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Fabrizio Marchetti

Fabrizio Marchetti

Avvocato

Avvocato in Udine e Pordenone. Ha conseguito a pieni voti la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Udine. Ha svolto attività di consulente legale esterno in favore di una società per azioni friulana appartenente ad una holding internazionale. All’attività professionale rivolta principalmente alle imprese nei settori del diritto civile e commerciale, ha affiancato un percorso di specializzazione conseguendo con il massimo dei voti il Master in Diritto Penale dell’Impresa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e il Master in Giurista Internazionale d'Impresa presso l'Università degli Studi di Padova. Ha inoltre conseguito con il massimo dei voti i corsi di perfezionamento in Gestione della Crisi d'Impresa presso l'Università degli Studi di Firenze e in Responsabilità da reato degli enti e compliance aziendale presso l'Università degli Studi di Milano. Collabora con Giurisprudenza delle Imprese dal 2021.

Diritto di recesso nella s.r.l.: termine di decadenza e determinazione del valore della quota

La disciplina del diritto di recesso del socio di s.r.l. è dettata dall'art. 2473, co. 2, c.c., che non prevede termini di decadenza, essendo inopportuno, siccome contrario alla lettera del comma 1 della citata norma, nonché alla ratio legis e alla buona fede, assoggettare il socio dissenziente, in forza di estensione analogica, ai ridotti termini di esercizio del recesso fissati per le s.p.a. dall'art. 2437 bis c.c., stante la diversità di presupposti del recesso nei due tipi societari. Pertanto, il diritto di recesso del socio va esercitato nel termine previsto nello statuto della s.r.l. e, in mancanza di detto termine, secondo buona fede e correttezza, quali fonti di integrazione della regolamentazione contrattuale, dovendo il giudice del merito valutare di volta in volta le modalità concrete di esercizio del diritto di recesso e, in particolare, la congruità del termine entro il quale tale esercizio è avvenuto, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti. La dichiarazione di recesso non può essere sospensivamente condizionata dal socio al rimborso della propria partecipazione. Infatti, considerato che il diritto alla liquidazione e al pagamento della quota di partecipazione alla società costituisce una conseguenza ex lege del recesso, giammai l’esercizio di una siffatta ragione creditoria potrà essere riguardato alla stregua di condotta impositiva di una condizione allo scioglimento parziale del rapporto sociale. Inoltre, la prospettazione e la proposizione di un determinato controvalore monetario per la quota in prima battuta da parte del socio recedente non può essere ritenuta condotta anomala e contra legem, poiché, diversamente opinando, si giungerebbe a fornire un’inammissibile interpretatio abrogans al disposto del comma 3 dell’art. 2473 c.c., nella parte in cui legittima indistintamente “la parte più diligente”, sia essa il socio o la compagine, all’esperimento del procedimento di arbitraggio per la stima della quota, dacché una siffatta dicitura implicitamente presuppone la possibilità della provenienza della proposta iniziale di valutazione da parte del medesimo socio e del successivo esperimento dell’arbitraggio dalla società in disaccordo con tale liquidazione unilaterale. La dichiarazione di recesso valida ed efficace determina, ipso iure, l’insorgenza in capo all’attrice del diritto di credito all’ottenimento del rimborso della partecipazione, da eseguirsi entro centottanta giorni dalla comunicazione del recesso, nella modalità di cui all’art. 2473, co. 4, c.c., e la liquidazione del cui ammontare deve essere effettuata, ai sensi del comma 3 della medesima disposizione, tenendo conto (ossia non con applicazione e riproduzione pedissequa) al valore di mercato del patrimonio sociale al momento della dichiarazione di recesso. Ai fini della determinazione del valore della partecipazione del socio recedente ex art. 2743 c.c., per “valore di mercato” deve intendersi il valore che intrinsecamente il patrimonio sociale avrebbe qualora fosse oggetto di scambio e che deve, dunque, riflettere il valore corrente dei cespiti aziendali, oltreché l’eventuale valore di avviamento: al fine della relativa individuazione, soccorre l’applicazione