Diritto di ispezione del socio di s.r.l.: abuso del diritto e azione cautelare
Il secondo comma dell’articolo 2476 c.c. attribuisce ai soci di s.r.l. che non partecipano all’amministrazione il diritto di ricevere dagli amministratori informazioni sullo svolgimento degli affari sociali, il diritto di consultare i documenti relativi all’amministrazione, al fine di acquisire ogni informazione ed ogni documentazione utile alla valutazione della situazione patrimoniale ed economico-finanziaria della società. Detto diritto si qualifica come potestativo e può essere finalizzato non solo all’esercizio dell’azione di responsabilità, ma anche al soddisfacimento di una qualunque prerogativa del socio.
Per quanto ampie siano le facoltà connesse all’esercizio del diritto di ispezione, quest’ultimo, al pari di ogni altro diritto soggettivo, dev’essere esercitato in conformità ai doveri di correttezza e buona fede oggettiva, espressione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale imposti dall’art. 2 della Costituzione. Di conseguenza, anche tale diritto incontra un limite generale nell’abuso del diritto.
L’azione cautelare volta alla tutela del diritto di ispezione – per quanto assai ampio – suppone comunque, come tutte, che sussista interesse ad agire, cioè che quel diritto sia negato o contestato: non può richiedersi in sede cautelare la tutela di un diritto ispettivo che non è stato negato, contestato od il cui esercizio non sia stato ostacolato dalla società obbligata.
Azione di impugnazione della delibera del consiglio di amministrazione di s.r.l.
L’art. 2388 c.c., applicabile anche alle delibere assunte dal consiglio di amministrazione delle s.r.l., contiene un principio generale di sindacabilità – ad iniziativa degli amministratori assenti o dissenzienti ovvero dei soci i cui diritti siano stati direttamente incisi – che si realizza mediante applicazione delle regole contenute nell’art. 2377 c.c., a sua volta espressivo di un principio generale di sindacabilità delle deliberazioni di tutti gli organi sociali per contrarietà alla legge o all’atto costitutivo, in conformità ad un orientamento giurisprudenziale che, nonostante la letterale limitazione dell’impugnabilità delle delibere del consiglio di amministrazione, sia della s.p.a. sia della s.r.l., viziate dal voto determinante di amministratori versanti in conflitto di interesse, ne ha fatto applicazione superando la predetta limitazione.
Tale impugnabilità va circoscritta negli stessi limiti previsti dalla disposizione in materia di s.p.a., limiti che sono preordinati ad accentuare il regime di stabilità delle deliberazioni dell’organo gestorio rispetto a quello proprio delle deliberazioni dell’organo assembleare, in particolare la disciplina ex art. 2388 c.c. sotto il titolo di “validità delle deliberazioni del consiglio”, non operando per le prime (a differenza di quanto previsto per le seconde dagli artt. 2377 e 2378 c.c.) alcuna distinzione tra ipotesi di c.d. “annullabilità” e “nullità”, consente l’impugnabilità delle delibere del consiglio di amministrazione in ogni caso solo ai soggetti specificatamente indicati ed entro il termine di decadenza previsto, e ciò a prescindere dalla “gravità” del vizio denunciato, salva l’ipotesi estrema di delibera inesistente, vale a dire di delibera non riconducibile in alcun modo a una manifestazione di volontà – sia pure irrituale – di organo gestorio.
L’art. 2388 c.c. attribuisce la legittimazione ad agire all’azione di impugnazione della delibera del consiglio di amministrazione all’amministratore assente o dissenziente, ponendo la qualifica di amministratore quale condizione dell’azione. La legittimazione ad agire e l’interesse ad agire costituiscono condizioni dell’azione che devono sussistere fino al momento della decisione e la cui carenza è rilevabile anche d’ufficio. L’amministratore cessato difetta di interesse ad agire, che è collegato alla funzione di amministratore.
