L’istituto della simulazione dell’atto si fonda sul divario fra l’atto palese e la reale volontà contrattuale dei disponenti. In caso di simulazione assoluta, l’atto appare esservi, ma non è in realtà voluto, o più precisamente vi è sottostante la ferma e reale volontà che l’atto non vi sia; in caso di simulazione relativa, si forma un certo atto ma in realtà se ne vuole, e se ne conviene, uno diverso.
Ove si tratti di simulazione relativa ed il negozio dissimulato sia una donazione indiretta [nel caso di specie, un negotium mixtum cum donatione, consistente nel divario di valore tra l'azienda conferita ed il diritto di usufrutto su quota ottenuto in cambio], non è prospettabile la nullità per difetto di forma (artt. 782 c.c. e 48 L.N.) del negozio dissimulato, dato che alle donazioni indirette non si applicano le forme solenni necessarie per la donazione.
La clausola c.d. put&call è una clausola complessa, in parte riconducibile al patto di opzione, che è un negozio giuridico bilaterale che dà luogo ad una proposta irrevocabile cui corrisponde la facoltà di una delle parti di accettarla, configurando uno degli elementi di una fattispecie a formazione successiva, costituita inizialmente dall’accordo avente ad oggetto l’irrevocabilità della proposta e, successivamente, dall’accettazione definitiva del promissario che, saldandosi con la proposta, perfeziona il contratto. Colui che concede tale facoltà alla controparte resta vincolato alla promessa fatta e non può sottrarsi alle conseguenze di tale promessa. Ciò in quanto il patto di opzione è, già di per sé, un contratto attuale e perfetto, seppur propedeutico alla conclusione del contratto finale, ove segua la accettazione del promissario o favorito. Si tratta quindi di un contratto con obbligazione di una sola parte e, in ciò, si distingue dalla mera proposta irrevocabile, che ha invece natura unilaterale. Il patto di opzione, dunque, riconosce all’opzionario un diritto potestativo, che si esercita mediante l’eventuale atto unilaterale di accettazione, a fronte del quale la parte vincolata alla dichiarazione è titolare di una situazione di mera soggezione, non essendo di norma tenuta al compimento di alcuna attività, neanche collaborativa, affinché il contratto possa concludersi. Pertanto, la dichiarazione contenuta nel patto di opzione può considerarsi vincolante solo qualora contenga tutti gli elementi essenziali del contratto da concludere, in modo da consentire la conclusione di tale contratto nel momento e per l’effetto dell’adesione dell’altra parte, senza necessità di ulteriori pattuizioni. Tuttavia, sotto tale aspetto, l’opzione si distingue dal contratto preliminare, in quanto nella prima ipotesi le parti sono legate da un rapporto tra diritto potestativo e soggezione, mentre nel secondo le parti sono legate da un rapporto tra credito ed obbligo di concludere un futuro contratto. Sicché, la presenza degli elementi essenziali nel preliminare è valutata in modo meno rigoroso, potendo costituire oggetto di successiva integrazione, mentre il rimedio dell’art. 2932 c.c. è escluso per l’opzione. Quest’ultima, infatti, si distingue anche dal preliminare unilaterale, in quanto nel caso di preliminare gli effetti del contratto definitivo si producono solo a seguito del successivo incontro di dichiarazioni tra le parti contraenti, laddove nell’opzione per la conclusione del contratto finale è sufficiente la semplice dichiarazione unilaterale di accettazione della parte non obbligata.
Ed invero, qualora il definitivo assetto (su base contrattuale) di interessi tra le parti non si formi immediatamente per mezzo di un unico atto, si distinguono tre diverse ipotesi, cui conseguono differenti conseguenze giuridiche: (a) patto di opzione, ossia il negozio bilaterale con cui si concorda la irrevocabilità della dichiarazione di una delle parti relativamente ad un futuro contratto, che sarà concluso con la semplice accettazione dell’altra parte (rispetto ad un regolamento negoziale interamente contemplato nel patto di opzione), la quale però rimane libera di accettare o meno detta dichiarazione, entro un certo termine; (b) contratto preparatorio in senso stretto (o puntuazione), con cui i contraenti si accordano su taluni punti del futuro contratto, di tal che in occasione della stipula (a cui le parti non sono obbligate, così come nei casi in cui sono intercorse semplici trattative) non sarà necessario un nuovo incontro di volontà sui punti già definiti; (c) contratto preliminare, diretto ad obbligare le parti (o una sola nel caso di preliminare unilaterale) a stipulare un futuro contratto.
