La prova dell’intesa illecita nel giudizio stand alone
Nel giudizio c.d. stand alone l’attore, chiamato a dar prova dei fatti costitutivi della domanda, non può giovarsi – come nella c.d. follow on action – dell’accertamento dell’intesa illecita contenuto in un provvedimento dell’autorità amministrativa competente a vigilare sulla conservazione dell’assetto concorrenziale del mercato, e ciò perché un simile accertamento o manca del tutto o c’è, ma riguarda un periodo diverso da quello in cui si colloca la specifica vicenda negoziale che avrebbe leso la sfera giuridica dell’attore.
Qualora venga dedotta la nullità di una fideiussione, in quanto contratta a valle di un’intesa restrittiva della concorrenza, come avviene nel caso relativo alle norme bancarie uniformi in materia di fideiussioni omnibus, la controversia va deferita alla competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa.
La legge n. 130 del 1999, in materia di operazioni di cartolarizzazione dei crediti, ha previsto, avuto riguardo alle società appositamente costituite (c.d. società veicolo o “special pourpose vehicle”), per espressa disposizione di legge (art. 3, co. 2) che i crediti che formano oggetto di ciascuna operazione di cartolarizzazione costituiscono un vero e proprio patrimonio separato, destinato in via esclusiva al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti, nonché al pagamento dei costi dell’operazione. Accedere a una ricostruzione diversa significherebbe annullare – quasi per “sublimazione” – la distinzione stessa tra cessione del credito e cessione del contratto, conferendo a quella prevista dalla legge n. 130 del 1999 i caratteri propri della fattispecie ex art. 1411 c.c. Un esito, questo, che non solo collide con la natura e la finalità dell’operazione di cartolarizzazione disciplinata dalla legge citata, ma che non si pone in linea con il dettato normativo da essa recato.
Fideiussioni omnibus: la prova privilegiata dell’intesa restrittiva della concorrenza
La produzione in giudizio del provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2 maggio 2005 costituisce idonea prova dell’esistenza dell’intesa restrittiva della concorrenza invocata a fondamento dell’invalidità degli atti negoziali in relazione alla fideiussione omnibus sottoscritta all’interno del perimetro temporale oggetto dell’accertamento della Banca d’Italia (2003-2005). Infatti l’accertamento compiuto dall’autorità amministrativa, con specifico riferimento a uno schema contrattuale elaborato per quella determinata tipologia di operazioni, ha efficacia di prova privilegiata nell’azione di nullità ex art. 33 della legge n. 287 del 1990, trattandosi di documentazione che, raccogliendo gli esiti di un’esaustiva istruttoria avente carattere definitivo, assume valore intrinseco di fonte probatoria privilegiata dell’illecito antritrust.
L’art. 1957 c.c., nell’imporre al creditore di proporre la sua istanza contro il debitore entro sei mesi dalla scadenza per l’adempimento dell’obbligazione garantita dal fideiussore, a pena di decadenza dal suo diritto verso quest’ultimo, tende a far sì che il creditore stesso prenda sollecite e serie iniziative contro il debitore principale per recuperare il proprio credito, in modo che la posizione del garante non resti indefinitamente sospesa; pertanto, il termine “istanza” si riferisce ai vari mezzi di tutela giurisdizionale del diritto di credito, in via di cognizione o di esecuzione, che possano ritenersi esperibili al fine di conseguire il pagamento, indipendentemente dal loro esito e dalla loro idoneità a sortire il risultato sperato.
La fideiussione specifica si pone al di fuori del perimetro dell’accertamento condotto dalla Banca d’Italia, cui è seguita la pubblicazione del provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005; pertanto, l’azione volta ad accertarne la nullità si configura quale azione stand alone. Tale inquadramento dell’azione comporta l’onere per parte attrice di allegazione e di dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, tra i quali rientra quello della perdurante esistenza, all’epoca della sottoscrizione del contratto, dell’intesa illecita, pur essendo tale onere probatorio attenuato nel giudizio antitrust in considerazione della frequente asimmetria informativa esistente tra il soggetto che subisce l’illecito e l’autore dello stesso.
