L’applicazione della clausola statutaria simul stabunt simul cadent (la cui validità è espressamente riconosciuta dal quarto comma dell’art. 2386 c.c.) non equivale ad una revoca dall’incarico e pertanto, se applicata senza fini abusivi, non fa sorgere alcun diritto a favore dell’amministratore decaduto: costui infatti, accettando l’iniziale conferimento dell’incarico, aderisce implicitamente alle clausole dello statuto sociale che regolano le condizioni di nomina e permanenza degli organi sociali. Detta adesione implica dunque l’accettazione dell’eventualità di una cessazione anticipata dall’ufficio di amministratore nel caso di applicazione della clausola in oggetto e in ogni caso senza risarcimento del danno (cfr. anche Trib. Milano n. 388/2015 e n. 4955/2016).
La giurisprudenza ha evidenziato come l’applicazione di tale meccanismo incontri il limite del canone di buona fede, con la conseguenza della configurabilità del carattere abusivo e strumentale della vicenda decadenziale ogni qualvolta le dimissioni dell’amministratore/i capace/i di provocare la decadenza di tutto l’organo di gestione siano dettate dallo scopo di eliminare amministratori sgraditi, in assenza di giusta causa e quindi eludendo l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui (ed in generale del risarcimento del danno) che spetterebbero loro se fossero cessati dalla carica per revoca ex art. 2383 comma 3 c.c. nelle S.p.A. ed ex artt. 1723 comma 2 e 1725 c.c. nelle S.r.l. (così sul punto Trib. Milano n. 49555/2016).
Infine, l’operatività fisiologica della causa di decadenza non implica una valutazione dei motivi delle singole dimissioni presentate da ciascun componente del C.d.A., le quali costituiscono atto ampiamente connotato da discrezionalità.