Responsabilità dell’amministratore per la continuata e sistematica omissione di pagamenti verso l’erario, nonché per l’indebita prosecuzione dell’attività di impresa
Responsabilità dell’amministratore per omessa cessazione dell’attività e richiesta di auto fallimento
In tema di società di capitali, l’amministratore, pur nominato quando la società si trovi già in stato di insolvenza, è tenuto a prendere atto dell’impossibilità di proseguire l’attività d’impresa e chiedere il fallimento ex art. 14 l. fall., non essendo sufficiente per escluderne la responsabilità il mancato compimento di attività non conservativa (nella specie, l’inerzia dell’amministratore aveva comportato la maturazione di maggiori interessi passivi e sanzioni del valore di circa un milione e mezzo di euro, aggravando in tal modo lo stato di indebitamento della società).
Responsabilità del liquidatore di una società di capitali
L’inadempimento contrattuale di una società di capitali nei confronti di un terzo non implica automaticamente l’esistenza di una responsabilità risarcitoria degli amministratori (o del liquidatore), atteso che tale responsabilità – di natura extracontrattuale – richiede la prova di una condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso di causalità sussistente fra i due.
L’approdo cui è pervenuto il legislatore nel conformare la responsabilità del liquidatore è frutto di una linea comune di pensiero giurisprudenziale e dottrinale che nel corso degli anni si è sviluppata intorno al tema della responsabilità degli organi liquidatori nei confronti della società, dei creditori sociali e dei soci, sull’assunto che essi sono tenuti al precipuo obbligo di liquidare al meglio – in modo utile – l’attivo patrimoniale, per ripartirlo equamente tra i soci solo una volta effettuato il pagamento dei debiti sociali, secondo l’ordine legale di priorità dei corrispondenti crediti sancito nel piano di liquidazione.
Quanto alla prova della effettiva lesione del credito subita a causa della condotta di mala gestio addebitabile al liquidatore, non rileva tanto la sussistenza o meno di un residuo attivo da ripartire tra i soci nel bilancio finale di liquidazione, né tantomeno l’appostazione o meno nel bilancio finale di liquidazione del corrispondente debito sociale non pagato, quanto piuttosto l’indicazione, da parte del creditore che agisce in responsabilità, del credito sociale non considerato e dello specifico danno subito in rapporto ad altri crediti andati soddisfatti, poiché, tramite il richiamo alla colpa del liquidatore, occorre dedurre e allegare le specifiche condotte del liquidatore che si pongono in violazione degli obblighi connaturati all’incarico ricevuto.
Conseguentemente ex latere creditoris, il creditore rimasto insoddisfatto dall’attività liquidatoria, per far valere la responsabilità del liquidatore, dovrà dedurre il mancato soddisfacimento di un diritto di credito provato come esistente, liquido ed esigibile al tempo dell’apertura della fase di liquidazione e il conseguente danno determinato dall’inadempimento.
Azione di responsabilità nei confronti degli attuali amministratori di s.r.l. con estensione a carico dei precedenti
In un giudizio di responsabilità di amministratori, di fatto o di diritto, di società a responsabilità limitata, la circostanza per cui il socio amministratore convenuto chiami in causa, quali corresponsabili, i precedenti amministratori integra la fattispecie di cui all’art. 2476, co. 3, c.c. esercitata dal socio amministratore in surroga alla società. Corresponsabilità che, tuttavia, incontra un limite nel decorso del periodo di prescrizione quinquennale dalla cessazione della carica di amministratore.
In tale giudizio di responsabilità, che assume rilievo ogni qual volta risulti violato, dagli amministratori di fatto o di diritto, il dovere di diligenza professionale posto dagli artt. 2392 e 2476 c.c. e che si sostanzia nella gestione del patrimonio sociale e nella conduzione dell’attività economica nel modo più idoneo agli interessi della società, quest’ultima (o il socio che agisce in surroga ai sensi dell’art. 2476, co. 3, c.c.) ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni, l’illiceità delle condotte ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi; grava invece sugli amministratori, di fatto o di diritto, convenuti l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
Azione di responsabilità ex art. 2476 c.c.: profili processuali e natura del debito risarcitorio
L’art. 2476, co. 3, c.c. contempla un’ipotesi di sostituzione processuale che rende comunque necessaria la compartecipazione al giudizio della società titolare del credito risarcitorio, in quanto nel suo patrimonio confluirà la somma eventualmente liquidata all’esito positivo del giudizio, onde, la sua presenza attiva, con possibilità anche di resistere all’azione, si giustifica anche in ragione del brocardo nemo invitus locupletari potest.