Cause stand alone e onere della prova
L’interesse protetto dalla normativa antitrust è principalmente quello del mercato in senso oggettivo, cioè quello della trasparenza e della correttezza del mercato, e non soltanto l’interesse individuale del singolo contraente pregiudicato. Pertanto, chiunque, sia l’imprenditore sia il consumatore, può ritenersi vittima dell’illecito anticoncorrenziale e far valere quindi la nullità del contratto.
Laddove la controversia rientri nelle cause stand alone la parte attrice è onerata dell’allegazione e dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito concorrenziale.
Fideiussione omnibus stipulata dopo il maggio 2005 e giudizio stand alone: l’onere della prova
La fideiussione omnibus che sia stata stipulata successivamente al periodo di accertamento dell’Antitrust (provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2005) rientra nei giudizi cc.dd. stand alone, nei quali l’opponente, chiamato a dar prova dei fatti costitutivi della domanda, non può giovarsi – come nelle cc.dd. follow on actions – dell’accertamento dell’intesa illecita contenuta in un provvedimento dell’autorità amministrativa competente a vigilare sulla conservazione dell’assetto concorrenziale del mercato. Ciò perché un simile accertamento o manca del tutto o c’è, ma riguarda un periodo diverso da quello in cui si colloca la specifica vicenda negoziale che avrebbe leso la sfera giuridica dell’attore. Ne consegue che parte opponente è onerata dell’allegazione e dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, tra i quali rientra quello della perdurante esistenza di un’intesa illecita all’epoca della sottoscrizione del contratto impugnato.
La distinzione tra contratto autonomo di garanzia e fideiussione
Il contratto autonomo di garanzia (c.d. garantievertrag), espressione dell’autonomia negoziale ex art. 1322 c.c., ha la funzione di tenere indenne il creditore dalle conseguenze del mancato adempimento della prestazione gravante sul debitore principale, contrariamente al contratto del fideiussore, il quale garantisce l’adempimento della medesima obbligazione principale altrui, attesa l’identità tra prestazione del debitore principale e prestazione dovuta dal garante. Inoltre, la causa concreta del contratto autonomo è quella di trasferire da un soggetto a un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa dipesa da inadempimento colpevole oppure no, mentre con la fideiussione, nella quale solamente ricorre l’elemento dell’accessorietà, è tutelato l’interesse all’esatto adempimento della medesima prestazione principale. Ne deriva che, mentre il fideiussore è un “vicario” del debitore, l’obbligazione del garante autonomo si pone in via del tutto autonoma rispetto all’obbligo primario di prestazione, essendo qualitativamente diversa da quella garantita, perché non necessariamente sovrapponibile ad essa e non rivolta all’adempimento del debito principale, bensì a indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore.
Il contratto autonomo di garanzia si caratterizza rispetto alla fideiussione per l’assenza dell’accessorietà della garanzia, derivante dall’esclusione della facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in deroga all’art. 1945 c.c., dalla conseguente preclusione del debitore a chiedere che il garante opponga al creditore garantito le eccezioni nascenti dal rapporto principale, nonché dalla proponibilità di tali eccezioni al garante successivamente al pagamento effettuato da quest’ultimo, là dove l’accessorietà della garanzia fideiussoria postula, invece, che il garante ha l’onere di preavvisare il debitore principale della richiesta di pagamento del creditore, ai sensi dell’art. 1952, co. 2, c.c., all’evidente scopo di porre il debitore in condizione di opporsi al pagamento, qualora esistano eccezioni da far valere nei confronti del creditore. Peraltro, se l’inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento “a prima richiesta e senza eccezioni” vale di per sé a qualificare il negozio come contratto autonomo di garanzia, in quanto incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza il contratto di fideiussione, salvo quando vi sia un’evidente discrasia rispetto all’intero contenuto della convenzione negoziale, tuttavia, in presenza di elementi che conducano comunque a una qualificazione del negozio in termini di garanzia autonoma, l’assenza di formule come quella anzidetta non è elemento decisivo in senso contrario.
L’onere della prova dell’illecito anticoncorrenziale grava sulla parte che ne assume l’esistenza secondo le regole ordinarie del processo civile, ad eccezione dei casi in cui esso sia stato già oggetto di positivo accertamento da parte dell’autorità amministrativa deputata alla vigilanza sul mercato, potendo in tale caso la parte interessata avvalersi di tale prova privilegiata.