È, pertanto, alla data di accettazione della proposta irrevocabile contenuta nel patto di opzione che è necessario far riferimento ai fini della conclusione del contratto e di tutte le conseguenze da esso derivanti. Una volta concluso il patto di opzione, il promittente non è tenuto ad alcuna specifica condotta positiva volta a consentire la conclusione del contratto finale, ma dovrà astenersi dal compimento di comportamenti volti ad inibire o aggravare la conclusione del contratto finale. Egli è, pertanto, vincolato ad un’obbligazione negativa, la cui violazione legittima la pretesa del risarcimento dei danni in favore del promissario. Di conseguenza, qualora l’opzione put contempli tutti gli elementi essenziali del regolamento negoziale, l’accettazione della controparte – esercitata nei termini e secondo le modalità pattuite – è sufficiente a determinare il perfezionamento del contratto traslativo, facendo sorgere in capo al promittente l’obbligo di pagamento del prezzo. Le contestazioni, quindi, potranno in concreto afferire alle modalità ed ai termini entro cui il diritto potestativo di accettazione è stato esercitato, mentre non potrà contestarsi il perfezionamento del contratto ed il conseguente effetto traslativo a fronte di una accettazione validamente e tempestivamente esercitata.
Ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria è sufficiente l’esistenza di una semplice ragione o aspettativa di credito posto che, questo tipo di azione, non persegue fini restitutori. Ciò risulta essere coerente con l’intenzione del legislatore – sottesa all’art. 2901 c.c. – di ampliare e rafforzare la tutela del creditore che trova compimento nell’estendere la tutela conservativa ai titolari di crediti non attuali.
L’azione revocatoria presuppone sia il compimento di un atto pregiudizievole del debitore (eventus damni), ossia, l’atto di disposizione del debitore è finalizzato a rendere più difficile la soddisfazione coattiva del credito sia la consapevolezza, da parte del disponente, di tale carattere lesivo e, in caso di atti a titolo oneroso, anche da parte del terzo (partecipatio fraudis).
Nel caso in cui l’atto di disposizione del patrimonio risulti essere precedente al sorgere del credito è necessario – ai fini dell’accoglimento della domanda – che l’atto di disposizione sia stato dolosamente preordinato al fine di pregiudicare il soddisfacimento delle ragioni creditorie e che il terzo sia parimenti consapevole del pregiudizio arrecato a tali ragioni.
(Nel caso di specie, tali presupposti sussistono entrambi, poiché, con l’atto di cessione delle quote sociali, il disponente si privava della partecipazione sociale rappresentante l’unico bene residuo del suo patrimonio ed il terzo risultava essere a conoscenza del carattere pregiudizievole della cessione a titolo oneroso in virtù sia del rapporto di parentela che lo lega al cedente sia del rapporto di convivenza).
Non integra violazione del divieto di patto commissorio la procura irrevocabile a vendere [nel caso di specie, tra le altre cose, una quota di s.r.l.] conferita ad un soggetto, in assenza di prova del nesso funzionale con un preesistente contratto di mutuo o di altra obbligazione restitutoria tra le parti.
Nel sequestro conservativo la norma generale che detta le modalità di esecuzione è l’art. 678 c.p.c., secondo cui “il sequestro conservativo sui mobili e sui crediti si esegue secondo le norme stabilite per il pignoramento presso il debitore o presso terzi”. Qualora il sequestro debba essere eseguito su partecipazioni di s.r.l. la norma che viene in rilievo è, dunque, l'art. 2471 c.c., che regola specificamente il pignoramento di quote di s.r.l. prevedendo che “il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese”.
