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15 Ottobre 2024

L’abuso del voto da parte del socio di maggioranza e revoca dell’amministratore nelle società per azioni con partecipazione pubblica

Sussiste la legittimazione dell’amministratore revocato alla impugnativa della deliberazione che lo lede sia con riguardo a violazioni delle norme procedimentali, sia con riguardo a profili di eccesso di potere o di conflitto di interessi del socio votante.

L’abuso del voto da parte del socio di maggioranza costituisce un caso di violazione dei doveri generali di buona fede nell’esercizio del diritto (1375 c.c.). Tale vizio sussiste quando il socio maggioritario, che sta in società nel proprio interesse e pertanto in assemblea legittimamente vota nel proprio interesse, orienta il proprio voto al solo fine di ledere il socio di minoranza, oppure a proprio vantaggio ma in modo da imporre al socio di minoranza un sacrificio del suo interesse del tutto sproporzionato, sì che il risultato è ottenuto dal socio maggioritario avvantaggiandosi ingiustificatamente a discapito del socio di minoranza. La buona fede che viene in esame delimita il perimetro di esercizio dei diritti del socio nei rapporti con gli altri soci, e non rispetto alla società. I soci infatti non sono investiti di doveri gestori, e, nelle società per azioni, neppure opera una regola paragonabile all’art. 2476 ultimo comma c.c., che delinea il caso del consapevole concorso dei soci nell’attività gestoria illecita degli amministratori. È ben vero che nella fattispecie dell’abuso di voto viene anche in esame l’interesse della società, ma ciò non funge da elemento principale nella fattispecie, bensì piuttosto da elemento di riscontro, in quanto l’assenza di un percepibile vantaggio sociale, derivante dal voto allegatamente abusivo, può dare sostegno alla ricostruzione, che solitamente avviene su base indiziaria, dell’illecito intento del socio di maggioranza.

La società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato, poiché all’ente pubblico non è consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società mediante l’esercizio di poteri autoritativi, potendo esso avvalersi solo degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina pubblica presenti negli organi della società. Sono dunque attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative alla revoca degli amministratori, nominati ai sensi dell’art. 2449 c.c., della società partecipata da ente pubblico, in quanto la predetta revoca costituisce atto dell’ente pubblico “a valle” della scelta iniziale di impiegare lo strumento societario, emanato in base al diritto privato e da questo regolato.

La società è retta solo dallo statuto, e non dai patti diversi pur stipulati fra i soci, e i diritti e doveri dei consiglieri sono regolati dalla legge e dallo statuto, e ciò sia nei doveri di buona, prudente, professionale gestione, da svolgere nell’interesse della società, e tenendo conto delle decisioni dei soci che siano espresse nelle sedi e nelle forme proprie delle società; sia nei diritti derivanti dal regime legale e statutario delle revoche. Pertanto, in primo luogo, l’amministratore è tenuto a mettere in campo tutte le iniziative opportune perché la società operi correttamente e proficuamente, e ciò anche partecipando alle decisioni dell’organo gestorio relative al conferimento, alla revoca, o alla sospensione conferite ai singoli consiglieri.

La sussistenza della giusta causa della revoca è da valutarsi alla luce dei principi generali, come ricostruiti dalla giurisprudenza, e secondo i quali per la sua sussistenza non occorre che l’amministratore revocato abbia commesso violazioni ai suoi doveri gestori, ma è pur sempre necessario che sussistano circostanze o fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto e tali da elidere l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e capacità dell’amministratore. Deve trattarsi di fatti oggettivamente valutabili. Se infatti alla base della revoca sta un venire meno del rapporto fiduciario con l’amministratore, tale venire meno non può riposare su considerazioni soggettive dei soci. Essa può consistere in fatti che minino il “pactum ficuciae”, elidendo l’affidamento riposto al momento della nomina sulle attitudini e capacità dell’amministratore, sempre che essi siano oggettivamente valutabili come capaci di mettere in forse la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore revocato, e non costituiscano, invece, il mero inadempimento ad una inesistente soggezione dell’amministratore stesso alle direttive del socio di maggioranza, pur se pubblico.