Fideiussione omnibus stipulata dopo il 2005 e azione stand alone
Il provvedimento 55/2005 della Banca d’Italia costituisce una prova privilegiata dell’illecito antitrust nel giudizio di nullità ex art. 33 l. 287/1990 per le fideiussioni omnibus che si collocano nel periodo (ottobre 2002 – maggio 2005) esaminato dal provvedimento stesso, includendo anche i contratti a valle, che costituiscano l’applicazione delle intese illecite concluse a monte, stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa distorsiva della concorrenza da parte della Banca d’Italia.
La nullità, discendente dall’intesa illecita oggetto della pronuncia n. 55/2005 della Banca d’Italia, è limitata alle sole clausole de quibus e non estesa all’intero contratto. La nullità solo parziale dei contratti di fideiussione è rilevabile anche d’ufficio, solo ove vi sia la scelta della parte di chiedere l’accertamento della nullità dell’intero contratto e non anche, in via eventualmente subordinata, delle sole clausole espressione dell’intesa illecita, non essendo consentita, in tale ultima ipotesi, l’esame della questione relativa alla nullità parziale del contratto.
In caso di domanda di nullità di una fideiussione omnibus stipulata in data posteriore al 2005, l’azione va qualificata come stand alone. Tale inquadramento comporta l’onere per parte attrice di allegazione e di dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, tra i quali rientra quello della perdurante esistenza, all’epoca della sottoscrizione dei contratti in discussione, dell’intesa illecita, pur essendo tale onere probatorio attenuato nel giudizio antitrust in considerazione della frequente asimmetria informativa esistente tra il soggetto che subisce l’illecito e l’autore dello stesso.
In ipotesi di nullità dei contratti a valle delle fideiussioni omnibus, non potendosi maturare preclusioni o giudicati impliciti in materia di nullità rilevabili d’ufficio, il potere di rilievo officioso della nullità del contratto per violazione delle norme sulla concorrenza spetta al giudice investito del gravame relativo a una controversia sul riconoscimento di una pretesa che suppone la validità ed efficacia del rapporto contrattuale oggetto di allegazione, sempre che sia stata decisa dal giudice di primo grado senza che questi abbia prospettato ed esaminato, né le parti abbiano discusso, di tale validità ed efficacia, trattandosi di questione afferente ai fatti costitutivi della domanda ed integrante, perciò, un’eccezione in senso lato, rilevabile d’ufficio anche in appello, ex art. 345 c.p.c.
Fideiussioni omnibus: clausole anticoncorrenziali e prova dell’intesa illecita nel giudizio stand alone
In un giudizio c.d. stand alone, l’attore è chiamato a dar prova di tutti i fatti costitutivi della domanda e non può, invece, giovarsi – come nelle cc.dd. “follow on actions” – dell’accertamento dell’intesa illecita, contenuto in un provvedimento dell’autorità amministrativa competente a vigilare sulla conservazione dell’assetto concorrenziale del mercato, in quanto un simile accertamento o manca del tutto o c’è, ma riguarda un periodo diverso da quello in cui si colloca la specifica vicenda negoziale, che avrebbe leso la sfera giuridica dell’attore, onerando di conseguenza quest’ultimo dell’allegazione e della dimostrazione di tutti gli elementi della fattispecie, tra i quali l’esistenza della stessa intesa illecita.
Contratto autonomo di garanzia e inapplicabilità dell’art. 1957 c.c.
In materia di contratto autonomo di garanzia, la previsione, nel testo contrattuale, della clausola “a prima richiesta e senza eccezioni” fa presumere l’assenza dell’accessorietà, la quale, tuttavia, può derivarsi, in difetto, anche dal tenore dell’accordo, ed in particolare dalla presenza di una clausola che fissa al garante il ristretto termine di trenta giorni per provvedere al pagamento dietro richiesta del creditore, insufficiente per l’effettiva opposizione delle eccezioni, e dalla esclusione, al contempo, della possibilità per il debitore principale di eccepire alcunché al garante in merito al pagamento stesso.
