile solo in seguito a tale iscrizione.

Posto che è lo stesso art. 2938 c.c. a stabilire espressamente la non rilevabilità d’ufficio della prescrizione – è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che l’eccezione di prescrizione costituisce eccezione in senso proprio e che, come tale, deve essere tempestivamente sollevata dalla parte.

A norma dell’art. 50 c.p.c., se la riassunzione della causa — disposta a seguito di una pronuncia dichiarativa di incompetenza — davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato, il processo continua davanti al nuovo giudice mantenendo una struttura unitaria e, perciò, conservando tutti gli effetti sostanziali e processuali di quello svoltosi davanti al giudice incompetente, poiché la riassunzione non comporta l’instaurazione di un nuovo processo, bensì costituisce la prosecuzione di quello originario.

Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., pur essendo tra loro distinte – in caso di fallimento – confluiscono nell’unica azione di responsabilità esercitabile da parte del curatore ai sensi dell’art. 146 L.F., la quale – assumendo contenuto inscindibile e connotazione autonoma rispetto alle prime, attesa la ratio ad essa sottostante identificabile nella destinazione di strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali – implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne immuta i presupposti.

Le due azioni, anche se esercitate cumulativamente ai sensi dell’art. 146 L.F., debbono considerarsi distinte, perché basate su presupposti differenti e soggette a diverso regime giuridico, con particolare riferimento al calcolo dei termini per la prescrizione.

Con riguardo all’azione sociale, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2935 c.c., il termine prescrizionale decorre dal momento in cui il danno diventi oggettivamente percepibile all’esterno e cioè si sia manifestato nella sfera patrimoniale della società – non rilevando a tal fine che l’azione di responsabilità abbia natura contrattuale ex art. 2392 c.c., in virtù del rapporto fiduciario intercorrente con l’amministratore – ferma restando, però, la sospensione del termine fino a quando l’amministratore sia in carica (art. 2941 n. 7 c.c.).

L’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2394 c.c., esercitata dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l. fall., è soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti; pertanto, in ragione dell’onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione “iuris tantum” di coincidenza tra il “dies a quo” di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull’amministratore la prova contraria della diversa data, anteriore, di insorgenza e percepibilità dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (cfr. Cass. civ., 14 giugno 2014, n. 13378; Cass. civ., 4 dicembre 2015, n. 24715; da ultimo, Cass. civ., 6 febbraio 2023, n. 3552).

Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti, dalla quale decorre la prescrizione dell’azione dei creditori, ex art. 2395 c.c., proposta nei confronti degli amministratori e dei sindaci per mala gestio, consiste nella eccedenza delle passività sulle attività: non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale (che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo) né allo stato di insolvenza, trattandosi di uno squilibrio patrimoniale più grave e definitivo che può essere sia anteriore che posteriore alla dichiarazione di fallimento (ex multis, cfr. Cass. civ. n. 25977/2008; Cass. civ. n. 24175/15).

In tema di responsabilità dell’amministratore di una società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata, l’insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione (c.d. “business judgement rule”) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia “ex ante”, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell’art. 2392 c.c., sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere (cfr. Cass. civ., , 22 giugno 2017, n. 15470).

L’azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l’attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi imposti (cfr. Cass. civ., 11 novembre 2010, n. 22911; Cass. civ., 7 febbraio 2020, n. 2975).

Tralasciando i profili di responsabilità propria dei sindaci, la responsabilità degli organi di controllo delle società di capitali può derivare anche da un comportamento doloso o colposo degli amministratori che i sindaci avrebbero potuto e dovuto prevenire od impedire nell’espletamento della loro funzione di vigilanza: si parla, con riferimento a tali ipotesi, di responsabilità dei sindaci concorrente con quella degli amministratori.

Come si vede, la responsabilità dei sindaci, anche nell’ipotesi in cui essa sia concorrente rispetto a quella degli amministratori, non costituisce una responsabilità indiretta, ma una responsabilità per fatto proprio consistente nella violazione del dovere di vigilare diligentemente sull’operato degli amministratori: si tratta, all’evidenza, di una responsabilità per culpa in vigilando. Il dovere di vigilanza e di controllo imposto ai sindaci delle società per azioni dall’art. 2403 c.c. concerne l’operato degli amministratori e tutta l’attività sociale, al fine di assicurare che la stessa venga svolta nel rispetto della legge e dell’atto costitutivo.

Integra violazione dei doveri di controllo, posti dall’art. 2407 c.c., l’omessa vigilanza circa il compimento da parte dell’organo amministrativo di irregolarità di gestione per operazioni non riportate nella contabilità e per finanziamenti a società collegate divenuti causa del dissesto finanziario della società poi dichiarata fallita (cfr. Cass. Civ., 6 settembre 2007, n. 18728).

