Partendo dalla distinzione – corrispondente all’interpretazione costantemente fornita in dottrina dell’art. 2357, 2° co., c.c., anche nell’identico testo anteriore alla riforma del 2003 – tra il potere autorizzativo dell’assemblea dei soci e il potere decisionale in ordine all’opportunità ed alla convenienza dell’acquisto, che compete solo e soltanto agli amministratori, si osserva come l’acquisto di azioni proprie passi, anzitutto, per la delibera del C.d.A. che esprima la volontà di acquistare in proprio le azioni e dia avvio alla sequenza procedimentale che dovrà poi portare, passando per la previa autorizzazione dell’assemblea, al perfezionamento dell’acquisto delle partecipazioni del socio intenzionato a vendere. La successiva delibera dell’organo assembleare non rappresenta, dunque, una ratifica della decisione di acquistare assunta dall’organo amministrativo in carenza di potere, bensì un necessario passaggio nell’iter dell’acquisto di azioni in proprio: essa, cioè, si colloca nel pieno rispetto della distinzione tra competenze degli amministratori e competenze assembleari.
L’acquisto di azioni proprie senza la previa autorizzazione dell’assemblea dei soci non è invalida, a motivo del fatto che secondo l’art. 2357, 4° co., c.c., in presenza di un acquisto avvenuto in violazione dei commi 1-3 della norma (e dunque anche senza autorizzazione), le azioni debbono essere rivendute entro un anno dal loro acquisto e, in mancanza, annullate con una corrispondente riduzione del capitale. Ciò farebbe pensare a una validità dell’operazione, escludendo la nullità per violazione di norma imperativa.