Diritto di recesso per modifica dell’oggetto sociale
Nelle società per azioni, la deliberazione dell’assemblea straordinaria avente ad oggetto la modifica dell’oggetto sociale legittima il socio a esercitare il diritto di recesso esclusivamente nel caso in cui la variazione della clausola statutaria riguardante l’attività economica che la società può, e deve, svolgere sia significativa, cioè tale da determinare il mutamento delle condizioni di rischio inerenti alle partecipazioni sociali e, più in generale, della potenziale redditività della società in ottica futura. In particolare, la deliberazione deve apportare una modifica concreta alla clausola statutaria sull’oggetto sociale, ampliando ovvero riducendo il novero delle attività esercitabili dalla società. Pertanto, ai fini di valutare la significatività del cambiamento nelle attività sociali legittimante il recesso, risulta necessario esperire un vaglio di stampo comparatistico tra le diverse formulazioni della clausola sull’oggetto sociale, individuando sia le attività prima indicate in statuto e poi escluse, sia le attività prima non ricomprese e successivamente aggiunte con deliberazione assembleare. Non vale a escludere il legittimo esercizio del diritto di recesso del socio la circostanza per cui la società continui a svolgere di fatto determinate attività, nonostante la rimozione delle stesse dal testo della nuova clausola statutaria. Risultano irrilevanti ai fini del recesso sia i mutamenti non significativi dell’oggetto sociale, sia le mere modificazioni di fatto dell’attività in concreto svolta dalla società, queste ultime potendo determinare conseguenze esclusivamente sul piano della responsabilità degli amministratori per la gestione.
La volontaria giurisdizione si distingue dalla giurisdizione contenziosa poiché ha ad oggetto la gestione di interessi e non la risoluzione di una controversia giuridica su diritti soggettivi o status. Ciò non esclude tuttavia che il presupposto o la condizione della tutela volontaria possa essere la sussistenza di una situazione giuridica sostanziale di natura contenziosa, con conseguente esigenza di un accertamento circa la sussistenza del diritto controverso preliminare e condizionante il provvedimento camerale oggetto del giudizio della volontaria giurisdizione. In tali casi il giudice, chiamato a esercitare le funzioni volontarie, necessariamente conosce incidenter tantum la questione preliminare. Con la conseguenza che l’esame sulla ricorrenza del diritto soggettivo o dello status presupposto dell’azione è compiuto senza valore di cosa giudicata.
Inefficacia della determinazione dei compensi degli amministratori di s.p.a. decisa dal CdA
Il rapporto dell’amministratore con la società è naturalmente oneroso, benché sia legittima la clausola statutaria che preveda la gratuità dell’incarico di amministratore. Quanto alla determinazione del compenso, se non vi provvede lo statuto, spetta all’assemblea dei soci. Nell’ipotesi di amministratore investiti di particolari cariche, peraltro, la retribuzione può essere stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale a pena di annullabilità della delibera. Il rapporto tra l’amministratore di una società di capitali e la società medesima va ricondotto nell’ambito di un rapporto professionale autonomo e, quindi, ad esso non si applica l’art. 36, co. 1, cost., che riguarda il diritto alla retribuzione in senso tecnico, poiché il diverso diritto al compenso professionale dell’amministratore, avendo natura disponibile, può essere oggetto di una dichiarazione unilaterale di disposizione da parte del suo titolare. Pertanto, agli amministratori, a differenza dei lavoratori subordinati, non è riconosciuto il trattamento di fine rapporto. La società, però, può, autonomamente, prevedere la formazione di un trattamento di fine mandato, avente caratteristiche similari. Si tratta di un vero e proprio compenso aggiuntivo che viene erogato all’amministratore all’atto della cessazione del rapporto. A differenza di quanto accade per i dipendenti, la definizione del trattamento di fine mandato non è vincolata, ma è soggetta alla libera contrattazione delle parti, non dovendo essere legata ad alcun parametro, purché sia stabilita nel rispetto del vincolo della ragionevolezza e della congruità, ovvero della sua commisurazione alla realtà economica della società, ai suoi volumi di reddito e all’attività svolta dall’amministratore. La quota di trattamento di fine mandato deve essere deliberata dall’assemblea dei soci o all’atto della costituzione iniziale della società o, successivamente, sotto forma di delibera assembleare.