I sindaci non esauriscono l’adempimento dei proprio compiti con il mero e burocratico espletamento delle attività specificamente indicate dalla legge avendo, piuttosto, l’obbligo di adottare (ed, anzi, di ricercare lo strumento di volta in volta più consono ed opportuno di reazione, vale a dire) ogni altro atto (del quale il sindaco deve fornire la dimostrazione) in relazione alle circostanze del caso (ed, in particolare, degli atti o delle omissioni degli amministratori che, in ipotesi, non siano stati rispettosi della legge, dello statuto o dei principi di corretta amministrazione) fosse utile e necessario ai fini di un’effettiva ed efficace (e non meramente formale) vigilanza sull’amministrazione della società e le relative operazioni gestorie” (cfr. Cass. civ., n.3459/2024).

L’accertamento, da parte dell’amministratore unico ovvero da parte del consiglio di amministrazione, del verificarsi di una causa di scioglimento della società non ha carattere, né effetto costitutivo dello stato di scioglimento, ma puramente e semplicemente dichiarativo del medesimo. Conseguentemente, il divieto di compiere atti non conservativi sorge per il solo verificarsi della causa di scioglimento, anche prima ed indipendentemente dal fatto che l’assemblea ne prenda o ne abbia preso atto.

Le condizioni della azione di risarcimento danni nei confronti degli amministratori, riconducibile all’attività da essi posta in essere dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, sono il compimento, dopo tale evento, di atti di gestione non aventi una finalità meramente conservativa del patrimonio sociale (liquidatoria), il danno ed il nesso di causalità tra condotta e danno….la parte che agisce in giudizio (la curatela) ha l’onere di allegare e provare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuta, invece, a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d’impresa e non abbiano una finalità liquidatoria. Spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari. Di fronte all’allegazione della curatela relativa al compimento, da parte dell’amministratore, successivamente al verificarsi della causa di scioglimento della società, di atti produttivi di nuovi debiti è onere dell’amministratore provare che gli atti in oggetto non fossero espressione della normale attività di impresa, ma avessero una natura meramente liquidatoria” (Cass. civ., 5 gennaio 2022, n. 198).

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, comma 2, l.fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo (cfr. Cass. civ., 17maggio 2021, n. 13220; Cass. civ., 12 maggio 2022, n. 15245).

In tema di responsabilità degli amministratori di società di capitali per il compimento di atti gestori non conservativi dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, i criteri di liquidazione del danno previsti dall’art. 2486, comma 3, c.c., come modificato dall’art. 378, comma 2, del d.lgs. n. 14 del 2019, costituiti dalla differenza dei netti patrimoniali e dal deficit patrimoniale, attengono ad una valutazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. e sono applicabili – a meno che in causa non siano dedotti e individuati elementi di fatto legittimanti l’uso di un diverso criterio liquidatorio più aderente alla realtà del caso concreto – anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore della citata norma (cfr. Cass. civ., 25 marzo 2024, n. 8069).

In materia di responsabilità degli organi sociali, la configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci (art. 2407, comma 2, c.c.), non richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una evidente violazione, ovvero, non abbiano reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non adempiere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunciando i fatti al Pubblico Ministero. Pertanto ai fini della configurabilità della responsabilità dei sindaci, non è richiesto che un particolare comportamento, sia espressamente previsto dalla legge. Sussiste, infatti, un obbligo di attivazione e di immediata reazione dei sindaci tutte le volte in cui gli organi amministrativi abbiano compiuto atti di mala gestio (cfr. Cass. civ., 19 febbraio 2024, n. 4315).

19 Giugno 2024

Inidoneità della mancanza delle scritture contabili a giustificare la condanna dell’amministratore

La mancanza di scritture contabili, ovvero la sommarietà di redazione di esse o la loro inintelligibilità, non è di per sé sufficiente a giustificare la condanna dell’amministratore in conseguenza dell’impedimento frapposto alla prova occorrente ai fini del nesso di causalità rispetto ai fatti causativi del dissesto. Essa presuppone, invece, per essere valorizzata in chiave risarcitoria nel contesto di una liquidazione equitativa, che sia comunque previamente assolto l’onere della prova, e prima ancora dell’allegazione, circa la l’esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale. Il criterio del deficit fallimentare è applicabile soltanto come criterio equitativo per l’ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente il danno, sussistendo però la prova almeno presuntiva di condotte tali da generare lo sbilancio fra attivo e passivo.

