Covid-19 e utilizzo della clausola simul stabunt simul cadent
Le dimissioni rassegnate dai consiglieri diversi dall’attrice non possono dirsi abusive per il solo fatto di essere motivate dalla necessità di far decadere l’intero C.d.a. rimettendo il mandato all’assemblea dei soci, qualora tale decisione si ponga, più che nell’ottica di eludere gli obblighi risarcitori scaturenti dalla revoca senza giusta causa dell’attrice, quale decisione funzionale a dotare la società di un C.d.a. più coeso ed armonico e, dunque, più idoneo a fronteggiare l’emergenza sanitaria in essere.
Il rapporto tra SGR e partecipanti del fondo comune di investimento; in particolare, la revoca della SGR
La sostituzione della SGR nella gestione di un fondo comune di investimento è un fenomeno assimilabile al mutamento delle persone degli amministratori; i partecipanti al fondo – nel deliberare la revoca del gestore e l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti di questi – assumono una posizione analoga a quella dei soci di società di capitali. Ne discende che la volontà di revoca espressa in sede assembleare non può che essere imputata al fondo medesimo, il quale – sotto il profilo della responsabilità e nella sua autonomia patrimoniale “bilaterale” perfetta ex art. 36, co. 4, t.u.f., ovvero sia rispetto al patrimonio del gestore, sia rispetto a quello dei partecipanti – può senz’altro legittimamente costituire un centro di imputazione di posizioni giuridiche soggettive attive e passive.
Deve escludersi che il rapporto intercorrente tra la società di gestione e i partecipanti al fondo sia propriamente riconducibile alle figure del mandato e della rappresentanza. Infatti, la volontà del mandante e quella del rappresentato sono rilevanti per il mandatario (art. 1711 c.c.) e per il rappresentante (art. 1388 c.c.), mentre la SGR è indipendente dai partecipanti al fondo. Inoltre, sia nel mandato, sia nella rappresentanza, la legittimazione sostanziale a disporre attribuita al gestore non sostituisce, ma si aggiunge a quella del dominus, che, pur con le dovute cautele, può continuare a compiere atti di disposizione del diritto (artt. 1716, co. 2, e 1729 c.c.). Il potere di disposizione non spetta invece ai partecipanti, ma, ex artt. 1, lett. k), e 36, co. 3, t.u.f., alla sola SGR in via esclusiva.
Né depone in senso contrario l’espressa attribuzione legislativa alla SGR dei doveri e delle responsabilità del mandatario (art. 36, co. 3, t.u.f.): trattasi, infatti, di situazioni giuridiche che non esauriscono il rapporto di mandato. E così la gestione nell’interesse dei partecipanti non è concepibile senza un riferimento unificante, che, come tale, esclude la loro rilevanza uti singuli. Peraltro, se si può ammettere che i partecipanti al fondo possano agire in responsabilità verso la SGR, l’oggetto di tale azione è la mala gestio del fondo ed il risarcimento è dovuto al fondo e non ai partecipanti agenti, analogamente a quanto accade per le società di capitali ex artt. 2393 bis e 2476, co. 3, c.c. Per quanto riguarda il fondo, non è dubbio che da esso non possano promanare istruzioni di gestione, sicché è escluso che la SGR possa esser soggetta ad esse, pur essendo le scelte di investimento del gestore limitate dal regolamento, rimanendone così esclusa la assimilabilità al mandato fiduciario. Il rapporto tra SGR e fondo è dunque specialmente regolato dalla legge e sono proprio la perfetta autonomia patrimoniale che lo caratterizza ex lege ed il potere gestorio altrettanto stabilito ex lege in capo alla SGR, con la mediazione del regolamento, che ben giustificano l’affermazione di una imputazione diretta in capo al fondo delle posizioni giuridiche attive e passive che di quella gestione sono il risultato effettuale, senza che uno sdoppiamento della proprietà tra “formale” e “sostanziale” – sostituita alla più tradizionale dicotomia proprietà / gestione – possa particolarmente giovare alla chiarezza e certezza del traffico giuridico.
La legittimazione attiva con riferimento alle azioni con le quali si facciano valere diritti inclusi in un fondo comune di investimento spetta alla SGR e non ai partecipanti.
L’assenza di una disciplina ad hoc prevista per il funzionamento dell’assemblea dei partecipanti al fondo comune di investimento e dei rimedi di impugnazione delle relative delibere (sebbene il suo oggetto sia normativamente limitato alla sola revoca della SGR ed all’esperimento dell’eventuale azione di responsabilità), conduce a individuare l’assetto societario più logicamente ricollegabile al funzionamento e alla struttura di un fondo nelle disposizioni specificamente rivolte alle società per azioni.