L’art. 2389 c.c. pone una competenza inderogabile in capo all’assemblea in relazione alla determinazione dei compensi spettanti agli amministratori di società di capitali: letta al contrario, la norma pone un limite esplicito, escludendo espressamente che detta determinazione possa avvenire da parte degli amministratori medesimi. Conseguentemente, traducendosi in una alterazione delle competenze esplicite determinate da norme imperative che regolano la distribuzione delle funzioni tra organi sociali, la deliberazione con la quale il consiglio di amministrazione procede alla determinazione e alla liquidazione dei compensi spettanti ai propri componenti risulta improduttiva di effetti nei confronti della società.
Sequestro conservativo ante causam nei confronti di amministratori e sindaci di s.p.a.
L’azione sociale, anche se esercitata dal curatore fallimentare, ha natura contrattuale, in quanto trova la sua fonte nell’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo, ovvero nell’inadempimento dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo. La norma di cui all’art. 2392 c.c. struttura, quindi, una responsabilità degli amministratori in termini colposi, come emerge chiaramente sia dal richiamo, contenuto nel primo comma della disposizione menzionata, alla diligenza quale criterio di valutazione e di ascrivibilità della responsabilità (richiamo che sarebbe in contrasto con una valutazione in termini oggettivi della responsabilità), sia dalla circostanza che il secondo comma consente all’amministratore di andare esente da responsabilità, fornendo la prova positiva di essere immune da colpa.
L’azione spettante ai creditori sociali ai sensi dell’art. 2394 c.c. costituisce conseguenza dell’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, con conseguente diritto del creditore sociale di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere.
Per l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di mala gestio e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l’approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la causa petendi deve sin dall’inizio sostanziarsi nell’indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale.
In tema di azione esercitata ai sensi dell’art. 2392 c.c. la società attrice è onerata dell’allegazione e della prova, sia pure mediante presunzioni, dell’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale, di cui chiede il ristoro, e della riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico: in ciò appunto consiste il danno risarcibile, che è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente. In difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria mancherebbe di oggetto. Infatti, all’amministratore che pure si sia reso responsabile di condotte illecite non può essere imputato ogni effetto patrimoniale dannoso che la società, cui esso è legato da un rapporto di mandato, sostenga di aver subito, ma solo quello che si ponga come conseguenza immediata e diretta della violazione degli obblighi incombenti sull’amministratore.
Validità della clausola penale nella lettera di intenti di cessione di partecipazioni
La clausola penale è intesa a rafforzare il vincolo contrattuale e a stabilire preventivamente la prestazione cui è tenuto uno dei contraenti qualora si renda inadempiente – ciò anche quando la stessa sia inserita in una lettera di intenti relativa alla cessione di partecipazioni – con l’effetto di limitare a tale prestazione il risarcimento, indipendentemente dal danno effettivo, salvo la risarcibilità di un danno ulteriore qualora ciò sia convenuto, sicché la funzione della clausola è di permettere la monetizzazione di tale pregiudizio indipendentemente dalla prova della concreta esistenza del danno effettivamente sofferto, restando, d’altra parte, inteso che la clausola costituisce solo una liquidazione anticipata del danno destinata a rimanere assorbita, nel caso di prova di ulteriori e maggiori danni, nella liquidazione complessiva di questi.
Effetto sanante della delibera sostitutiva ex art. 2377, co. 8, c.c.
La delibera assembleare avente ad oggetto la revoca di un amministratore risulta assorbente della domanda di annullamento di una precedente delibera il cui verbale non era stato sottoscritto dallo stesso soggetto, all’epoca presidente del CdA, ma solo dal segretario. A tal proposito, atteso che la revoca della carica di consigliere comporta in sé la revoca della carica di presidente, trova applicazione l’art. 2377, co. 8, c.c. Ai sensi di questa disposizione, l’annullamento della deliberazione non può aver luogo, se la deliberazione impugnata è sostituita con altra presa in conformità della legge e dello statuto, la quale ha sanato le eventuali irregolarità procedurali lamentate, che andranno verificate ai soli fini della soccombenza virtuale per la liquidazione delle spese.
