Il risarcimento del danno e la retroversione degli utili nella fattispecie di contraffazione di marchio
Ai fini della liquidazione del danno patrimoniale per contraffazione di marchio, la prova del lucro cessante non è da considerarsi imprescindibile, atteso che nel caso di violazione di diritti di proprietà industriale il danno patrimoniale da lucro cessante si presume ed è liquidato in misura non inferiore a quella corrispondente ai canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare ove avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto. Tale principio può trovare applicazione anche quando il consenso del titolare del diritto non sarebbe stato concesso.
Ai fini della quantificazione della retroversione degli utili, la royalty di base deve essere innalzata considerando la royalty che ragionevolmente le parti avrebbero pattuito presupponendo la violazione come già avvenuta, posto che una diversa conclusione condurrebbe all’irragionevole parificazione tra il contraffattore e il soggetto che ha ottenuto regolare licenza di utilizzo.
La condotta del contraffattore che riproduce iniziative commerciali (co-branding con rinomati marchi della moda) nella realtà intraprese dal titolare del diritto leso integra un danno all’immagine in capo a quest’ultimo e comporta un annacquamento del marchio violato.
Per la quantificazione del danno all’immagine, possono assumere rilievo – tra gli altri – gli effettivi costi pubblicitari sostenuti dal titolare del diritto violato.
La logica restitutoria dell’istituto della retroversione degli utili, oltre a comportare che lo stesso trovi attuazione anche in mancanza di prova del lucro cessante e in mancanza di elemento soggettivo del dolo o della colpa, comporta altresì che la condanna non possa che essere pronunciata esclusivamente nei confronti del soggetto percettore di tali utili.
Azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare ed eventuale concorso dell’amministratore di fatto
Nel contesto dell’azione di responsabilità promossa dal curatore ex art. 146 l.f., sussiste una presunzione iuris tantum di decorrenza del termine di prescrizione quinquennale ex art. 2394 c.c. dalla dichiarazione di fallimento, spettando all’amministratore convenuto dare la prova contraria della diversa data anteriore d’insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale. La prova di tale insorgenza deve pur sempre avere ad oggetto fatti sintomatici di assoluta evidenza.
La figura dell’amministratore di fatto ricorre per la sola circostanza dello stabile esercizio di funzioni gestorie, non soltanto quando la nomina alla carica amministrativa risulti irregolare, ma anche in assenza di una qualsivoglia investitura da parte della società. Per essere rilevanti, le attività gestorie (svolte concretamente) devono presentare carattere sistematico e non si devono esaurire soltanto nel compimento di singoli atti di natura eterogenea ed occasionale.
Qualora una società di capitali subisca, per effetto dell’illecito commesso da un terzo, un danno, ancorché tale danno possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, nonché sulla consistenza di questa, il diritto al risarcimento compete solo alla società e non già anche a ciascuno dei soci, in quanto l’illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio e obbliga il responsabile a risarcirne il danno, costituendo l’incidenza negativa sui diritti del socio nascenti dalla partecipazione sociale un effetto indiretto di detto pregiudizio e non conseguenza immediata e diretta dell’illecito.
Intese anticoncorrenziali e tutela del consumatore che stipula il contratto a valle
Il provvedimento n. 55 del 2/5/2005 emesso dalla Banca d’Italia in funzione di Autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi possiede, al pari di quelli emessi dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un’elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle misure sanzionatorie che siano in esso pronunciate. Il giudice del merito è tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo all’attuazione o meno della prescrizione contenuta nel menzionato provvedimento con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le clausole vietate dallo schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario. Inoltre, va allocato in capo all’attore l’onere della prova dell’adesione, da parte della banca convenuta, alla ipotizzata intesa restrittiva anticoncorrenziale, inclusa la circostanza che la fideiussione omnibus rilasciata sia conforme al modello contrattuale, che si assume lesivo della normativa antitrust e che la libertà di scelta del fideiussore sia stata effettivamente lesa.
La l. 287/1990 detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia un interesse processualmente rilevante alla conservazione del suo carattere competitivo, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura, o alla diminuzione, di tale carattere per effetto di un’intesa vietata, tenuto conto, da un lato, che, di fronte a un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto a una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza e, dall’altro, che il cosiddetto contratto a valle costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti. Pertanto, siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce un danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l’azione di accertamento della nullità dell’intesa e di risarcimento del danno, di cui all’art. 33 della l. 287/1990.
La nullità per violazione della disciplina antitrust è espressamente prevista per le intese illecite tra imprenditori, non anche per i contratti stipulati a valle, rispetto ai quali, qualora costituiscano lo sbocco delle intese illecite e ne rappresentino l’esecuzione, l’ordinamento giuridico riconosce soltanto la tutela risarcitoria a favore del contraente danneggiato.
