Efficacia della revoca per giusta causa della procura
Anche in tema di procura, analogamente alle previsioni in materia di mandato, il potere rappresentativo non può essere liberamente revocato se esso è conferito anche nell’interesse del rappresentante ovvero quando esso è definito quale espressamente irrevocabile.
L’irrevocabilità, ove espressamente prevista, non comporta che la procura non possa perdere i suoi effetti ed il procuratore perdere il potere rappresentativo, ove la revoca di esso sia stata posta in essere dal rappresentato, producendosi nel caso un solo eventuale obbligo risarcitorio o indennitario. Di converso, ove la procura sia conferita anche nell’interesse del rappresentante, il difetto di giusta causa determina che la revoca sia improduttiva di effetti.
Legittimazione del terzo a impugnare il bilancio e responsabilità degli amministratori di s.r.l.
L’interesse del terzo creditore sociale all’impugnazione del bilancio per nullità non sussiste soltanto nel caso di stipulazione di un contratto per errore di fatto sulla situazione economica e finanziaria determinato da oscura o non veritiera rappresentazione della stessa nel bilancio. L’interesse ad agire in tal senso deve ravvisarsi ogniqualvolta dalla rettificazione del bilancio, conseguente all’accertamento della sua nullità, possano derivare conseguenze di rilievo sul piano giuridico. In particolare, ciò accade quando una corretta redazione del bilancio avrebbe generato la verificazione di una situazione di scioglimento della società, con conseguente applicazione della regola di cui al primo comma dell’art. 2486 c.c., in forza del quale gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.
Non trova applicazione il disposto di cui all’art. 2434 bis, co. 1, c.c., a norma del quale le azioni previste dagli artt. 2377 e 2379 c.c. non possono essere proposte nei confronti delle deliberazioni di approvazione del bilancio dopo che è avvenuta l’approvazione del bilancio successivo, ove sia rilevabile d’ufficio da parte del giudice la nullità della deliberazione per illiceità dell’oggetto, tale dovendo ritenersi quella di approvazione di un bilancio non chiaro o non veritiero. Infatti, le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio sono inderogabili in quanto la loro violazione determina una reazione dell’ordinamento a prescindere dalla condotta delle parti e rende illecita la delibera di approvazione e, quindi, nulla. Tali norme, infatti, non solo sono imperative, ma contengono principi dettati a tutela, oltre che dall’interesse dei singoli soci ad essere informati dell’andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell’affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere l’effettiva situazione patrimoniale e finanziaria dell’ente.
La norma di cui all’art. 2467 c.c. non si applica ai crediti dei soci nei confronti della società sorti per effetto di finanziamenti anteriori all’entrata in vigore di tale disposizione (1 gennaio 2004).
In tema di società di capitali, le dazioni di denaro dei soci in favore della società possono essere effettuate per finalità tra loro molto diverse, a cui risponde una diversità di disciplina (conferimenti, finanziamenti, versamenti a fondo perduto o in conto capitale, versamenti in conto futuro aumento di capitale), sicché l’organo amministrativo non è arbitro di appostare in bilancio tali dazioni, né di mutare la voce relativa, successivamente all’iscrizione originaria, dovendo quest’ultima rispecchiare l’effettiva natura e la causa concreta delle medesime, il cui accertamento, nell’interpretazione della volontà delle parti, è rimesso all’apprezzamento riservato al giudice del merito.
Gli amministratori della società sono liberi di decidere per la resistenza in giudizio pur a fronte di contestazioni della controparte, ma devono nel contempo prefigurarsi come possibile l’esito negativo della vertenza e mettere in conto i relativi maggiori costi, di ciò dando la dovuta evidenza in bilancio, e richiedere alla proprietà la ricapitalizzazione della società che ne garantisca la solvibilità anche a fronte dei rischi correlati al contenzioso in atto. Ciò vale anche nei confronti degli amministratori che non siano stati parte in giudizio.
In tema di azione di responsabilità per violazione del divieto di concorrenza ex art. 2390, co. 1, c.c. l’attività concorrenziale potrebbe risultare di rilievo per il terzo creditore della società soltanto nel caso in cui ne sia derivato un depauperamento della consistenza patrimoniale di quest’ultima.
Periculum in mora per il sequestro giudiziario di quote nel caso di messa in liquidazione della società controllata
In tema di sequestro giudiziario di una quota di partecipazione ad una s.r.l., ed in particolare della sussistenza del requisito del periculum in mora, al fine della concessione della custodia deve ricorrere il concreto rischio di una dispersione della quota, ovvero l’opportunità di provvedere alla gestione temporanea della quota in presenza di un conflitto fra soci paritari ovvero la necessità di preservarne il valore.