del criterio liquidatorio denominato, nella letteratura aziendalistica, “metodo di valutazione patrimoniale” e che, nella sua applicazione più semplice, consente di pervenire all’individuazione del capitale economico aziendale mediante la valutazione di ogni singola componente attiva e passiva dello stato patrimoniale e la successiva rivalutazione dei valori, in aumento o in diminuzione, sulla base di diversi criteri predeterminati, variabili in funzione della natura delle singole poste. Con riferimento alla determinazione del valore della partecipazione societaria oggetto di rimborso, la voluntas legis muove nel senso di una rimessione della liquidazione della quota a un accordo di natura negoziale tra socio recedente e società, ferma l’esperibilità, in caso di mancato raggiungimento di un accordo tra le parti sul quantum, dell’iter non contenzioso del ricorso all’arbitratore nominato all’esito di un procedimento di volontaria giurisdizione, ossia non già di una diretta determinazione giudiziale della quota, bensì di un’integrazione ab externo del contenuto del negozio ad opera di un terzo esperto e imparziale. Laddove, invece, il ricorso alla giurisdizione contenziosa sarà ammissibile nei limiti della successiva ed eventuale impugnazione della perizia giurata dell’esperto, ma per fare valere i soli vizi di manifesta erroneità o iniquità ai sensi dell’art. 1349, co. 1, c.c. Nel caso in cui, in un momento in cui la volontà di recesso di uno dei soci non era ancora sorta o comunque manifestata, sia intervenuto un accordo in ordine al valore delle partecipazioni detenute dai soci ai fini ai fini della trasformazione della società in vista della relativa cessione, va escluso che tale accordo possa comportare adesione alla stessa stima anche al diverso fine di determinazione del valore della partecipazione societaria oggetto di rimborso in favore del socio recedente ai sensi dell'art. 2473 c.c. Infatti, mentre la stima del patrimonio della società personale trasformata in società di capitali - destinato a costituire una sorta di unico conferimento in natura al capitale della compagine risultante dalla trasformazione - mira invece a garantire un’effettività ufficiale alla stima a suo tempo effettuata unilateralmente dai soci, in un’ottica di massima trasparenza e chiarezza in ordine alla dotazione di capitale a disposizione per l’esercizio dell’attività della “nuova” società di capitali, e sarà, quindi, improntata non già a un’ottica liquidatoria, bensì a una diversa ottica di continuità aziendale, la stima della quota ai fini della liquidazione del recedente segue per legge criteri diversi (criteri rispettivamente improntati, ex art. 2473 c.c., alla considerazione del valore di mercato del patrimonio sociale al tempo del recesso, ed ex art. 2500-ter comma 2 c.c., sulla base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo) e mira alla realizzazione di differenti rationes legis, perseguendo l’intento di garantire l’effettività del diritto del socio dissenziente a non rimanere vincolato a una decisione della maggioranza non condivisa (c.d. diritto di exit), assicurandogli la corrispondenza del corrispettivo del disinvestimento della partecipazione al valore effettivo della propria quota. Con riferimento alla determinazione del valore della partecipazione societaria oggetto di rimborso in favore del socio recedente, la voluntas legis espressa dall'art. 2473, comma 3 c.c. muove nel senso di una rimessione della liquidazione della quota a un accordo di natura negoziale tra socio recedente e società, ferma l’esperibilità, in caso di mancato raggiungimento di un accordo tra le parti sul quantum, dell’iter non contenzioso del ricorso all’arbitratore nominato all’esito di un procedimento di volontaria giurisdizione, ossia non già di una diretta determinazione giudiziale della quota, bensì di un’integrazione ab externo del contenuto del negozio ad opera di un terzo esperto e imparziale; laddove, invece, il ricorso alla giurisdizione contenziosa sarà ammissibile nei limiti della successiva ed eventuale impugnazione della perizia giurata dell’esperto, ma per fare valere i soli vizi di manifesta erroneità o iniquità ai sensi dell’art. 1349, co. 1, c.c. [ Continua ]
19 Giugno 2023

Responsabilità degli amministratori per atti distrattivi e mancato accertamento della perdita di capitale