Convocazione d’urgenza del consiglio di amministrazione
Al fine di procedere con la convocazione d’urgenza del consiglio di amministrazione di una s.p.a., con la conseguente riduzione dei termini di preavviso previsti nello statuto per l’invio dell’avviso di convocazione ai membri del consiglio di amministrazione, è sufficiente l’effettiva sussistenza delle ragioni d’urgenza e che tali ragioni d’urgenza siano conosciute dai membri del consiglio di amministrazione, senza che sia necessario qualificare espressamente la convocazione come urgente, né indicare all’interno dell’avviso di convocazione quali siano i motivi dell’urgenza.
Accertamento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c. per l’accertamento della corretta determinazione del prezzo delle azioni acquistate
Al fine di permettere la concessione di un accertamento tecnico preventivo ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c. occorre vagliare la sussistenza del fumus boni iuris. L’istituto disciplinato dalla norma sopracitata ha una funzione deflattiva e di istruzione preventiva. Infatti, per accordare tale misura, si può prescindere dal requisito del periculum, ma non dal fumus. La necessaria sussistenza di quest’ultimo è utile al fine di escludere che la misura richiesta sia irrilevante; la ratio è, quindi, quella di scongiurare accertamenti tecnici preventivi meramente esplorativi.
In caso di istanza di accertamenti tecnici preventivi domandati per valutare la corretta determinazione del prezzo delle azioni cedute, il requisito del fumus non sussiste nel caso in cui il prezzo medesimo sia stato liberamente pattuito dalle parti.
Sul compenso dell’amministratore di società per azioni
L’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico, sicché l’attività professionale dallo stesso prestata deve presumersi come svolta a titolo oneroso, in applicazione dei principi previsti in materia di mandato ex art. 1709 c.c., essendo quindi onere della società quello di superare la presunzione di onerosità del compenso. Resta, infatti, salva la possibilità che lo statuto preveda la gratuità dell’incarico ovvero che l’amministratore stesso vi rinunci. La rinuncia può essere anche tacita e desumersi da comportamenti concludenti, purché si tratti di comportamenti univoci che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto e che quindi rivelino in modo inequivocabile la volontà dismissiva del relativo diritto, non essendo sufficiente, a desumere la rinuncia al compenso, la mera inerzia o il silenzio dell’amministratore.
Ai sensi dell’art. 2389 c.c., previsto in materia di s.p.a. ma applicabile alle s.r.l., i compensi spettanti agli amministratori sono stabiliti dallo statuto o dall’assemblea. Rimangono quindi prive di effetti altre eventuali forme di determinazione diverse da quelle previste dall’art. 2389 c.c., tra cui l’accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge. In mancanza di determinazione statutaria o assembleare del compenso, l’amministratore può ricorrere all’autorità giudiziaria affinché ne stabilisca l’ammontare, anche in via equitativa, purché l’amministratore alleghi e provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte e offra elementi tali da consentire al giudice di operare un’equa determinazione, non essendo sufficiente, ad esempio, la mera indicazione del compenso pattuito in esercizi sociali di anni diversi.
Con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell’art. 2389, co. 1, c.c., (nel testo vigente prima delle modifiche, non decisive sul punto, di cui al d.lgs. n. 6 del 2003), la delibera assembleare determinativa del compenso, in assenza di previsione statutaria, deve esser esplicita e non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea (art. 2630, co. 2, c.c., abrogato dall’art. 1 del d.lgs. n. 61 del 2002); la distinta previsione della delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (art. 2364, nn. 1 e 3, c.c.); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (art. 2434 c.c.); il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società (art. 2393, co. 2, c.c.). Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389 c.c., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori.
L’eccezione di prescrizione in materia di rapporti sociali
La dichiarazione contenente proposta di dilazione di pagamento costituisce causa di interruzione della prescrizione ai sensi e per gli effetti dell’art. 2944 c.c.
L’eccezione di prescrizione sollevata da una società in relazione alle prestazioni rese – nel corso di esercizi antecedenti – da un componente del collegio sindacale è soggetta non alle regole generali in materia di prestazioni professionali, bensì a quelle di speciale portata di cui all’art. 2949, comma 1° c.c., atteso l’indubbio carattere sociale del rapporto fra la società ed i componenti dei propri organi.
