Criteri di liquidazione del danno per mancato conferimento di incarico gestorio promesso
Il danno patrimoniale cagionato dal mancato conferimento dell’incarico gestorio a favore del destinatario di proposta contrattuale per mero rifiuto dei proponenti di dar seguito alla proposta è quantificabile sommando danno emergente e del lucro cessante. Con riferimento al danno emergente, il parametro minimo del risarcimento corrisponde all’ammontare del corrispettivo promesso per tutta la durata dell’incarico (in particolare, tale parametro opera quando la voce retributiva è prestabilita nell’ammontare e indipendente dai risultati della gestione. Va inoltre verificato che l’ottenimento di tale somma sia stato unicamente impedito dal rifiuto dei soggetti che avrebbero dovuto provvedere al conferimento dell’incarico). Più problematico è, invece, il riconoscimento del danno in termini di lucro cessante, specialmente con riferimento alla liquidazione della parte variabile del compenso legata all’esito positivo dell’attività gestoria: infatti, in tal caso, la perdita non consiste in un valore economico certo, bensì in un vantaggio economico atteso e, quindi, nella mera possibilità di conseguirlo. Pertanto, il danno potenzialmente scaturente dalla “possibilità perduta” dev’essere provato dal danneggiato, sia pur in via presuntiva, in termini di apprezzabilità, serietà e consistenza del suo stesso verificarsi (an debeatur); invece la determinazione del quantum debeatur va realizzata con valutazione squisitamente equitativa. Sotto quest’ultimo profilo, l’unico criterio utilmente impiegabile è quello, seppur inevitabilmente approssimativo e probabilistico, basato sul confronto con i compensi medi annuali percepiti nel periodo e nel luogo di riferimento dai top manager di realtà aziendali paragonabili per dimensione e “complessità” alla società in questione. L’ammontare dell’utilità sperata andrà quindi calcolato con riferimento alle medie dei suddetti compensi, ulteriormente mediando quelle risultanti dai diversi campioni esaminati, moltiplicate per gli anni di carica. Il valore così ottenuto è onnicomprensivo e dev’essere quindi diminuito dell’ammontare dei compensi fissi.
Omessa rimozione dei caricamenti illeciti da parte dell’hosting provider
In materia di hosting provider una delle fattispecie di responsabilità a carico di tale prestatore di servizi, è quella che collega il sorgere della obbligazione risarcitoria al fatto della “conoscenza”, da parte del prestatore del servizio, circa la illiceità dell’informazione, in particolare connotata dall’essere essa “manifesta” nelle azioni di risarcimento del danno. Trattasi di responsabilità derivante da una condotta “commissiva mediante omissione” per avere il prestatore, dal momento in cui sussista l’elemento psicologico predetto, concorso nel comportamento lesivo altrui a consumazione permanente, non avendo provveduto alla rimozione del dato informativo o al blocco all’accesso, sulla base di una posizione di garanzia dell’ hosting provider. Dal punto di vista strettamente tecnico la fase di utile rimozione dei contenuti dev’essere preceduta da ulteriori due indefettibili passaggi (identificazione e ricerca), dove il primo (identificazione) si connota per il delicato passaggio della acquisizione di una informazione esatta circa la risorsa da rimuovere, consentendo di riconoscerla puntualmente, distinguendola da ogni altra. Nella seconda fase della ricerca, il provider, elaborando le informazioni ricevute dell’utente segnalatore, produce un fingerprint ovvero un’impronta digitale delle risorsa segnalata; deve dunque ritenersi come tanto più la segnalazione è precisa tanto più la elaborazione della impronta è efficace poiché, diversamente, la fase di identificazione può essere praticabile con tale margine di errore da divenire del tutto inefficace se non addirittura controproducente, e potendo condurre alla eliminazione di contenuti caricati lecitamente. Se è, dunque, vero, da un lato che il contenuto