Nel diritto societario, le deliberazioni degli organi sociali soggette per legge all’obbligo di motivazione costituiscono un numero limitato (artt. 2391, 2391 bis, 2441, co. 5, 2497 ter c.c.). Accanto alle ipotesi in cui le deliberazioni societarie debbono essere motivate per esplicito dettato normativo, ve ne sono altre che possono essere individuate in via interpretativa. Tra di esse vi sono, sia pure con connotati fra loro parzialmente diversi, le deliberazioni di interruzione del rapporto sociale (artt. 2287, 2473 bis e 2533 c.c.), gestorio (artt. 2259, 2383 e 2409 duodecies c.c.) o sindacale (art. 2400 c.c.), dove la necessità di verificare la sussistenza della giusta causa, o della fattispecie statutaria, impone di motivare la deliberazione al momento in cui essa viene assunta. A tale riguardo, se è vero che il legislatore ha previsto un potere di recesso ex lege in capo alla società, tanto che la giusta causa non si pone come requisito di efficacia dell’atto, la condizione della sussistenza di ragioni integranti la medesima è, tuttavia, da verificare per impedire la nascita del diritto al risarcimento del danno.
Le ragioni di revoca, che devono presentare i caratteri di effettività ed essere riportate in modo adeguatamente specifico, debbono essere enunciate espressamente nella deliberazione e non restare meramente implicite; la deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori non è ammessa, restando esse ormai quelle indicate nella deliberazione.
Qualora, nel corso del processo in cui è controverso un diritto attinente a un fondo comune di investimento, si trasferiscano da una società di gestione all’altra – ai sensi dell’art. 36, co. 1, t.u.f. – i rapporti di gestione relativi al fondo, il processo prosegue tra le parti originarie. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 111, co. 3 e 4, c.p.c., la società di gestione subentrata nella gestione può intervenire o essere chiamata nel processo e la società alienante può esserne estromessa. In ogni caso, la sentenza pronunciata nei confronti delle parti originarie spiega i suoi effetti anche nei confronti della società di gestione subentrata.
Revoca senza giusta causa dell’amministratore di s.r.l.
L’assemblea dei soci di una società a responsabilità limitata, in mancanza di diverse previsioni statutarie, ha il potere di rimuovere l’amministratore dalla carica, in qualunque tempo, salvo il diritto al risarcimento del danno se la revoca avviene senza giusta causa, in virtù dell’applicazione analogica della previsione di cui all’art. 2383, co. 3, c.c., che opera il contemperamento fra l’interesse della società a far gestire l’impresa da persona di sua persistente fiducia e l’interesse dell’amministratore a permanere in carica e percepire il relativo compenso sino alla scadenza naturale, riflettendo sostanzialmente il regolamento generale della revoca del mandato, di cui l’incarico di amministrazione costituisce una particolare specie, sancito dall’art. 1725, co. 1, c.c.
La giusta causa è ravvisabile in qualsiasi fatto anche estraneo alla sfera giuridica dell’amministratore idoneo a minare la fiducia che deve costantemente permeare il rapporto fra l’organo gestorio e la compagine sociale che lo ha espresso e la sua ricorrenza deve, quindi, essere necessariamente valutata in seno all’assemblea dei soci ed enunciata compiutamente nella delibera che determina la cessazione del mandato gestorio. L’omessa indicazione nella delibera delle ragioni che hanno determinato l’assemblea dei soci a rimuovere e sostituire l’amministratore connota, quindi, già di per sé la revoca come priva di giusta causa, non potendo le carenze dell’atto deliberativo essere emendate nel corso del giudizio né l’assemblea essere sostituita dal giudice nella valutazione e ponderazione dell’incidenza dei fatti narrati dalla difesa della società sulla tenuta del rapporto fiduciario.
Quanto alla liquidazione dell’ammontare del ristoro dovuto all’amministratore revocato senza giusta causa, non essendo l’esercizio di funzioni gestorie in alcun modo assimilabile al rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione, l’esistenza e consistenza del pregiudizio deve essere da lui provata in giudizio secondo le previsioni generali dell’art. 1223 c.c. e dell’art. 2967 c.c. e, in linea generale, si presume corrispondente alla perdita del compenso nel periodo necessario a reperire un nuovo incarico nel settore ad analoghe condizioni economiche.
Insussistenza del diritto di recesso ad nutum del socio di una s.r.l. costituita a tempo determinato, pur lontano nel tempo
Il socio di s.r.l. ha diritto di recedere ad nutum solo nel caso in cui la società sia contratta a tempo indeterminato e non anche a tempo determinato, sia pure lontano nel tempo, in quanto deve essere valorizzato il dato testuale della disciplina del recesso ex art. 2473 c.c. e poiché prevale, sull’interesse del socio al disinvestimento, l’interesse della società a proseguire la gestione del progetto imprenditoriale e dei terzi alla stabilità dell’organizzazione e all’integrità della garanzia patrimoniale, offerta esclusivamente dal patrimonio sociale.