Se la s.r.l. detiene una partecipazione totalitaria in un’altra s.r.l., l’opportunità della custodia della quota può essere desunta dalla messa in liquidazione della società controllata, che verosimilmente determinerà la svalutazione del valore della partecipazione iscritta a bilancio della controllante: il periculum necessario per disporre il sequestro giudiziario della partecipazione sociale oggetto di contenzioso deriva infatti dal rischio di perdita di valore della partecipazione totalitaria detenuta dalla società, per effetto della messa in liquidazione della stessa.
Estinzione della società e fenomeno successorio verso i soci dei rapporti giuridici non venuti meno
Le società di capitali si estinguono immediatamente per effetto della cancellazione dal Registro delle Imprese. Nel caso in cui all’estinzione e alla cancellazione dal Registro delle Imprese della società (di persone o di capitali che sia) non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, sia dal lato passivo avuto riguardo alle obbligazioni che dal lato attivo con riferimento ai diritti e ai beni non compresi nel bilancio di liquidazione. Detti diritti e beni vengono trasferiti ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa, ad eccezione delle mere pretese e dei diritti di credito illiquidi e non ancora esigibili.
L’estinzione della società comporta il venir meno dell’ente, dei suoi organi, del contratto sociale e dei diritti sociali ad esso afferenti, salvi taluni diritti che potranno sopravvivere all’estinzione dell’ente od insorgere all’esito della liquidazione.
Il diritto di controllo ed ispezione di cui all’art. 2476, co. 2, c.c. è un diritto potestativo strumentale a qualunque prerogativa del socio e non solo all’esercizio dell’azione di responsabilità. Trattandosi di un diritto amministrativo che appartiene al socio e che può esser fatto valere solo nei confronti della società partecipata, esso non può sopravvivere all’estinzione dell’ente. L’estinzione dell’ente e del contratto comportano il venir meno di tale diritto in capo all’ex socio e corrispondentemente del correlativo obbligo in capo ad un ente non più esistente.
L’art. 2496 c.c., proprio a conclusione della fase di liquidazione della società e della correlata estinzione, consente a chiunque – ivi compresi dunque gli ex soci – di esaminare i libri sociali che devono essere depositati e conservati presso l’ufficio del Registro delle Imprese per dieci anni.
Presupposti per l’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di fatto di s.r.l.
L’azione di responsabilità promossa nei confronti di più amministratori o sindaci non costituisce un caso di litisconsorzio necessario tra i convenuti, trattandosi di una pluralità di rapporti distinti, anche se collegati tra loro, e che consentono, pertanto, di agire separatamente nei confronti di ciascuno di essi.
Ai fini dell’individuazione della figura dell’amministratore di fatto della società non è necessario che l’attività posta in essere dal soggetto che si è ingerito nella gestione sociale in assenza di qualsivoglia investitura sia caratterizzata da completezza e, cioè, che sia svolta in tutti gli abiti tipici della funzione gestoria e attraverso atti conformativi dell’operato della società aventi valenza esterna. L’amministratore di fatto, esercitando dei poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, può concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società attraverso il compimento o l’omissione di atti di gestione.
Il potere / dovere del liquidatore di chiedere il fallimento in proprio (liquidazione giudiziale)
Il liquidatore di una società di capitali, quale rappresentante legale dell’ente, è legittimato ad agire tempestivamente nella richiesta di fallimento in proprio, ciò rappresentando, in assenza di valide alternative negoziali, la migliore forma di liquidazione possibile.
L’insolvenza di una società in liquidazione si misura sotto il profilo patrimoniale e non sotto quello finanziario. E’ dunque insolvente quella società che, posta in liquidazione, non è in grado con il suo patrimonio di soddisfare tutti i creditori. Rilevata l’insolvenza, il liquidatore ha il dovere di attivarsi diligentemente per impedire l’aggravamento del dissesto in funzione di tutela dei creditori che vantano sul patrimonio sociale la garanzia generica dei propri crediti, esercitando il proprio potere autonomo di domandare il fallimento in proprio della società amministrata. Tale obbligo trova conferma anche nel sistema di emersione tempestiva della crisi congegnato dal codice della crisi e dell’insolvenza attualmente vigente.
In caso di ritardata richiesta di fallimento, il danno della condotta inadempiente del liquidatore corrisponde a quella parte di costi sostenuti dalla società che, se fosse stato dichiarato tempestivamente il fallimento, non si sarebbero verificati.