Al contratto autonomo di garanzia, in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, non si applica la norma dell’art. 1957 c.c. sull’onere del creditore garantito di far valere tempestivamente le sue ragioni di credito nei confronti del debitore principale, poiché tale disposizione, collegata al carattere accessorio dell’obbligazione fideiussoria, instaura un collegamento necessario e ineludibile tra la scadenza dell’obbligazione di garanzia e quella dell’obbligazione principale e, come tale, rientra tra quelle su cui si fonda l’accessorietà del vincolo fideiussorio, per ciò solo inapplicabile ad una obbligazione di garanzia autonoma.
Onere probatorio e prova privilegiata nell’azione di nullità di fideiussione omnibus
Con riferimento alla situazione antecedente all’entrata in vigore dell’art. 7 d.lgs. n. 3 del 2017, nei giudizi promossi ai sensi dell’art. 33 della legge n. 287 del 1990 le conclusioni assunte dall’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, nonché le decisioni del giudice amministrativo che eventualmente abbiano confermato o riformato quelle decisioni, costituiscono una prova privilegiata, in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso, anche se ciò non esclude la possibilità che le parti offrano prove a sostegno di tale accertamento o ad esso contrarie. Si tratta infatti di documentazione che, raccogliendo gli esiti di un’esaustiva istruttoria avente carattere definitivo, assume valore intrinseco di fonte probatoria privilegiata dell’illecito antitrust.
Al fine di valutare la validità ed efficacia delle clausole impugnate contenute in un contratto di fideiussione, il punto dirimente non attiene tanto alla diffusione di un modulo ABI da cui non fossero state espunte le nominate clausole, quanto alla coincidenza delle condizioni contrattuali col testo di uno schema contrattuale che potesse ritenersi espressivo della vietata intesa restrittiva. L’illiceità derivata dalle intese anticoncorrenziali a monte deve essere affermata se il contenuto delle stesse sia effettivamente trasposto nelle singole clausole dei contratti a valle, dovendosi pur sempre evitare il sillogismo secondo cui l’accertamento dell’intesa illecita comporterebbe in via automatica la nullità dei negozi conclusi tra le imprese aderenti al cartello e i singoli soggetti ad esso estranei.
Con il provvedimento n. 55 del 2005 la Banca d’Italia ha appurato che gli artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con l’art. 2, co. 2, lett. a), l. 287/90, evidenziando in particolare come le verifiche compiute nel corso dell’istruttoria avessero mostrato, con riferimento alle clausole esaminate, la sostanziale uniformità dei contratti utilizzati dalle banche rispetto allo schema standard dell’ABI e come tale uniformità discendesse da una consolidata prassi bancaria preesistente rispetto allo schema dell’ABI (non ancora diffuso presso le associate), che potrebbe però essere perpetuata dall’effettiva introduzione di quest’ultimo.
In caso di controversia con caratteristiche stand alone – e cioè non direttamente fondata su fatti accertati in sede amministrativa di accertamento della violazione antitrust – l’onere probatorio volto a dare fondamento alla contestazione di intesa in relazione al disposto dell’art. 2 l. 287/90 ricade sulla parte che ha formulato la contestazione.
Il rapporto tra la valutazione delle partecipazioni ai fini della determinazione del valore di liquidazione nel recesso e del rapporto di cambio nella fusione
L’esperto nominato ai sensi degli artt. 2437 ter e 2473 c.c. deve determinare il valore delle partecipazioni, ai fini del recesso, secondo equo apprezzamento. Tale determinazione è sottoposta al regime dell’art. 1349, co. 1, c.c. e può quindi essere impugnata soltanto per manifesta iniquità o erroneità. L’erroneità della perizia consiste in un ragionamento caratterizzato da contraddittorietà tra premesse e conclusioni, fondato su dati di fatto manifestamente errati o inficiato da errori di calcolo evidenti. La manifesta iniquità, invece, consiste in un’obiettiva sproporzione tra prestazioni, tale da ingenerare una lesione ultra dimidium, secondo il canone ricavabile dall’art. 1448 c.c. Per essere manifeste, iniquità ed erroneità devono essere desumibili direttamente dall’esame della determinazione del terzo e non da elementi estrinseci e devono tradursi in una rilevante sperequazione tra le prestazioni contrattuali contrapposte, come determinate attraverso l’attività dell’arbitratore o, in termini equivalenti, in un risultato concretamente ben distante, a livello sia quantitativo che qualitativo, da quello reputato corretto. Benché la stima dell’esperto debba farsi avuto riguardo ai criteri previsti dalla disciplina di settore, anziché in base alla semplice equità mercantile e a nozioni di comune esperienza, la discrezionalità resta comunque elevata, poiché esistono diverse metodologie di valutazione delle imprese, le quali di norma restituiscono valori anche apprezzabilmente differenti. Ne consegue che la motivata scelta, da parte dell’esperto, di un metodo di valutazione a preferenza di un altro integra un semplice dissenso tecnico, che non può ritenersi indice di manifesta iniquità o erroneità della determinazione e non è quindi sufficiente ad attivare il potere del giudice di determinare il valore della partecipazione in sostituzione dell’esperto.