Natura, validità ed efficacia dei patti parasociali
I patti parasociali sono contratti atipici aventi carattere complementare e collaterale al contratto di società e sono diretti alla stabilizzazione degli assetti proprietari ovvero alla governance della società, quest’ultima intesa come “complesso delle attività svolte dagli organi societari”. Tali strumenti consentono, infatti, di neutralizzare ovvero temperare il conflitto che spesso sorge tra l’interesse personale del singolo socio, ovvero di gruppi di soci, e quello della società e possono essere stipulati in qualunque forma, tra soci ovvero anche tra soci e terzi estranei alla società.
L’introduzione degli artt. 2341 bis e 2341 ter c.c. ad opera del legislatore della riforma del 2003 ha avuto un duplice effetto: da un lato, quello di conferire dignità giuridica a tali accordi (della cui validità in passato si dubitava), e, dall’altro, di tipizzare taluni patti in funzione della loro idoneità a fornire alla società stabilità negli assetti proprietari o nel governo della società. L’art. 2341 bis c.c. disciplina espressamente i patti aventi ad oggetto l’esercizio del diritto di voto (cc.dd. sindacati di voto), quelli volti a limitare il trasferimento delle partecipazioni sociali (cc.dd. sindacati di blocco) e quelli aventi ad oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza anche dominante sulla società (cc.dd. sindacati di concertazione). Tale previsione normativa, lungi dal fornire una definizione di questa espressione dell’autonomia negoziale, è finalizzata a operare una selezione di tali patti (non sono previsti ad esempio i patti di consultazione, né quelli sull’acquisto di azioni) rispetto ai quali vi sia un interesse protetto al contenimento della durata e all’informazione di terzi. Infatti, per le convenzioni parasociali espressamente menzionate nella norma è prevista una durata massima di 5 anni e una particolare forma di pubblicità, ex art 2341 ter c.c. Come sancito dalla legge delega, però, le norme codicistiche che disciplinano i patti parasociali si applicano limitatamente alle s.p.a. e alle società che le controllano.
L’affermarsi di pratiche di affari sempre piu’ evolute, che richiedono versatilità e duttilità, hanno contribuito al ricorso frequente anche a forme atipiche di patti parasociali, cui, pertanto, trova applicazione la disciplina generale in materia di contratti. I patti parasociali (e, in particolare, i cc.dd. sindacati di voto) sono, nella loro composita tipologia (che non consente, pertanto, la riconduzione ad uno schema tipico unitario), accordi atipici, volti a disciplinare, in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti, il modo in cui dovrà atteggiarsi, su vari oggetti, il loro diritto di voto in assemblea. Il vincolo che discende da tali patti opera, pertanto, su di un terreno esterno a quello dell’organizzazione sociale (dal che, appunto, il loro carattere parasociale e, conseguentemente, l’esclusione della relativa invalidità ipso facto), sicchè non è legittimamente predicabile, al riguardo, né la circostanza che al socio stipulante sia impedito di determinarsi autonomamente all’esercizio del voto in assemblea, né quella che il patto stesso ponga in discussione il corretto funzionamento dell’organo assembleare (operando il vincolo obbligatorio così assunto non dissimilmente da qualsiasi altro possibile motivo soggettivo che spinga un socio a determinarsi al voto assembleare in un certo modo), poiché al socio non è in alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l’interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere dell’inadempimento del patto.
Talvolta, tali patti sono confezionati anche secondo lo schema della promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c. e ciò accade, allorquando, ad esempio, uno o più soci si impegnano nei confronti di altri soci o di terzi a ottenere una condotta di uno o più amministratori, spesso determinata per relationem, mediante rinvio alle decisioni assunte in sede parasociale dalla maggioranza dei soci sindacati o dall’organo direttivo del patto.
Ai fini, poi, della configurazione di tali accordi, non è essenziale che tutti i partecipanti rivestano la qualità di socio e che il patto parasociale, in forza del quale taluni soci si impegnano a eseguire prestazioni a beneficio della società, integri la fattispecie del contratto a favore di terzo ai sensi dell’art. 1411 c.c., del quale sono legittimati a pretendere l’adempimento sia la società, quale terzo beneficiario, sia i soci stipulanti, moralmente ed economicamente interessati a che l’obbligazione sia adempiuta nei confronti della società di cui fanno parte.
Non sussiste alcuna preclusione a che la convenzione parasociale venga sottoscritta oltre che dai soci anche da terzi, purché l’oggetto del patto sia l’assunzione di obbligazioni in relazione all’esercizio dei diritti sociali all’interno della società. Nessuna norma preclude a un terzo di prendere parte al patto parasociale, non essendo previste limitazioni soggettive, atteso che l’intesa deve vertere sostanzialmente sull’esplicazione dei diritti sociali all’interno della compagine societaria interessata.