illecito possa essere in astratto identificato attraverso varie modalità di precisione decrescente, e cioè l’URL, l’URN e, infine, la indicazione del titolo dell’opera, è senz’altro vero come senza l’url il processo di eliminazione resti inevitabilmente affidato a processi euristici, rischiando di caratterizzarsi per un margine di errore tale da non garantire la correttezza e la completezza del processo. La richiesta di interventi generalizzati di contrasto ad opera dell’ hosting provider, da effettuarsi anche con riferimento a caricamenti avvenuti nonostante la mancanza della segnalazione di qualsivoglia violazione da parte del titolare si traduce, a ben guardare, nella imposizione a carico del provider di un controllo attivo e indiscriminato sui contenuti che circolano sulla piattaforma gestita dall’ ISP che si vedrebbe esposto ad un imprevedibile obbligo di rimozione di qualsiasi contenuto che presenti profili di identità o anche solo somiglianze con un contenuto rivendicato, senza alcun limite oggettivo o temporale rispetto all’ampiezza di un tale intervento di “bonifica”. Ammettere un obbligo di tale ampiezza comporterebbe, quindi, un surrettizio aggiramento dei limiti di responsabilità dell’hosting provider, il quale si troverebbe tenuto ad assicurare quel sistema di controllo generalizzato e preventivo che l’ordinamento non contempla, così operando la sostanziale vanificazione del meccanismo normativo che, all’art. 16 d lgs. 70/2003 delinea con chiarezza un obbligo di attivazione pro futuro e non “retroattivo”.
Contraffazione di un marchio noto nel settore della sartoria italiana e concorrenza sleale per appropriazione di pregi
Criteri di giudizio sull’attività inventiva secondo il cosiddetto procedimento “a mosaico”
Ai fini del giudizio di attività inventiva è consentito combinare le classi di conoscenze anteriori ed effettuare una ricostruzione attraverso varie fonti, ancorché scollegate, dello stato della tecnica, secondo il cosiddetto procedimento “a mosaico”. È anche noto che il giudizio sulla non evidenza presuppone che lo stato della tecnica sia confrontato con il nucleo centrale dell’invenzione. […] È quindi corretto presumere che, qualora componendo gli insegnamenti precedenti, il tecnico del ramo avrebbe considerato evidente la soluzione adottata, il brevetto deve ritenersi nullo per difetto di attività inventiva.
Assenza del carattere individuale del disegno e modello, concorrenza sleale e risarcimento del danno. Il caso OVS
Ai fini dell’accertamento dell’illecito di concorrenza sleale non rileva che le rispettive società si trovino su piani diversi della catena produttiva, in quanto condizione necessaria per cui le imprese si trovino in una situazione di concorrenza è che prodotti e servizi concernano la stessa categoria di clientela finale e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni.
Ai fini di una determinazione equitativa del danno, la sanzione del risarcimento del danno per concorrenza sleale può seguire le stesse regole in tema di tutela dei diritti della proprietà industriale con la peculiarità della materia e l’indicazione, derivante dalla direttiva CE 04/48, di tenere conto nella quantificazione del danno – purché il risarcimento sia adeguato, ma non punitivo – di tutti gli aspetti pertinenti, tra i quali i benefici realizzati dall’autore della violazione.
In tema di emissione di azioni la transazione conclusa tra la società emittente e l’azionista danneggiato può liberare il revisore
La responsabilità degli amministratori della società emittente e dei revisori legali dei conti per il danno derivato, ai soci ed ai terzi, dall’inadempimento ai loro doveri è solidale. Nel particolare caso in cui l’incarico di revisione sia stato svolto da una società, anche la responsabilità delle persone fisiche rileva, essendo queste tenute in solido – con la medesima – al risarcimento verso la società revisionata ed i terzi danneggiati, sebbene «entro i limiti del proprio contributo effettivo al danno cagionato».