Alla luce del disposto dell’art. 2476 c.c., chi non riveste il ruolo di legale rappresentante, socio e/o creditore della società non è legittimato in alcun modo ad agire per conto e/o in luogo di quest’ultima per far valere la responsabilità degli amministratori.
L’interesse richiesto per la legittimazione all’intervento adesivo dipendente nel processo in corso fra altri soggetti (art. 105, co. 2, c.p.c.), deve essere non di mero fatto, ma giuridico, nel senso che tra adiuvante e adiuvato deve sussistere un vero e proprio rapporto giuridico sostanziale, tal che la posizione soggettiva del primo in questo rapporto possa essere – anche solo in via indiretta o riflessa – pregiudicata dal disconoscimento delle ragioni che il secondo sostiene contro il suo avversario in causa.
Quantificazione del danno per indebita prosecuzione dell’attività in presenza di una causa di scioglimento
Il danno arrecato alla società ed ai creditori sociali per l’indebita prosecuzione dell’attività malgrado la sussistenza di una causa di scioglimento, nell’impossibilità di un più preciso conteggio, può quantificarsi, secondo i criteri consolidati nella più recente giurisprudenza di legittimità, nella differenza tra il patrimonio netto stimato alla data del fallimento, e quello stimato alla data del verificarsi della causa di scioglimento, dedotti quei costi che sarebbero stati sostenuti anche nella fase di liquidazione, e previa riclassificazione dei dati patrimoniali in prospettiva liquidatoria.
Azione sociale di responsabilità nella s.r.l.
L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità deve essere deliberato, anche nelle società a responsabilità limitata, dall’assemblea dei soci. L’autorizzazione assembleare, dunque, si pone come requisito necessario per attribuire al legale rappresentante della società la legittimazione processuale e la volontà dei soci deve necessariamente essere espressa mediante una deliberazione da assumersi nell’assemblea in sede ordinaria (art. 2364, co. 1 n. 4, c.c.), non essendo ammesse forme equipollenti.
L’azione sociale di responsabilità si configura, per consolidata giurisprudenza, come un’azione risarcitoria di natura contrattuale, derivante dal rapporto che lega gli amministratori alla società e volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del depauperamento cagionato dalla cattiva gestione degli amministratori e dalle condotte da questi posti in essere in violazione degli obblighi gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo, ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’obbligo di intervento preventivo e successivo. E’ onere della parte attrice allegare l’inadempimento sussistente in capo all’amministratore degli obblighi a lui imposti dalla legge e/o dall’atto costitutivo, nonché discendenti dal generale obbligo di vigilanza al fine di evitare il determinarsi di eventi dannosi.
La condotta dell’amministratore di s.r.l., equiparata per tale aspetto ai doveri che devono connotare il contegno degli amministratori di s.p.a., deve informarsi alla diligenza richiesta per la natura dell’incarico ed alle specifiche competenze del settore; trattasi, dunque, della speciale diligenza richiesta, ai sensi dell’art. 1176, 2° comma, al professionista e non, come previsto nei tempi precedenti alla riforma del diritto societario entrata in vigore il’1.1.2004, alla generica diligenza del mandatario.
Giova precisare che, ai fini della risarcibilità del danno, il soggetto agente, oltre ad allegare l’inadempimento dell’amministratore nei termini summenzionati, deve anche allegare e provare l’esistenza di un danno concreto, che si estrinsechi nel depauperamento del patrimonio sociale di cui si chiede il ristoro, nonché nella possibilità di ricondurre detta lesione alla condotta dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico.