L’oggetto della delibera, coincidente con il contenuto concreto della manifestazione di volontà espressa dall’assemblea, è illecito o impossibile quando il contenuto risulti contrario a norme di legge poste a tutela di interessi trascendenti quelli del singolo socio, o la cui violazione determini una deviazione dallo scopo economico-pratico del contratto di società.
L’art. 2383, co. 3, c.c., dettato in tema di s.p.a. ma applicabile in via analogica anche alle s.r.l., prevede che gli amministratori siano sempre revocabili dall’assemblea, salvo diritto al risarcimento dei danni nel caso in cui la revoca dovesse avvenire in assenza di giusta causa. Di conseguenza, detta giusta causa non costituisce una condizione di validità e di efficacia della deliberata revoca, ma solo una causa di esclusione del risarcimento del danno sofferto dall’amministratore ingiustamente ed arbitrariamente revocato. Il danno risarcibile/indennizzabile viene generalmente parametrato, in via equitativa, all’emolumento che l’amministratore avrebbe conseguito dallo svolgimento della prestazione gestoria nell’arco di sei mesi, quale lasso di tempo ragionevolmente idoneo a consentire all’amministratore revocato di trovare nuovi incarichi o analoghe prestazioni e compensi.
Le ragioni che integrano la c.d. giusta causa devono essere specificamente enunciate nella delibera assembleare senza che sia possibile una successiva deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori. In tale ambito spetta alla società l’onere di dimostrare la sussistenza di una giusta causa di revoca, trattandosi di un fatto costitutivo della facoltà di recedere senza conseguenze risarcitorie.
Revoca ad nutum dell’amministratore di s.r.l.
In assenza di giusta causa di revoca e preavviso, all’amministratore di una società a responsabilità limitata nominato a tempo indeterminato spetta il diritto al risarcimento ai sensi dell’art. 1725, comma secondo, c.c..
Azione di risarcimento dei danni promossa dall’amministratore revocato senza giusta causa e clausola compromissoria
L’estensione oggettiva della clausola statutaria che devolve a un collegio arbitrale la decisione sulle «controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero quelle promosse nei loro confronti che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale», tenuto anche conto della regola ermeneutica di cui all’art.808-quater c.c., depone nel senso che tutte le controversie tra amministratore e società che riguardino le vicende sociali e attengano a diritti disponibili siano assoggettate ad arbitrato. In esse rientrano le domande che riguardano il diritto al risarcimento danni per revoca senza giusta causa dell’amministratore: l’amministratore pur revocato è dunque astretto dal vincolo compromissorio per quelle domande che trovano la loro genesi proprio nel rapporto sociale.
Revoca dell’amministratore senza giusta causa e diritto al risarcimento danni: interruzione della prescrizione e dies a quo per far valere il diritto al risarcimento
Il diritto al compenso dell’amministratore, giacché derivante dal rapporto societario, in quanto istituito fra i soggetti dell’organizzazione sociale in dipendenza diretta del contratto di società o delle situazioni determinate dallo svolgimento della vita sociale, è soggetto al termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2949 c.c.
Il ricorso giuslavoristico proposto dall’ex amministratore ex art. 414 c.p.c. per ottenere il riconoscimento di un trattamento retributivo unitario e globale, comprensivo, cioè, oltre che dell’importo dovuto a titolo di dirigente con contratto di lavoro subordinato, anche dell’importo, pure preteso nel separato e successivo giudizio, a titolo di compensi per l’incarico gestorio svolto quale consigliere di amministrazione (di fatto erogato allo stesso soggetto quale emolumento relativo alla carica di amministratore delegato, a suo dire, apparentemente conferitagli ed assunta), è idoneo ad interrompere la prescrizione ai sensi degli artt. 2934 e 2944 c.c. Ne consegue che il diritto al risarcimento dei danni per la revoca senza giusta causa dalla carica di amministratore non può essere esercitato in giudizio prima del passaggio in giudicato della sentenza resa a conclusione del giudizio giuslavoristico che, escludendo l’asserita simulazione, affermi definitivamente, l’esistenza del rapporto gestorio in contestazione; diversamente opinando, infatti, all’attore verrebbe preclusa, per effetto dell’eccepita prescrizione, la facoltà di far valere il proprio diritto prima ancora del definitivo accertamento della natura reale e non fittizia del rapporto (di amministrazione) da cui detto diritto discende.