In relazione agli atti distrattivi dell’organo gestorio, la natura contrattuale della responsabilità dell’amministratore consente alla società (o al curatore, in caso di sopravvenuto fallimento di quest’ultima) che agisce per il risarcimento del danno di allegare l’inadempimento dell’organo gestorio, restando a carico dell’amministratore convenuto di dimostrare l’utilizzazione delle somme nell’esercizio dell’attività d’impresa. In relazione alla domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla violazione degli obblighi gestori in materia di perdita di capitale, adempimenti sociali, contabili, fiscali e contributivi, le irregolarità, ancorché provate o pacifiche, non sono di per sé sufficienti per affermare la responsabilità del convenuto laddove non sia fornita la prova sia del danno cagionato al patrimonio sociale da siffatte condotte, sia del nesso causale tra l’inadempimento e l’evento dannoso. [ Continua ]
19 Giugno 2023

Abuso della clausola simul stabunt simul cadent e diritto al risarcimento del danno da parte dell’amministratore non dimissionario

La clausola simul stabund simul cadent – riconosciuta dall’art. 2386, co. 4, c.c. – è finalizzata a mantenere costanti, a livello di organo gestorio, gli equilibri interni originariamente voluti e cristallizzati secondo una determinata configurazione nella delibera assembleare di nomina e funge da stimolo alla coesione dell’organo gestorio poiché ciascun amministratore è consapevole che le dimissioni di uno degli altri amministratori determinano la decadenza dell’intero consiglio e, nel contempo, egli stesso può contribuire a quella decadenza quando in disaccordo con gli altri componenti del consiglio di amministrazione. L’operatività fisiologica della clausola di decadenza non implica l’obbligo di motivare la rinuncia all’incarico. Il  carattere abusivo o strumentale della vicenda decadenziale si configura ogni qual volta le dimissioni di quell’amministratore o di quegli amministratori capaci di provocare la decadenza di tutto l’organo di gestione siano dettate unicamente o prevalentemente dallo scopo di eliminare amministratori sgraditi, in assenza di giusta causa, quindi eludendo l’obbligo di corresponsione degli emolumenti residui (e in generale di risarcimento del danno) che spetterebbero loro se fossero cessati dalla carica, non per effetto della clausola in discussione, ma per revoca ex art. 2383, co. 3, c.c. nelle s.p.a. ed ex artt. 1723, co. 2, e 1725 c.c. nelle s.r.l. In caso di abuso di esercizio della clausola simul stabunt simul cadent, agli amministratori non dimissionari decaduti  deve quindi essere riconosciuto comunque il diritto al risarcimento del danno quando sia dimostrato che le dimissioni che hanno determinato l’effetto decadenziale sono state date abusivamente (cioè per scopi diversi da quelli per i quali è riconosciuto il diritto a rinunciare alla carica) o strumentalmente (cioè per eludere l’obbligo risarcitorio connesso alla revoca senza giusta causa). Pertanto, se le facoltà di cui alla clausola in discussione sono esercitate correttamente, allora tale esercizio non fa sorgere alcun diritto a favore dell’amministratore decaduto, il quale accettando l’iniziale conferimento dell’incarico aderisce implicitamente alle clausole dello statuto sociale che regolano le condizioni di nomina e permanenza degli organi sociali ed i relativi poteri. L’onere della prova in ordine alla abusività della condotta altrui ricade sull’amministratore decaduto, al quale non basterà dimostrare l’assenza di propri comportamenti negligenti o comunque l’assenza di situazioni integranti giusta causa di revoca, dovendo invece fornire la prova della esclusiva finalizzazione della clausola alla sua estromissione dal collegio degli amministratori per il conseguimento di interessi extrasociali o di un gruppo della compagine sociale e quindi l’ottenimento in via indiretta del risultato di revocarlo in assenza di giusta causa. La revoca anticipata senza giusta causa dell’amministratore dalla carica, mentre comporta il ristoro per la perdita dei residui compensi (ma anche ciò va delimitato, dovendosi pur sempre applicare le regole di cui agli artt. 1223-1227 c.c.), non necessariamente produce tuttavia altro tipo di danno, neppure alla reputazione. Nel caso di revoca dell’incarico di amministratore, il danno consiste nel lucro cessante, cioè nel compenso non percepito per il periodo in cui l’amministratore avrebbe conservato il suo ufficio, se non fosse intervenuta la revoca, in riferimento a questa voce di danno non sussistendo inoltre ragione di ricorrere alla liquidazione equitativa. L’amministratore potrebbe, bensì, ottenere la liquidazione di danni ulteriori e diversi rispetto a quelli consistenti nel lucro cessante, ma di tali danni deve offrire puntuale allegazione e prova. Nel caso di revoca senza giusta causa il giudice deve effettuare una valutazione prognostica idonea a considerare il tempo necessario per l’amministratore revocato di trovare una occupazione nello stesso o in altro settore operativo, escludendo ogni automatismo e negando la applicabilità della disciplina prevista nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato. [ Continua ]
16 Ottobre 2023

Azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore

La responsabilità dell’amministratore va ricostruita secondo lo schema tipico della responsabilità da inadempimento contrattuale. Tra gli obblighi esistenti in capo all’amministratore vi sono sicuramente quelli di tutelare il patrimonio sociale. Affinché vi possa essere risarcimento per comportamento illegittimo dell’amministratore, occorre che sia provata non solo l’illiceità del comportamento, ma anche la conseguenza dannosa che da questa discende, in modo causalmente connesso e, quindi, che una volta individuati i comportamenti violativi degli obblighi di legge e di statuto, che siano addebitabili agli organi gestori, sia dedotto e provato che gli stessi abbiano arrecato un danno al patrimonio sociale (e quello conseguente alle aspettative dei creditori) e che tra condotta illecita e pregiudizi patrimoniali sussista un nesso causale. [ Continua ]
19 Giugno 2023

Il vizio della deliberazione consiliare di convocazione dell’assemblea non si riflette, come causa d’invalidità, sulla deliberazione dell’assemblea dei soci

La clausola compromissoria contenuta nello statuto societario, la quale, non adeguandosi alla prescrizione dell’art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, non preveda che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società, è nulla anche ove si tratti di arbitrato irrituale. Ai sensi dell’art. 1335 c.c., la dichiarazione unilaterale comunicata mediante lettera raccomandata si presume ricevuta (e quindi conosciuta nel suo contenuto), pur in mancanza dell’avviso di ricevimento, sulla base dell’attestazione della spedizione da parte dell’ufficio postale, sicché incombe sul destinatario l’onere di provare l’asserita non corrispondenza della dichiarazione ricevuta – perché la raccomandata non conteneva alcun atto o conteneva un atto diverso – rispetto a quella indicata dal mittente, non potendo il destinatario limitarsi ad una generica contestazione dell’invio della raccomandata medesima. Salvo che l’atto costitutivo della società a responsabilità limitata non contenga una disciplina diversa, deve presumersi che l’assemblea dei soci sia validamente costituita ogni qual volta i relativi avvisi di convocazione siano stati spediti agli aventi diritto almeno otto giorni prima dell’adunanza (o nel diverso termine eventualmente in proposito indicato dall’atto costitutivo); tale presunzione può essere vinta nel caso in cui il destinatario dimostri che, per causa a lui non imputabile, egli non abbia affatto ricevuto l’avviso di convocazione o lo abbia ricevuto così tardi da non poter prendere parte all’adunanza, in base a circostanze di fatto il cui accertamento e la cui valutazione in concreto sono riservati alla cognizione del giudice di merito. Qualora sia stato violato il procedimento relativo alla decisione del consiglio di amministrazione di convocare l’assemblea dei soci, l’eventuale invalidità di tale procedimento non si estende in automatico alle deliberazioni dell’assemblea dei soci, trattandosi di procedimenti separati e autonomi. Invero, la deliberazione dell’assemblea di una società di capitali, convocata su deliberazione del consiglio di amministrazione assunta all’esito di una riunione cui un suo componente non sia stato convocato non è inesistente, nulla o annullabile, trattandosi di mera irregolarità, perché il vizio della deliberazione consiliare di convocazione dell’assemblea non può riflettersi, come causa d’inesistenza o d’invalidità, sulle deliberazioni dell’assemblea dei soci, quando essa sia stata convocata dagli amministratori con atto per certo riferibile alla volontà dell’organo amministrativo collegiale, così che esista una convocazione dell’assemblea nel suo essenziale schema giuridico (atto ricettizio, con il quale il socio viene avvisato della data e del luogo della riunione), dovendo escludersi che sulle formalità della convocazione si riflettano, per proprietà transitiva, le eventuali irregolarità interne al distinto procedimento di deliberazione del consiglio di amministrazione. Se la decisione di convocazione dell’assemblea dei soci sia stata presa nell’ambito di un vizio deliberativo del consiglio di amministrazione, tale vizio non comporta alcuna conseguenza rispetto alla legittimità dell’assemblea dei soci, purché siano state rispettate le modalità formali di convocazione dell’assemblea dei soci previste nello statuto oppure, nel caso di s.r.l., in base all’art. 2479 bis c.c. [ Continua ]
2 Dicembre 2023

Illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa e quantificazione del danno in caso di fallimento

In caso di violazione dei doveri imposti all'amministratore ex artt. 2842 ter, 2484, 2485 e 2486 c.c. e successivo fallimento della società, il danno deve essere ravvisato nell’aumento del passivo determinato dalla prosecuzione dell'attività d'impresa, detratti i costi di liquidazione e aggiunti la rivalutazione monetaria e gli interessi legali dalla data della sentenza di fallimento. Tuttavia, ai fini del riconoscimento del danno provocato dal ritardato pagamento, in misura pari agli interessi legali sull'importo del risarcimento del danno e della relativa rivalutazione monetaria, è onere del creditore provare, anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) sia inferiore a quella di cui avrebbe disposto alla data della sentenza di fallimento se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo, non essendo configurabile alcun automatismo nel riconoscimento degli interessi compensativi. [ Continua ]
1 Dicembre 2023

Società cooperativa e dies a quo del termine di prescrizione ex art. 2536 c.c.

Nelle società cooperative, il termine annuale di prescrizione (o decadenza) del diritto della società al versamento dei conferimenti non versati da parte del socio recedente, previsto all'art. 2536 c.c., decorre dalla data di comunicazione del provvedimento di accoglimento della domanda di recesso ex 2532, comma 3, c.c. Non può invece recepirsi la diversa interpretazione che ravvisa il dies a quo del termine prescrizionale (o decadenziale) di cui all'art. 2536 c.c. nel momento di liquidazione della quota del socio receduto, sia perché il dato letterale della norma fa riferimento alla verificazione del recesso, dell'esclusione o della cessazione, portando a ritenere che si debba fare riferimento al momento di efficacia di tali eventi; sia perché la richiesta del conferimento e la liquidazione della quota sociale a seguito di risoluzione del rapporto sono eventi diversi e non riconducibili ad un unica fattispecie, sicché non può essere accolta l’interpretazione che àncori il dies a quo della prescrizione (o decadenza) riferita ai conferimenti al momento della liquidazione della quota sociale. L’atto di costituzione in mora è un atto giuridico unilaterale recettizio per il quale è richiesta la forma scritta ed è idoneo a produrre l’effetto interruttivo della prescrizione previsto dall’art. 2943, comma 4, c.c., a condizione che esso giunga nella sfera di conoscenza del debitore, in quanto la dichiarazione recettizia, ai sensi dell’art. 1335 c.c., si presume conosciuta nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario, da intendersi come luogo che, per collegamento ordinario (dimora o domicilio) o per normale frequentazione per l’esplicazione della propria attività lavorativa, o per preventiva indicazione o pattuizione, risulti in concreto nella sfera di dominio e controllo del destinatario stesso, apparendo idoneo a consentirgli la ricezione dell’atto e la possibilità di conoscenza del relativo contenuto. [ Continua ]
30 Novembre 2023

Qualificazione delle representation and warranties e termine di prescrizione

Nella compravendita di partecipazioni sociali, la clausola con la quale il venditore si impegna a tenere indenne il compratore dalle sopravvenienze passive nel patrimonio della società ha ad oggetto una prestazione accessoria e non rientra, quindi, nella garanzia di cui all’art. 1497 cod. civ., che attiene, invece, alle qualità intrinseche della cosa, esistenti al momento della conclusione del contratto. Pertanto, il diritto del compratore all’indennizzo, fondato su detta clausola, non è soggetto alla prescrizione annuale ex artt. 1495 e 1497 cod. civ., bensì alla prescrizione ordinaria decennale. [ Continua ]
31 Marzo 2023