La ripartizione dell’onere probatorio attribuisce alla parte attrice l’obbligo non solo di allegare l’inadempimento – nel caso di specie l’acquisto della società identificato come operazione antieconomica per la società e, dunque, lesiva del dovere di diligenza che impegna l’amministratore nei confronti della società stessa – ma anche l’onere di allegare e provare l’esistenza di un danno concreto, causalmente connesso alla condotta dell’amministratore.
Il limite alla sindacabilità delle scelte gestorie dell’amministratore di s.r.l.
L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità deve essere deliberato, anche nelle società a responsabilità limitata, dall’assemblea dei soci, ai sensi dell’art. 2487 c.c. in relazione all’art. 2393, co. 1, c.c. nel testo antecedente l’entrata in vigore del d. lgs., 17 gennaio 2003, n.3; la mancanza di tale presupposto, incidente sulla legittimazione processuale del rappresentante della società, può anche essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’autorizzazione assembleare, dunque, si pone come requisito necessario per attribuire al legale rappresentante della società la legittimazione processuale e la volontà dei soci deve necessariamente essere espressa mediante una deliberazione da assumersi nell’assemblea in sede ordinaria (art. 2364, co. 1, n. 4, c.c.), non essendo ammesse forme equipollenti. Si ritiene che l’autorizzazione assembleare sia necessaria anche nelle società a responsabilità limitata in forza dell’applicabilità analogica dell’art. 2393 c.c. anche a questo tipo sociale.
La responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale, sicché la società deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l’osservanza dei doveri previsti dall’art. 2392 c.c. Per quanto riguarda il nesso di causalità, deve ritenersi che un evento sia da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non), nonché (in virtù del criterio della c.d. causalità adeguata) dando rilievo, all’interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiono, ad una valutazione ex ante, del tutto inverosimili.
All’amministratore di una società di capitali non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che valutazioni di tal sorta ineriscono alla discrezionalità imprenditoriale e ricadono nell’ambito di applicazione della c.d. business judgment rule, potendo essere al più fatte valere come giusta causa della revoca dell’amministratore e non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società.
Il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, pur presentando queste profili di rilevante alea economica.
È necessario che il giudizio dell’organo giudicante si limiti alla sola diligenza mostrata nell’apprezzamento preventivo e prudenziale dei margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere. Ne deriva che rileveranno, ai fini del riconoscimento dell’inadempimento all’obbligo di diligenza ex art. 1176, co. 2, c.c. da cui discende responsabilità contrattuale, unicamente le condotte omissive delle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo operata in quelle circostanze e con quelle modalità.
Nella delimitazione del perimetro applicativo della c.d. business judgment rule occorre riferirsi ad alcune regole fondamentali riguardanti le facoltà decisionali degli stessi amministratori nella gestione della società. L’amministratore, difatti, è tenuto ad agire in modo informato e a operare con la cautela e la diligenza da lui esigibile ex art. 2392 c.c., deve decidere nei limiti di legge e operando non in conflitto di interessi.
Non può, tuttavia, affermarsi l’assoluta insindacabilità delle scelte di gestione dell’organo amministrativo, in quanto sussistono due ordini di limiti all’operatività della business judgment rule. Innanzitutto, la scelta di gestione è insindacabile ove legittimamente compiuta e, inoltre, essa non deve essere irrazionale. Per quanto concerne il primo limite all’applicazione del principio, è necessario operare un controllo sul processo decisionale che ha portato l’amministratore a compiere una determinata scelta. Relativamente al secondo limite, è necessario che la scelta sia definita come razionale e non irragionevole; ciò implica non solo che l’amministratore abbia posto in essere la diligenza esigibile in relazione al tipo di scelta e con le cautele, verifiche e informazioni necessarie, ma che sia ulteriormente necessario che queste abbiano condotto l’amministratore ad una scelta razionale e meditata.