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Avvocato in Bergamo e cultore di Diritto Commerciale presso l'Università degli Studi di Bergamo
È opinione consolidata in giurisprudenza, a dispetto della dottrina, quella per cui le impugnative di bilancio non siano suscettibili di essere ricomprese tra le controversie compromettibili in arbitrato, così come ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità per cui “le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio sono inderogabili in quanto la loro violazione determina una reazione dell'ordinamento a prescindere dalla condotta delle parti e rende illecita e, quindi, nulla, la delibera di approvazione. Tali norme, infatti, non solo sono imperative, ma contengono principi dettati a tutela, oltre che dell'interesse dei singoli soci ad essere informati dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere l'effettiva situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente. Ne consegue che, non essendo venuta meno l'indisponibilità dei diritti protetti dalle suddette disposizioni a seguito della riforma di cui al D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 - che agli artt. 2434-bis e 2379 c.c. ha previsto termini di decadenza per l'impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio e, in via generale, per l'impugnazione delle delibere nulle – non è compromettibile in arbitri la controversia relativa alla validità della delibera di impugnazione del bilancio” (così Cass. 12583/2018).
Nel rispetto dei principi contabili, in tema di valutazione di partecipazioni, il metodo del costo storico deve essere preferito qualora la partecipata venga considerata una società con la quale non esiste altro legame se non quello di possedere un titolo per ottenere una remunerazione periodica, mentre quello del patrimonio netto dovrà essere scelto qualora la partecipazione permetta all’investitore di influire sul processo decisionale e quindi sulla politica di gestione della partecipata. In ogni caso, qualunque sia il criterio prescelto, nel rispetto dei principi di prudenza e chiarezza, è obbligatorio procedere alla svalutazione della partecipazione in caso di perdite durevoli di valore, con la differenza che, adottando il criterio del patrimonio netto, è consentito valutare le partecipazioni detenute, se l’andamento aziendale delle partecipate lo consente.
Deve escludersi che dall’invalidità della delibera di approvazione del bilancio ne discenda anche l’invalidità derivata delle delibere di nomina del Consiglio di Amministrazione e di nomina del revisore legale dei conti perché non vi è alcun collegamento diretto tra la prima delibera e queste due successive che mantengono quindi la loro validità ed efficacia.
[ Continua ]In caso di impugnazione di una delibera assembleare avente ad oggetto l’approvazione del bilancio di esercizio, quandanche introdotta per vizi procedurali, la clausola compromissoria presente nello statuto sociale non può trovare applicazione là dove unitamente agli stessi vizi formali vengano introdotti altri motivi di impugnazione, di natura sostanziale, aventi ad oggetto diritti indisponibili, tali da provocare la necessità di una trattazione congiunta ex art 2378 c.c, sul tenore della giurisprudenza di legittimità per la quale “Non è compromettibile in arbitri la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio di società per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione. Invero, nonostante la previsione di termini di decadenza dall'impugnazione, con la conseguente sanatoria della nullità, le norme dirette a garantire tali principi non solo sono imperative, ma, essendo dettate, oltre che a tutela dell'interesse di ciascun socio ad essere informato dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere la situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente, trascendono l'interesse del singolo ed attengono, pertanto, a diritti indisponibili” (Cass. 20674/2016 e Cass 14465/2019).
La competenza del Tribunale prevale in ogni caso su quella arbitrale quandanche l’impugnazione si fondi solo su vizi formali e prescinda dal merito del documento contabile e del rispetto dei principi di cui all’art 2423 e segg c.c., dal momento che l’art 2378 comma 5 c.c., norma speciale anche rispetto all’art 819 ter c.p.c., stabilisce che tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza.
Nel caso in cui una o più parti abbiano impugnato una delibera di approvazione del bilancio, a cui hanno fatto precedere altre impugnazioni relative agli anni precedenti, l’interesse ad agire degli impugnanti non ne risulta caducato, perdurando l’interesse dei soci ad impugnare, per i medesimi vizi, tutte le delibere di approvazione dei bilanci successive a quella per prima impugnata, e ciò pur considerando l’esistenza nel sistema dell’obbligo degli amministratori ex artt. 2434 bis co 3 c.c. e 2377 co 7 c.c. di rivedere, in conformità al decisum definitivo sull’impugnazione del primo bilancio, non solo il bilancio dell’esercizio in corso, ma anche i bilanci intermedi. Infatti, il socio legittimato ad impugnare il bilancio è portatore di un diritto verso la società a ricevere con il documento contabile informazioni veritiere e corrette e questo diritto è tutelato con la facoltà del socio, attribuita a determinate condizioni, di insorgere contro le delibere che ritiene illegittime; si tratta di una tutela endosocietaria reale affatto diversa da quella che il socio stesso può indirettamente conseguire in forza dell’intervento dell’organo amministrativo tenuto ad adeguarsi all’esito della prima impugnazione. Peraltro, va considerato che il giudizio di impugnazione, se si conclude in senso positivo per il socio impugnante, comporta la caducazione endosocietaria della delibera invalida con efficacia verso tutti i soci ex art 2377 co 7 c.c. e la certezza di questo risultato non è offerta al socio dall’obbligazione dell’amministratore di rettificare i bilanci successivi a quello approvato con la delibera annullata.