Le scritture contabili hanno la funzione di rappresentare dei fatti di gestione e la loro mancanza o la loro irregolare tenuta sono illeciti meramente formali che certamente sono suscettibili di essere valorizzati ad esempio ai fini della revoca dell’amministratore o della denuncia al tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c., ma che, ai fini della responsabilità dello stesso amministratore, non hanno di per sé soli una rilevanza tale da consentire di addebitare allo stesso sic et simpliciter la perdita.

Il risultato negativo di esercizio non è conseguenza immediata e diretta della mancata o dell’irregolare tenuta delle scritture contabili, ma del compimento da parte dell’amministratore di un atto di gestione contrario ai doveri di diligenza, prudenza, ragionevolezza e corretta gestione.

È onere di colui che afferma l’esistenza di una responsabilità dell’amministratore allegare specificamente l’atto o gli atti contrari ai doveri gravanti sull’amministratore, dimostrare l’esistenza di tale atto e del danno al patrimonio sociale. Soltanto una volta soddisfatti tali oneri, la mancanza delle scritture contabili rileva quale presupposto per l’utilizzo dei criteri equitativi differenziali. Il potere del giudice di liquidare equitativamente il danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. presuppone pur sempre che vi sia la prova dell’esistenza del medesimo e del nesso di causalità ma che la quantificazione del danno non sia agevole; il potere, invece, non può essere esercitato né invocato dal danneggiato quale modalità per aggirare l’onere della prova relativamente agli elementi costitutivi dell’illecito.

Con riguardo alla responsabilità dell’amministratore per la violazione degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, la quale sia stata compromessa da prelievi di cassa o pagamenti in favore di terzi in assenza di causa, deve ritenersi dimostrata per presunzioni la distrazione del denaro sociale da parte dell’amministratore ove questi non provi la riferibilità alla società delle spese o la destinazione dei pagamenti all’estinzione di debiti sociali.

2 Novembre 2023

Omesso versamento del capitale sociale: non rispondono gli amministratori della società emittente

Il mancato versamento di quanto dovuto a titolo di liberazione di quote di partecipazione sottoscritte in sede di aumento di capitale non costituisce fonte di responsabilità per gli amministratori della società emittente. La sottoscrizione prima e la mancata liberazione poi del capitale sociale, infatti, è imputabile solo agli amministratori della società socia che ha sottoscritto l’aumento, in quanto il diritto di opzione sulle quote di nuova emissione spetta unicamente al socio e gli amministratori della società emittente non possono escluderlo.

[Nel caso di specie il Fallimento della società emittente ha esperito azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci ai sensi dell’art. 146 l. fall. lamentando la loro negligenza in relazione al mancato versamento, da parte della società socia, della quota capitale sottoscritta a seguito dei vari aumenti di capitale deliberati dalla società emittente. Il Tribunale di Milano ha ritenuto non sussistere la predetta responsabilità in quanto l’inadempimento del socio all’obbligo di versare quanto dovuto a titolo di liberazione è imputabile solo agli amministratori della società socia]

11 Luglio 2023

Non sussiste responsabilità dell’amministratore nei confronti del singolo socio per danni riflessi

L’art. 2395 c.c. fa riferimento alle disposizioni che immediatamente lo precedono, disciplinanti la responsabilità degli amministratori nei confronti della società per i comportamenti, di tipo commissivo ovvero omissivo, costituenti violazione del dovere di diligenza nell’esercizio dell’attività gestoria loro affidata dall’assemblea che li ha nominati, con la conseguenza che la loro responsabilità nei confronti dei soci e dei terzi ben può essere affermata per violazione degli obblighi di vigilanza e controllo loro imposti dall’art. 2392, co. 2, c.c., sussistente anche nel caso di deleghe conferite in applicazione del precedente art. 2381 c.c. e sempre che il danno cagionato al socio o al terzo non costituisca solo il riflesso di quello cagionato alla società.

L’azione individuale del socio nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’art. 2395 c.c. esige che il singolo socio sia stato danneggiato “direttamente” dagli atti colposi o dolosi dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società; la mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non rappresentano danno diretto del singolo socio, poiché gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all’eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell’amministratore.

19 Aprile 2023

I limiti della business judgment rule

Il sindacato giudiziale sulla condotta degli amministratori della società, quale fonte di responsabilità, non può avere ad oggetto il merito delle scelte imprenditoriali, non potendosi addebitare gli esiti economici negativi di dette scelte che dipendano dal rischio economico a cui è soggetta l’impresa, secondo il principio della business judgment rule. Tuttavia, la regola di insindacabilità in discussione trova precisi limiti che, se travalicati, impongono un giudizio di responsabilità gestoria in capo agli amministratori. La regola di insindacabilità gestoria incontra un primo limite che concerne il grado di diligenza dell’amministratore nel processo decisionale seguito, che deve essere preceduto dalle verifiche e dall’acquisizione di informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo. Un secondo limite concerne la razionalità della scelta, dovendo sussistere coerenza tra le informazioni assunte, le verifiche effettuate e la decisione assunta.