Natura dell’autorizzazione al recesso del socio di società cooperativa

Le previsioni in ordine al recesso del socio dalla cooperativa dettate all’interno dello statuto costituiscono manifestazione della volontà negoziale ed è, quindi, rimesso alla libertà delle parti di definirne le modalità e il contenuto ovvero limitarlo o subordinarlo alla sussistenza di determinati presupposti o condizioni, quali ad esempio l’approvazione da parte del consiglio di amministrazione o dell’assemblea dei soci. Tali clausole attribuiscono un potere discrezionale ai suddetti organi, che non possono essere esercitati in modo arbitrario, né tradursi in un rifiuto a provvedere o in un diniego assoluto ed immotivato dell’approvazione, altrimenti tali decisioni sarebbero contrarie al principio di correttezza e si verificherebbe una sostanziale vanificazione del diritto di recesso, che non può essere reso eccessivamente gravoso. La clausola che preveda la necessaria autorizzazione del consiglio di amministrazione non vale a rendere quest’ultima una accettazione contrattuale, dovendo la stessa qualificarsi, piuttosto, come una condizione di efficacia della dichiarazione unilaterale recettizia del socio; pertanto, in caso di inerzia dell’organo societario, risulta applicabile l’art. 1359 c.c., in virtù del quale la condizione si considera avverata, qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento. La necessità dell’autorizzazione non comporta, infatti, la trasformazione della fattispecie in un accordo, né all’ambito del quale la determinazione della società venga ad assumere la funzione di accettazione della proposta del socio, configurandosi pur sempre il recesso come un negozio unilaterale, corrispondente al diritto potestativo di uscire dalla società e di rinunciare a conservare lo stato derivante dal rapporto giuridico nel quale il socio è inserito e rispetto al quale la deliberazione del consiglio di amministrazione o dell’assemblea opera come condizione di efficacia. Nelle cooperative edilizie aventi come scopo la costruzione di alloggi e l’assegnazione degli stessi in godimento e, successivamente, in proprietà individuale ai soci, i rapporti tra questi ultimi e la società sono di due specie: da un lato, quelli attinenti all’attività sociale, comportanti l’obbligo dei conferimenti e della contribuzione alle spese comuni di organizzazione e di amministrazione; dall’altro, i rapporti relativi alla peculiarità dello scopo perseguito, comportanti anticipazioni ed esborsi di carattere straordinario ai fini dell’acquisto del terreno, della realizzazione degli alloggi e così via. Mentre le contribuzioni del primo tipo rientrano fra i debiti di conferimento, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2530 c.c., e si ricollegano ad un obbligo che permane fino a quando persiste la qualità di socio (e, cioè, fino allo scioglimento della cooperativa, salvo il caso di recesso o esclusione del socio), non vi rientrano invece quelle del secondo tipo, perché non strettamente inerenti al rapporto sociale e destinate a gravare, in caso di uscita dalla cooperativa del socio che le ha fatte, sul socio che gli subentra e che acquista, in questo modo, l’aspettativa all’assegnazione dell’alloggio, con la conseguenza che le anticipazioni e gli esborsi effettuati dal socio non a titolo di conferimento e in relazione all’obbligo inerente alla partecipazione alle spese comuni di organizzazione e di amministrazione, ma per il conseguimento dei singoli beni o servizi prodotti dalla cooperativa, pongono il socio nella posizione di creditore verso quest’ultima, posizione che, una volta avvenuto lo scioglimento del rapporto sociale, si manifesta come diritto alla restituzione delle somme anticipate (sempre che, ovviamente, la proprietà dell’alloggio non sia stata nel frattempo conseguita e lo scopo sociale non sia stato raggiunto), non sottoposto – salva la possibilità di una diversa regolamentazione pattizia – alla disciplina legislativa relativa alla quota sociale. [ Continua ]