Nel caso di azione dell’investitore volta ad ottenere il risarcimento del danno per perdita dell’investimento compiuto confidando nella veridicità dei dati risultanti da bilancio, la transazione intervenuta tra l’investitore medesimo e la società emittente determina potenzialmente l’estinzione del debito risarcitorio gravante sui revisori, potendo questi approfittare, in via potestativa, dell’effetto liberatorio di cui all’art. 1304 comma 1 c.c. Infatti, la transazione relativa all’intero debito solidale – e non solo alla quota del singolo – estende i suoi effetti anche ai condebitori che siano rimasti estranei all’accordo e che abbiano dichiarato di approfittare dell’effetto liberatorio; gli unici presupposti per l’esercizio del diritto sono, dunque, il vincolo solidale dal lato passivo dell’obbligazione e la natura «tombale» della transazione, che deve necessariamente avere ad oggetto l’intero debito.
Conferimento d’azienda, responsabilità dell’amministratore di s.r.l. e concorso di terzi in condotte distrattive
ll conferimento dell’azienda in società a responsabilità limitata comporta l’obbligo della redazione della perizia di stima resa ai sensi dell’art. 2465 c.c. da parte di un perito. Alla suddetta stima concorre il valore dei beni aziendali e – ove presente – l’avviamento. A fronte dell’iscrizione al passivo del debito per canoni o simili, pur consentendo determinati metodi contabili di considerare nell’attivo patrimoniale il valore dei beni inseriti nel compendio aziendale a titolo di leasing o di concessione, esso va ammortato in ragione del tempo di residua disponibilità e nel caso di scadenza della concessione, la disponibilità per il periodo successivo dev’essere valutata come una “eventualità”. Pertanto, non è possibile procedere ad una valorizzazione di suddetti beni nella perizia di stima.
In sede civile, al fine di ottenere la reintegrazione del patrimonio societario oltre l’eventuale ulteriore risarcimento del danno, l’obiettiva sussistenza di operazioni distrattive può fondare la dichiarazione di responsabilità primaria dell’amministratore e concorsuale dei terzi che partecipano a tale operazione. La violazione dei doveri relativi alla posizione di amministratore della società va ricondotta alla responsabilità contrattuale. L’attribuzione di un valore nominale della quota di partecipazione inferiore al valore del conferito non rappresenta una vera e propria distrazione del valore dell’azienda, se quanto conferito resta nella disponibilità della conferente, sia pur con l’interposizione di nuova società. Fonte di responsabilità dell’amministratore della società conferente – nella misura del valore dell’azienda conferita risultante dalla perizia di stima – è da ricercarsi nel depauperamento del patrimonio sociale realizzato attraverso la diluizione della partecipazione nella società conferitaria e la successiva cessione senza corrispettivo della quota residua.
Per ammettere una responsabilità extracontrattuale di un soggetto terzo alle condotte distrattive dell’amministratore è necessario ipotizzare un “collegamento psicologico con lo stesso” che ne abbia rafforzato la determinazione, contribuendo a evidenziargli il carattere possibile ed utile dell’operazione. L’associazione automatica della posizione delle società terza a quella del suo amministratore delegato – privo di pieni poteri amministrativi – è fuori luogo. Il principio, tuttavia, vale solo per i negozi e gli atti dei quali la società è parte e non per gli atti che la stessa subisce: l’aumento di capitale non è un atto della società, ma solo “concernente” la stessa, posto che riguarda chi ne sia proprietario. Criterio di prova da adottarsi sul punto è quello generale della “preponderante probabilità di una fatto”. In ordine all’ipotesi del concorso del consulente conscio della complessiva volontà dei clienti, tenendo presente la conformità operativa delle operazioni distrattive e i tempi ristretti di realizzazione, è possibile riconoscere una responsabilità extracontrattuale dello stesso, nonostante l’intervento della dimissione del mandato prima del perfezionamento delle operazioni distrattive.