L’art. 2429, comma 3, applicabile alle S.r.l. in forza del rinvio dell’art. 2478 bis c.c., stabilisce che “il bilancio, con le copie integrali dell'ultimo bilancio delle società controllate e un prospetto riepilogativo dei dati essenziali dell'ultimo bilancio delle società collegate, deve restare depositato in copia nella sede della società, insieme con le relazioni degli amministratori, dei sindaci e del soggetto incaricato della revisione legale dei conti, durante i quindici giorni che precedono l'assemblea, e finché sia approvato. I soci possono prenderne visione”. In proposito, costituisce giurisprudenza consolidata quella per cui “l’obbligo di deposito del fascicolo di bilancio presso la sede sociale, nei quindici giorni precedenti l’assemblea per la sua approvazione ai sensi dell’art. 2429 co. 3 c.c., è un obbligo – distinto da quello di convocazione dell’assemblea – previsto a pena di annullabilità della delibera assembleare di approvazione del bilancio, a prescindere dalla sua riproduzione nello statuto. La società – nei limiti del proprio apprezzabile ‘sacrificio organizzativo’- deve adempiervi mettendo i soci in condizione di esercitare effettivamente e senza pregiudizio il proprio diritto alla informativa bilancistica preassembleare. Tale diritto può essere compresso soltanto ove tutti i soci espressamente vi acconsentano con l’approvazione di una specifica norma statutaria” (così Tribunale di Milano, sentenza 31 marzo 2021). Ne consegue che quello in commento sia evidentemente un adempimento necessario affinché i soci possano assumere una decisione consapevole in sede di assemblea sul progetto di bilancio predisposto dagli amministratori, la cui prova di aver adempiuto a tale prescrizione, nel giudizio di impugnazione, grava sulla società; in mancanza del rispetto della disposizione normativa ovvero in assenza dell’assolvimento del relativo onere della prova, non può che conseguire l’annullamento della delibera eventualmente impugnata.
[ Continua ]In caso di risoluzione del contratto di cessione di partecipazioni sociali, nell’ipotesi di accoglimento della domanda ex art. 1453 c.c., le restituzioni ex art. 1458 c.c. possono essere ordinate solo in presenza di un’espressa domanda di parte non essendo l’effetto restitutorio implicito nella domanda di risoluzione; detta domanda deve essere formulata anche dal lato dell’eventuale convenuto a cui sia addebitato l’inadempimento. Peraltro, nel caso in cui il contratto di cessione preveda il pagamento in forma rateale, lo stesso non può essere qualificato come contratto ad esecuzione periodica, con l’effetto che in caso di risoluzione dovranno essere regolate le relative restituzioni in applicazione e secondo i principi ex art. 2033 e segg. c.c..
Gli effetti risolutivi conseguenti alla sentenza di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1458 c.c. trovano efficacia retroattiva tra le parti ma la pronuncia sulle restituzioni non ha natura reale bensì solo obbligatoria. In senso conforme si è espressa anche la Corte di cassazione, affermando che “nei contratti a prestazioni corrispettive la pronuncia costitutiva di risoluzione per inadempimento, facendo venir meno la causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite, comporta l’insorgenza a carico di ciascun contraente dell’obbligo di restituzione della prestazione ricevuta, indipendentemente dall’imputabilità dell’inadempimento con un effetto liberatorio ex nunc rispetto alle prestazioni da eseguire ed un effetto recuperatorio ex tunc rispetto alle prestazioni eseguite” (Cass. 4442/2014) e che “la risoluzione del rapporto contrattuale tra le parti […] non può, di per sé, valere a far considerare i cedenti a tutti gli effetti come soci della società anche nel periodo di tempo in cui le quote sono di fatto rimaste nella disponibilità del cessionario, con conseguente possibilità di esercizio da parte sua dei diritti sociali.” (Cass 16169/2014). Questo principio ha portata generale nel senso che, una volta risolto il contratto di cessione di partecipazioni sociali, non può essere considerato automaticamente a tutti gli effetti socio il cedente delle partecipazioni anche per il periodo in cui le quote sono rimaste di fatto nella disponibilità ed intestate al cessionario; tale conclusione è giustificata ulteriormente verso la società ed i terzi dagli effetti della pubblicità che del contratto di cessione è stata data sul registro delle imprese. E così per esempio rimarranno valide le delibere assunte prima della risoluzione contrattuale con il voto del cessionario.
La richiesta di dichiarare la sentenza titolo idoneo all’iscrizione presso il registro delle imprese va rigettata, non potendo la sentenza, costitutiva di risoluzione del contratto di cessione delle partecipazioni sociali, costituire un titolo che comporta ex se il trasferimento delle quote da cessionario a cedente. Lo stesso non è nemmeno uno degli atti tipici di cui la legge prevede la pubblicità con iscrizione al registro Imprese, non rientrando nemmeno nell’ambito dell’interpretazione estensiva dell’art 2470 c.c. che ha portato da tempo a consentire l’iscrizione delle domande giudiziali o delle sentenze che attengono al trasferimento delle quote di srl.
In ogni caso, nell’ipotesi di risoluzione del contratto di cessione di partecipazioni sociali, là dove sia reclamato il risarcimento del danno, deve distinguersi e non sovrapporsi la genesi del pregiudizio lamentato, non dovendo sovrapporre la gestione delle quote (da parte del socio) alla gestione dell’azienda sociale (da parte dell’amministratore); se le partecipazioni sociali hanno perso valore in conseguenza della compromissione del patrimonio o della situazione finanziaria della società a seguito delle scelte nella gestione dell’azienda, la responsabilità da invocare sarà quella gestoria connessa all’adempimento delle obbligazioni dell’amministratore della società la quale è distinta dall’esercizio dei diritti sociali inerenti le quote. Ferma questa precisazione, il benchmark di riferimento per la ricostruzione del danno subito non deve essere individuato nel prezzo di cessione delle quote, ma più correttamente nel valore delle quote al momento della stipulazione del contratto, da accertare se del caso mediante apposita consulenza tecnica d’ufficio.
[ Continua ]