Nessun precetto obbliga al fatto che la volontà assembleare si formi soltanto nel consesso assembleare (a tal proposito, emblematici sono gli istituti del voto per rappresentanza e per corrispondenza). Sono inderogabili le regole formali del procedimento assembleare (convocazione, votazione, verbalizzazione, ecc.), ma non quelle relative alle modalità di formazione della volontà dei soci. Pertanto, se i criteri di nomina degli amministratori o la formazione della volontà dell’organo consiliare sono prestabiliti all’esterno, rispettivamente, dell’assemblea sociale o del CdA, ciò non assume conseguenze particolari sulla compagine societaria o sull’ordinamento societario, semprechè non si configuri un conflitto con l’interesse sociale.
Il patto parasociale vincola il parasocio ad assumere un certo comportamento all’interno della vita societaria, ma lo stesso non assume un obbligo coercitivo in tal senso. Il socio conserva comunque il diritto alla libera partecipazione alla formazione della volontà assembleare e, quindi, può liberamente decidere di non rispettare il sindacato di voto, né tantomeno l’adempimento può essere suscettibile di esecuzione in forma specifica. Il mancato rispetto del patto parasociale lo esporrà inevitabilmente alle conseguenze dell’inadempimento, ma non condiziona sempre e comunque l’esercizio dei propri diritti sociali. D’altra perte, il patto con cui alcuni soci si accordino per votare in una certa maniera non costituisce di per sé una violazione del principio della libertà di voto poiché i soci sono comunque liberi di disporre del proprio voto, né il patto di per sé pone in discussione il corretto funzionamento dell’organo assembleare sotto il profilo di una alterazione della corretta formazione della maggioranza poiché al socio non è in alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l’interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere dell’inadempimento del patto.
[Nella specie, il Tribunale ha dichiarato la nullità parziale di una clausola del patto che stabiliva un quorum di approvazione del 70% in relazione a qualsiasi delibera assembleare per contrarietà al disposto dell’art. 2369, co. 4, c.c. – ai sensi del quale lo statuto non può imporre maggioranze più elevate per l’approvazione del bilancio e per la nomina e revoca delle cariche sociali – senza che ciò determinasse l’estensione di tale nullità parziale alle altre disposizioni del patto parasociale, le quali non erano contrarie a norme imperative o elusive di norme o principi dell’ordinamento].
Perché un soggetto sia considerato amministratore di fatto della società, le attività gestorie dallo stesso poste in essere devono presentare carattere sistematico e non si devono esaurire soltanto nel compimento di singoli atti di natura eterogenea ed occasionale; sempre che detto esercizio non sia giustificabile in base ad un rapporto lavorativo subordinato e/o autonomo con la società, per cui l’interessato verta in una posizione di subordinazione o soggiaccia a poteri di direttiva dell’amministratore di diritto. Non è richiesta la riferibilità degli atti compiuti all’intero spettro delle attività amministrative, risultando sufficiente un intervento incisivo e non occasionale, che, in quanto idoneo a influenzare le scelte imprenditoriali in settori chiave, sia tale da improntare di sé l’operato complessivo della società. In quest’ottica, pur dovendosi riconoscere che un siffatto condizionamento non può non trasparire nei rapporti con i terzi, deve altresì escludersi la necessità che esso si traduca nel diretto compimento di atti a rilevanza esterna, risultando invece sufficiente che le determinazioni riguardanti la gestione sociale siano riconducibili alla volontà dell’amministratore di fatto, eventualmente anche in concorso con l’amministratore di diritto, il quale non deve necessariamente rivestire il ruolo di mero prestanome.
Ai fini della riduzione ad equità della clausola penale ex art. 1384 c.c., l’apprezzamento dell’eventuale eccessività della penale per inadempimento suppone – si tratti di richiesta di parte o di iniziativa d’ufficio – che le circostanze rilevanti per il giudizio di sproporzione comunque emergano dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, quale risultante ex actis, senza che il giudice possa ricercarlo d’ufficio. L’intervento di riduzione ad equità presuppone che la manifesta eccessività della penale sia valutata tenendo conto dell’interesse che il creditore aveva all’adempimento.