Segretezza delle informazioni aziendali e accertamento del c.d. reverse engineering
L’acquisizione delle informazioni mediante il c.d. “reverse engineering” non può mai rendere lecita l’acquisizione delle informazioni tecnico industriali in caso di violazione degli obblighi contrattuali o patti di riservatezza. Per escludere la tutelabilità delle informazioni necessarie alla realizzazione di un prodotto non è sufficiente l’astratta possibilità di risalirvi tramite l’analisi e la scomposizione del prodotto stesso, ma occorre anche che il processo di reverse engineering possa qualificarsi come “facile” per gli esperti del settore. Quando invece esso comporti tempi o costi rilevanti in relazione alle caratteristiche del mercato, le informazioni vanno tutelate contro l’acquisizione abusiva. La “facile accessibilità” dell’informazione è, quindi, condizione per l’operatività del reverse engineering. Infatti, se le informazioni non sono segrete nei casi di facile accessibilità agli esperti, coerentemente anche il reverse engineering può rendere lecita l’acquisizione d’ informazioni quando il processo sia di “facile accessibilità”. [ Nel caso di specie il Giudice rigetta il primo motivo d’appello poiché le informazioni segrete sono state acquisite illegittimamente e non per effetto del reverse engineering.]
Azione del curatore fallimentare e responsabilità dell’amministratore
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare ai sensi dell’art. 146, comma 2, l. fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2392-2393 c.c. (o dall’art 2476 commi 1 e 3 c.c. per le società a responsabilità limitata) e dall’art. 2394 c.c. (o dall’art 2476 comma 6 c.c. per le srl) a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali; tant’è che il curatore può, anche separatamente, formulare domande risarcitorie tanto con riferimento ai presupposti dell’azione sociale, che ha natura contrattuale, quanto con riguardo a quelli della responsabilità verso i creditori, che ha natura extracontrattuale. Tali azioni non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo tra loro distinte sia nei presupposti di fatto che nella disciplina applicabile, differenti essendo la distribuzione dell’onere della prova, i criteri di determinazione dei danni risarcibili ed il regime di decorrenza del termine di prescrizione.
In difetto di scritture contabili aggiornate, il danno è individuato nella perdita del patrimonio sociale e nell’incremento dell’indebitamento sociale, stimato in via equitativa nella differenza tra attivo e passivo risultante dallo stato passivo del fallimento.
Criteri di quantificazione del danno e poteri del CTU
Sussiste una situazione di conflitto di interessi giuridicamente rilevante allorquando l’amministratore di una società disponga la vendita nummo uno della domanda di brevetto ad un’altra società a lui riconducibile, in danno della società amministrata.
Il danno derivante dalla condotta in questione si identifica nella perdita patrimoniale e reddituale subita dalla società venditrice per effetto della dismissione del brevetto a prezzo simbolico e, dunque, nel valore e nella reddittività di tale brevetto.
In tema di consulenza tecnica d’ufficio, rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio attingere “aliunde” notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, e che dette indagini possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice purché ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano messe in grado di effettuarne il controllo, a tutela del principio del contraddittorio. L’acquisizione di dati e documenti da parte del consulente tecnico ha funzione di riscontro e verifica rispetto a quanto affermato e documentato dalle parti; mentre non è consentito al consulente sostituirsi alla parte stessa, andando a ricercare aliunde i dati stessi che devono essere oggetto di riscontro da parte sua, che costituiscono materia di onere di allegazione e di prova che non gli siano stati forniti, in quanto in questo modo verrebbe impropriamente a supplire al carente espletamento dell’onere proba-torio, in violazione sia dell’articolo 2697 c.c. che del principio del contraddittorio. Il consulente d’ufficio può pertanto acquisire documenti pubblicamente consultabili o provenienti da terzi o dalle parti nei limiti in cui siano necessari sul piano tecnico ad avere riscontro della correttezza delle affermazioni e produzioni documentali delle parti stesse o, ancora, quando emerga l’indispensabilità dell’accertamento di una situazione di comune interesse, indicandone la fonte di acquisizione e sottoponendoli al vaglio del contraddittorio, esigenza, quest’ultima, che viene soddisfatta sia mediante la possibilità della partecipazione al contraddittorio tecnico attraverso il consulente di parte, sia, a posteriori, con la possibilità di dimostrazione di elementi rilevanti in senso difforme.