Anche la condotta gestoria del liquidatore beneficia del metro di giudizio della business judgement rule, in forza della quale ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice non è la convenienza e/o l’utilità dell’atto in sé, né il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì le modalità di esercizio del potere discrezionale spettante agli amministratori, che per essere immuni da critiche non devono travalicare i limiti della ragionevolezza (Nel caso di specie, è stato ritenuto inadempiente il liquidatore che abbia resistito irragionevolmente ad una domanda di pagamento di un creditore sociale, così arrecando un danno alla società consistente nel depauperamento del patrimonio sociale per l’applicazione degli ulteriori costi connessi al procedimento contenzioso e degli interessi maturati sul debito riconosciuto ad esito di tale procedimento).
Azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare nei confronti degli amministratori di s.r.l.
Il diritto a far valere l’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. sorge nel momento in cui il patrimonio sociale risulti insufficiente per il soddisfacimento dei creditori della società e si manifesti il decremento patrimoniale – sotto il duplice profilo del danno emergente e del lucro cessante – costituente il pregiudizio che la società non avrebbe subito se non vi fosse stato un comportamento, commissivo od omissivo, illegittimo da parte degli amministratori.
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare ai sensi dell’art. 146 l. fall. racchiude in una sola posizione giuridica la legittimazione del successore nel patrimonio sociale della società fallita, nonchè la legittimazione a far valere i diritti che la legge fallimentare attribuisce ai creditori terzi, in sè considerati quali massa indistinta per effetto dell’universalità della procedura concorsuale.
Responsabilità dell’amministratore per violazione del principio di postergazione ex articolo 2467 c.c.
Nel contesto di un’azione di responsabilità esercitata contro l’amministratore unico e derivante dalla presunta violazione del principio di postergazione dei finanziamenti dei soci ex articolo 2467 c.c., l’ammissione della figura dell’amministratore di fatto non priva della responsabilità l’amministratore di diritto cui siano riconducibili specifiche condotte fonte di responsabilità, come il rimborso di finanziamenti soci, inquadrabili come vere e proprio distrazioni. Infatti, nonostante le condotte di malagestio siano condotte proprie dell’amministratore di fatto, la posizione dell’amministratore di diritto resta tale per cui, senza il suo assenso e cooperazione, nessuno degli atti dell’amministratore di fatto, implicante contatti con terzi, potrebbe avere alcun effetto, e ciò in forza della formalità della rappresentanza societaria.
Per l’esclusione del socio di s.r.l. non è sufficiente il venire meno dell’affectio societatis
L’atto costitutivo di s.r.l. può prevedere “specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa del socio” (art. 2473-bis c.c.), con la conseguenza che l’esclusione del socio è dunque possibile solo ove ricorrano due circostanze e, cioè, che l’atto costitutivo predetermini, in modo specifico, le cause di esclusione e che tali ipotesi convenzionali siano tutte riconducibili al genere della “giusta causa”.
Nella società a responsabilità limitata non basta pertanto il venir meno dell’affectio societatis per risolvere il vincolo sociale limitatamente ad un socio con una delibera assembleare adottata dalla maggioranza, ma occorre una apposita previsione statutaria che lo consenta. E’ necessario, dunque, che la giusta la causa di esclusione sia espressamente indicata come tale dai soci nell’atto costitutivo o nello statuto e dunque investita di tale rilevanza dagli stessi. E la specifica predeterminazione di fattispecie tipizzate di giusta causa è tesa, proprio, ad evitare che la decisione di esclusione possa volta per volta esser riempita con una valutazione discrezionale della maggioranza in merito alla ricorrenza della giusta causa stessa.
Nel giudizio di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio, incombe sulla società l’onere di provare i fatti posti a fondamento della deliberazione impugnata in quanto la veste di convenuta che la società assume in sede processuale è meramente formale, ed equivale, dal punto di vista sostanziale, a quella di attrice, quale parte che insista per la risoluzione del rapporto sociale.
Sospensione della delibera assembleare di esclusione del socio di S.r.l.
Ai fini della valutazione da parte del giudice sulla sospensione cautelare della delibera assembleare impugnata ex art. 2378 c.c., i presupposti richiesti per la concessione di tale misura cautelare tipica sono la rilevazione, sia pure a livello di fumus (e cioè di probabilità), di un vizio invalidante e del periculum in mora, il cui accertamento richiede, in concreto, la comparazione tra il pregiudizio che l’opponente potrebbe subire per effetto dell’esecuzione di una delibera invalida e quello che potrebbe patire la società per effetto della sospensione di tale esecuzione. In sostanza, affinché la delibera possa essere cautelarmente sospesa, è necessario che il giudice accerti: a) che effettivamente, sia pure a livello di fumus, la delibera/decisione impugnata sia inficiata da vizi di legittimità che ne comporterebbero l’annullabilità ovvero la nullità; b) che l’opponente, per effetto della mancata sospensione, finirebbe per subire un danno illecito superiore a quello che legittimamente subirebbe la società ove la sospensione fosse viceversa, accordata (periculum in mora).