Nella fusione la fissazione del concambio richiede una valutazione patrimoniale e reddituale delle entità che partecipano all’operazione, secondo uno o più metodi di valutazione adeguati ad esprimere il peso economico relativo delle medesime. Dal momento che nessun metodo può avere il privilegio della piena attendibilità, la legge non richiede l’assoluta esattezza matematica del concambio, così come non pretende di fissare criteri inderogabili cui attenersi nella stima, ma soltanto l’adeguatezza dei criteri adoperati, limitandosi a prescrivere la congruità del concambio, cioè che sia fissato all’interno di una ragionevole banda di oscillazione. Pertanto, la nozione di congruità finisce per ammettere una pluralità di concambi, i quali, entro il menzionato accettabile arco di oscillazione, sono tutti soddisfacenti dal punto di vista del legislatore. Se più concambi sono egualmente legittimi, perché compresi in un ragionevole intervallo di valori, la scelta del concambio effettivo cessa di essere questione esclusivamente tecnico-valutativa e diventa materia di possibile negoziato tra gli amministratori delle società, sul quale incidono le prospettive strategiche dell’integrazione tra le imprese e altre considerazioni di mercato nonché la forza contrattuale delle società e la presenza di vincoli giuridici o di fatto, che riducano l’autonomia negoziale di una di esse e siano in grado di spostare gli equilibri economico-patrimoniali rispetto a una media teorica dei valori.
Il valore determinato ai fini del concambio di fusione può in generale ritenersi un indice affidabile del valore delle azioni anche ai fini della liquidazione in caso di recesso. In primo luogo, perché tale dato presenta un’elevata attendibilità. Inoltre, perché l’art. 2437 ter c.c. richiede di considerare, oltre alla consistenza patrimoniale e alle prospettive reddituali della società, anche l’eventuale valore di mercato delle azioni. La fusione non è un contratto di scambio né l’assegnazione di partecipazioni in concambio può in alcun modo essere definita un prezzo del consenso alla fusione, ma non si può dubitare che anche il concambio possa essere oggetto di negoziato e riflettere il valore di mercato delle azioni. Di contro, il valore considerato ai fini del concambio potrebbe risultare non attendibile o comunque inutilizzabile ai fini della determinazione del valore della partecipazione in caso di recesso se incompatibile con i criteri normativi o statutari previsti per la liquidazione del socio e, più ancora, se il valore del capitale economico delle società partecipanti alla fusione venga elaborato in prospettiva sinergica, considerando i benefici attesi dalla fusione e dal processo di integrazione tra le imprese o, in altri termini, valutando la società risultante dalla fusione e non quelle che vi partecipano: valutazione, quest’ultima, evidentemente incompatibile con l’art. 2437 ter c.c., il quale richiede di considerare valore e prospettive reddituali esclusivamente della società ante-fusione, coerentemente con la scelta di disinvestimento compiuta dal socio e il rifiuto di prendere parte all’entità risultante dalla fusione.
[Nel caso di specie, il valore delle azioni ai fini del concambio era stato determinato in ottica stand alone, cioè sulla base del valore della società in assoluto e quindi è stata esclusa l’esistenza di una diversità metodologica o di contenuto che ostacolasse l’utilizzo di tale valore anche ai fini della determinazione del valore di liquidazione spettante ai soci receduti].