La nullità dell’intesa a monte non si comunica al contratto collegato a valle. Infatti, per affermare la nullità derivata di un contratto a valle rispetto a quella dichiarata del contratto a monte tra soggetti diversi, salva la prova della illiceità e contrarietà a norma imperativa della convenzione, è necessario dimostrare un nesso di dipendenza delle fideiussioni con la deliberazione dell’ABI ovvero un collegamento negoziale nel suo significato tecnico. Tuttavia, la circostanza che l’impresa collusa uniformi al programma anticoncorrenziale le manifestazioni della propria autonomia privata non appare sufficiente a privare il successivo contratto a valle di una autonoma ragione pratica. Inoltre, i contratti conclusi in aderenza alla prassi di seguire gli schemi ABI neppure possono qualificarsi come illeciti ex se, atteso che sebbene l’art. 2 della legge 287/1990 vieti le suddette intese sancendone la nullità ad ogni effetto, nulla dispone circa le sorti dei rapporti commerciali tra le imprese parti dell’intesa anticoncorrenziale e altri contraenti. Non è sufficiente la semplice violazione della norma imperativa dell’art. 2 della legge 287/1990, ma occorre che per effetto di tale violazione si determini una situazione di oggettiva incompatibilità tra il precetto posto dalla disposizione antimonopolistica e la regola negoziale contenuta nei contratti a valle dell’intesa. È dunque necessario che la proibizione contenuta nella norma, che fa divieto alle imprese di conformare la propria condotta e le proprie scelte strategiche secondo standard comportamentali illeciti, investa anche il precetto che le parti si sono date e in base al quale intendono disciplinare i propri rapporti a valle.
Concorrenza sleale per imitazione servile: fattispecie e danno cagionato
Costituisce imitazione servile confusoria la ripresa delle caratteristiche estetiche del prodotto dotate di efficacia individualizzante (e quindi idonee a ricollegarlo a una determinata impresa), in modo da indurre il consumatore a ritenere erroneamente che il prodotto imitante provenga dalla stessa fonte produttiva di quello imitato; va esclusa, invece, l’imitazione servile quando la ripetizione dei connotati formali si limiti a quei profili conseguenti alle caratteristiche funzionali e necessitate del prodotto, in quanto il divieto di imitazione servile attiene ai caratteri non essenziali, non funzionali, capricciosi o arbitrari e per tale motivo individualizzanti, con conseguente onere di differenziazione da parte del concorrente.
La concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui non consiste nell’adozione, sia pur parassitaria, di tecniche materiali o procedimenti già usate da altra impresa (che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile), ma ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori; la tutela prestata dalla previsione di cui all’art. 2598 c.c. ha infatti lo scopo di offrire una protezione all’uso corretto degli strumenti concorrenziali, considerati un valore-strumento per il benessere sociale, e non già di rendere possibile la creazione di monopoli o cartelli d’imprese, in grado di escludere dal mercato qualsiasi concorrente che intenda competere con il marchio noto.
Azione di responsabilità esercitata dal fallimento: questioni in tema di nullità della citazione e di prescrizione
L’esigenza di adeguata determinazione dell’oggetto del giudizio, indispensabile garanzia dell’effettività del contraddittorio e del diritto di difesa, è soddisfatta con l’identificazione dei fatti che concorrono a costituire gli elementi costitutivi della responsabilità al fine di consentire alla controparte di approntare tempestivi e completi mezzi difensivi: la nullità della citazione sussiste solo se tali fatti sono del tutto omessi o incerti, inadeguati a tratteggiare l’azione e se l’incertezza investe l’intero contenuto dell’atto. [ LEGGI TUTTO ]
Risarcimento successivo a vendita di cosa viziata
Licenziamento illegittimo del dipendente: profili di responsabilità dell’amministratore di Srl
Competenza delle Sezioni Specializzate per una controversia in materia di contratto di distribuzione
La controversia relativa a un contratto di distribuzione avente riguardo, seppur indirettamente, a diritti di marchio su segni destinati a contraddistinguere i prodotti oggetto dell’accordo di distribuzione azionato, costituisce materia connessa a [ LEGGI TUTTO ]
Revoca senza giusta causa e senza preavviso del liquidatore con incarico a titolo oneroso e a tempo indeterminato
L’ assenza di una giusta causa di revoca del liquidatore che vantasse un diritto al compenso, in forza della delibera di nomina, determina il sorgere di una pretesa risarcitoria o indennitaria in capo al liquidatore medesimo, ferma restando la validità della delibera di revoca. Tale pretesa risarcitoria [ LEGGI TUTTO ]