L’art. 2497 c.c. si applica nei casi in cui la costituzione della società
in house o comunque la partecipazione in società degli enti pubblici – diversi dallo Stato – sono attuate non solo per scopi lucrativi ma anche per la realizzazione di finalità istituzionali che richiedono lo svolgimento di attività economica o finanziaria da realizzare attraverso la società partecipata. La norma di interpretazione autentica dell’art. 2497 c.c. di cui all’art. 19 del d.l. 78/2009, convertito nella l. 102/2009 ha espressamente escluso solo lo Stato azionista dalla nozione di “ente” contemplata dalla norma richiamata.
La società
in house è istituto di derivazione comunitaria, prima enunciato in sentenze della Corte di Giustizia e poi modellato nelle Direttive UE del 2014, nn. 23, 24 e 25, con il preciso scopo di limitare le ipotesi che consentono di derogare alle regole della concorrenza del mercato mediante il ricorso a forme di affidamenti diretti di compiti relativi alla realizzazione di opere pubbliche o alla gestione di servizi pubblici. L’affidamento diretto non comporta alcuna lesione del principio di concorrenza se ed in quanto, in osservanza al principio di libera amministrazione delle pubbliche autorità, esso non rappresenta una esternalizzazione ma una autoproduzione di servizi tramite un soggetto che, sostanzialmente – atteso che l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello operato sui propri servizi – non è diverso dell’ente pubblico.
Sussiste una società
in house qualora vi siano i seguenti presupposti: (i) il capitale sociale è integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieta la cessione delle partecipazioni ai soggetti privati; (ii) la società esplica statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo tale che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; (iii) la gestione è per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile. Tali requisiti devono sussistere contemporaneamente e risultare da precise disposizioni statutarie in vigore all’epoca cui risale la condotta illecita.
L’espressione “interesse imprenditoriale proprio o altrui” porta a escludere dall’ambito di responsabilità
ex art. 2497 c.c. solo le ipotesi nelle quali sia perseguito un interesse meramente privato (quale l’interesse personale degli amministratori/cariche pubbliche della società/ente controllante) e a ricomprendervi tutte le altre ipotesi in cui è stato perseguito un interesse extrasociale rispetto a quello della società eterodiretta. Con l’art. 19 del d.l. 78/2009, convertito nella l. 102/2009, il legislatore ha chiarito che “l’art. 2497, primo comma del codice civile si interpreta nel senso che per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria”; l’ampiezza dell’espressione “finalità di natura economica o finanziaria” è tale da ricomprendere gli obiettivi che l’ente pubblico territoriale persegue attraverso la costituzione di società
in house o comunque delle società cui partecipa.
La titolarità del pacchetto di maggioranza è elemento sufficiente per integrare la presunzione di cui all’art. 2497
sexies c.c.
La sospensione necessaria del processo civile ai sensi degli artt. 295 c.p.c., 654 c.p.p. e 211 disp. att. c.p.p., in attesa del giudicato penale, può essere disposta solo se una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile e a condizione che la sentenza penale possa avere, nel caso concreto, valore di giudicato nel processo civile. Perché si verifichi tale condizione di dipendenza tecnica della decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto in ambito civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto dell’imputazione penale.
Il consulente tecnico d’ufficio può acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori, rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e costituenti il presupposto necessario per rispondere ai quesiti formulati, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse.
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