Con la possibilità dell’assemblea di revocare gli amministratori “in qualunque tempo” a norma dell’articolo 2383, comma III, c.c., la società è investita di una forma di autotutela privata in forza della quale lo scioglimento del rapporto gestorio si verifica mediante la delibera assembleare e il controllo di questa spetta al giudice soltanto in seconda battuta ed esclusivamente ai fini della liquidazione dell’eventuale risarcimento, ove la revoca non sia sorretta da una giusta causa. La nozione di “giusta causa” è distinta sia dal mero “inadempimento”, sia dalle “gravi irregolarità” di cui all’art. 2409 c.c., concernendo essa, infatti, circostanze sopravvenute, anche non integranti inadempimento e non necessariamente cagionate dall’amministratore stesso, che, tuttavia, pregiudichino l’affidamento dei soci nelle sue attitudini e capacità, cioè compromettano il rapporto fiduciario tra le parti. L’assenza della giusta causa incide solamente in punto di risarcimento dei danni non inficiando la validità o l’efficacia della revoca, rappresentando quest’ultima atto lecito e manifestazione del diritto dei soci ai sensi dell’art. 2364 c.c., con il solo limite che i motivi di giusta causa di revoca, quantomeno nei loro elementi essenziali, devono però essere esplicitati nella delibera di revoca (sul punto, v., ex multis, Trib. Milano, 20 dicembre 2005); infatti, come ormai pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, l’accertamento in ordine alla sussistenza di una giusta causa di revoca può avere a oggetto solo le ragioni poste alla base della decisione dei soci (così, tra le altre, Cass., 2037/18).
Come ritenuto dalla costante giurisprudenza di legittimità, l’onere probatorio in ordine al venir meno del diritto al risarcimento del danno dell’amministratore per la revoca anticipata dalla carica grava sulla società a norma dell’art. 2697 c.c. (nel caso di specie, la società convenuta non ha addotto fatti idonei oggettivamente a minare la valutazione circa la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore revocato e, quindi, tali da incidere negativamente sul rapporto fiduciario intercorrente tra le parti, con la conseguenza che la domanda attorea è stata accolta e la società, per l’effetto, condannata, a titolo di risarcimento del danno sofferto dall’amministratore per la revoca senza giusta causa dalla carica, al pagamento dell’importo pari agli emolumenti non percepiti nel periodo di anticipata cessazione del rapporto gestorio).
Clausola “simul stabunt simul cadent”: ratio, impiego abusivo e onere della prova
La clausola simul stabunt simul cadent è finalizzata a mantenere costanti gli equilibri interni originariamente voluti e cristallizzati secondo una determinata configurazione nella delibera assembleare di nomina dell’organo gestorio. Essa funge da stimolo alla coesione dell’organo gestorio, essendo ciascun amministratore consapevole che le dimissioni proprie o altrui ne determinano l’integrale decadenza.
L’impiego abusivo della clausola simul stabunt simul cadent si configura ogniqualvolta le dimissioni idonee a innescarla mirino a eliminare amministratori sgraditi in assenza di giusta causa, eludendo così l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui (e, in genere, di risarcimento del danno) altrimenti loro spettante per effetto della revoca ex art. 2383, co. 3, c.c. (per le s.p.a.) ed ex artt. 1723, co. 2, e 1725 c.c. (per le s.r.l.).
La parte che prospetti l’impiego abusivo della clausola simul stabunt simul cadent è tenuta a provare che la stessa è stata invocata al solo fine di estrometterla dall’organo amministrativo per il conseguimento di interessi extrasociali o di un gruppo della compagine sociale, e quindi per ottenerne indirettamente la revoca in assenza di giusta causa.
Applicazione ed impiego abusivo della clausola statutaria c.d. simul stabunt simul cadent
L’applicazione della clausola statutaria simul stabunt simul cadent (la cui validità è espressamente riconosciuta dal quarto comma dell’art. 2386 c.c.) non equivale ad una revoca dall’incarico e pertanto, se applicata senza fini abusivi, non fa sorgere alcun diritto a favore dell’amministratore decaduto: costui infatti, accettando l’iniziale conferimento dell’incarico, aderisce implicitamente alle clausole dello statuto sociale che regolano le condizioni di nomina e permanenza degli organi sociali. Detta adesione implica dunque l’accettazione dell’eventualità di una cessazione anticipata dall’ufficio di amministratore nel caso di applicazione della clausola in oggetto e in ogni caso senza risarcimento del danno (cfr. anche Trib. Milano n. 388/2015 e n. 4955/2016).
Revoca dell’amministratore di società cooperativa a responsabilità limitata in assenza di giusta causa: conseguenze indennitarie
Per la revoca di un amministratore nominato a tempo indeterminato non occorre la presenza di una giusta causa, né l’assenza di essa invalida la delibera dei soci; tuttavia, in applicazione diretta della regola dettata per il mandato conferito onerosamente a tempo indeterminato dall’art. 1725 c.c., la risoluzione unilaterale del rapporto gestorio da parte della società amministrata fa sorgere in capo a questa l’obbligo di corrispondere un adeguato indennizzo per il mancato preavviso.