30 Marzo 2023

Responsabilità dell’amministratore per disinteresse nella gestione sociale

L’amministratore che si disinteressa completamente della gestione sociale prestandosi a fornire copertura alla gestione di fatto da parte di un soggetto non investito della carica o, diversamente, che non reagisce ai comportamenti prevaricatori di colui che si ingerisce nella gestione viene, per ciò solo, gravemente meno ai doveri derivanti dall’incarico che gli impongono una condotta coerente con le esigenze di tutela dell’integrità del patrimonio sociale integrando una sua diretta responsabilità.

13 Febbraio 2023

Concorrenza sleale: dies a quo del termine di prescrizione e relativo danno.

In tema di comportamento anticoncorrenziale, la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.), decorrendo dal giorno in cui il fatto si è verificato, tuttavia inteso non con riferimento al momento in cui il fatto produce il danno, bensì con riguardo al momento in cui il danno ingiusto si manifesta all’esterno, divenendo percepibile dal danneggiato, mediante l’ordinaria diligenza. In altri termini, il termine prescrizionale decorre dal momento in cui il danneggiato ha avuto reale (e concreta) percezione dell’esistenza (ed entità) del danno, nonché della sua addebitabilità a un determinato soggetto.

In tema di illecito anticoncorrenziale, per agire in giudizio contro il concorrente sleale non è sufficiente dimostrare che questi si arricchisce violando le regole della correttezza professionale, occorrendo invece che l’attore alleghi che la condotta del convenuto risulti essere potenzialmente dannosa per la propria azienda; d’altronde, in materia di concorrenza sleale, il danno non è in re ipsa e, come tale, la sua sussistenza deve essere oggetto di specifica allegazione e prova, così come la sua liquidazione deve essere compiuta dal Giudice sulla base non di valutazioni astratte, ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questi dedotto e provato.

7 Novembre 2022

Responsabilità dell’amministratore per omesso pagamento delle imposte

La responsabilità dell’amministratore per omesso pagamento delle imposte costituisce una tipica ipotesi di responsabilità per fatto proprio, che trova la sua fonte immediata nella violazione dei doveri comportamentali fissati dalle disposizioni di legge, che pongono a carico diretto degli amministratori o liquidatori di un soggetto tassabile uno specifico obbligo nei confronti del fisco, avente quale contenuto il provvedere, nella loro qualità, al pagamento delle imposte con l’attivo sociale. Al riguardo, occorre distinguere tre ipotesi: (i) quella in cui la società – quando l’amministratore ha omesso il pagamento del dovuto all’erario – fosse in bonis, avendo liquidità ed essendo in grado di pagare i debiti erariali. In tal caso l’amministratore inadempiente risponde dei danni procurati alla società in misura pari alle sanzioni, interessi ed aggi addebitati dall’erario alla società stessa, come liquidati nel relativo accertamento tributario ovvero nella cartella esattoriale; (ii) quella in cui l’amministratore eccepisca e provi ex art. 1218 c.c. di non aver potuto pagare le imposte in ragione dell’incapacità finanziaria/incapienza patrimoniale della società; (iii) quella in cui, pur non essendo la società in grado di pagare i debiti erariali ed in stato di scioglimento per perdita del capitale sociale, tuttavia l’amministratore abbia illegittimamente proseguito nello svolgimento di attività economica con assunzione di nuovo rischio imprenditoriale. In tal caso, lo stesso risponde dei danni in misura pari al debito per sanzioni, interessi ed aggi addebitati alla società con riferimento a quei debiti erariali non pagati che la società non avrebbe contratto se fosse stata tempestivamente posta in liquidazione ed avesse conseguentemente cessato l’attività. Trattandosi di fattispecie di responsabilità contrattuale, il fallimento attore è tenuto ad allegare il mancato rispetto da parte dell’amministratore sociale all’obbligazione di pagamento del fisco e ad adempiere all’onere della prova producendo le cartelle esattoriali notificate alla società e le relative domande di insinuazione al passivo, onere di allegazione e dimostrazione soddisfatto nel caso di specie. Il convenuto è tenuto a dimostrare l’adempimento o la non imputabilità ex art 1218 c.c. per essersi trovata la società nell’impossibilità di versare i tributi dovuti per incapienza patrimoniale o incapacità finanziaria, con ciò escludendo una sua responsabilità per omissione.