Con l'art. 2471 c.c. il legislatore ha attribuito al pignoramento di quote di s.r.l. la forma di pignoramento "documentale", che poggia sul presupposto teorico rappresentato dalla qualificazione della quota di partecipazione in una s.r.l. come un bene immateriale iscritto in un pubblico registro, da ciò facendo derivare la tipologia di espropriazione da attuare, non alternativa ma diversa e sola corretta rispetto alla forma del pignoramento presso terzi, che in precedenza veniva, invece, ritenuto doversi seguire tanto nella esecuzione del pignoramento quanto nella esecuzione del sequestro di quote di s.r.l.. A differenza della esecuzione del pignoramento, l'attuazione del sequestro conservativo avviene sulla base di un provvedimento già perfezionato, nel contraddittorio tra le parti, con la conseguenza che, mentre non può prescindersi dalla iscrizione del sequestro nel Registro (cfr. per analogia art. 679 c.p.c.), non altrettanto può dirsi per la notifica prescritta dall'art. 2471 cc, che vale a produrre il vincolo di indisponibilità, il quale ad ogni modo è opponibile al debitore sin dalla pronuncia del provvedimento autorizzativo, se avvenuta in udienza, o dalla comunicazione del provvedimento stesso. Le medesime considerazioni valgono per la notifica alla società ove questa sia stata parte del procedimento cautelare. L’iscrizione del vincolo nel Registro delle Imprese costituisce l'unica formalità necessaria al perfezionamento del vincolo finalizzata a garantire l’opponibilità ai terzi degli atti di trasferimento compiuti successivamente alla data di iscrizione del pignoramento.
Il pignoramento disciplinato dall’art. 2471 cod. civ. non necessita, inoltre, di alcuna forma di collaborazione da parte della società - che assume la funzione di terzo interessato - dal momento che i dati e le circostanze sui quali questa dovrebbe riferire (qualità di socio del debitore pignorato, valore nominale della quota, esistenza di vincoli sulla stessa) possono essere ricavati esaminando il registro delle imprese. La funzione della notifica del pignoramento nei confronti della società è quella di rendere operante anche nei suoi confronti il vincolo che costituisce l’effetto tipico del pignoramento, che discende dall’ingiunzione dell’ufficiale giudiziario di non sottrarre i beni pignorati alla garanzia del credito.
La ratio dell’art. 2557 cod. civ. è assicurare che il contratto di trasferimento d’azienda realizzi appieno le finalità economiche normalmente perseguite dalle parti, consentendo all’acquirente di subentrare nella titolarità di un’azienda corrispondente a quella gestita dall’alienante, caratterizzata da una certa organizzazione e dall’esistenza di determinati rapporti con fornitori, finanziatori e clienti.
Il rispetto del principio di relatività degli effetti contrattuali ed il divieto di imporre ai soci sacrifici ulteriori rispetto al conferimento, non prevedibili al momento dell’ingresso in società, richiedono che l’identificazione del “soggetto alienante” in senso sostanziale, gravato dal divieto di concorrenza, debba basarsi sul “consenso” prestato dal singolo socio all’operazione di cessione: “consenso” che sarà normalmente ravvisabile in capo al socio o ai soci che detengono il controllo della società, dato che la vendita dell’azienda sociale non può che realizzarsi, nelle società di capitali, con l’approvazione, assembleare o extra-assembleare, di coloro che, rappresentando la maggioranza del capitale sociale, dispongono dei voti necessari per nominare gli amministratori e hanno il potere di influenzare concretamente la gestione strategica dell’impresa. Mentre in nessun caso il socio dissenziente o comunque rimasto estraneo alla definizione delle condizioni dell’operazione di dismissione dell’azienda può essere vincolato ad un obbligo di non concorrenza imposto dagli altri soci che, a maggioranza, abbiano deciso l’operazione. Il bilanciamento tra l’interesse dell’acquirente alla salvaguardia dell’avviamento dell’azienda e quello dei soci della società alienante a non essere vincolati uti singuli ad obblighi ulteriori e diversi rispetto a quelli stabiliti nel contratto sociale deve pertanto essere realizzato muovendo dal rilievo che, in base al principio di buona fede, possono considerarsi sottoposti all’obbligo di non concorrenza assunto dalla società esclusivamente i soci che (i) abbiano deciso, autorizzato o comunque in qualsiasi forma prestato la loro adesione alle condizioni dell’operazione di cessione, assumendo la qualità di parti in senso sostanziale del contratto, e che (ii) per la posizione rivestita nell’organizzazione aziendale siano concretamente in grado di esercitare una concorrenza differenziale.
Partendo dalla distinzione – corrispondente all’interpretazione costantemente fornita in dottrina dell’art. 2357, 2° co., c.c., anche nell’identico testo anteriore alla riforma del 2003 – tra il potere autorizzativo dell’assemblea dei soci e il potere decisionale in ordine all’opportunità ed alla convenienza dell’acquisto, che compete solo e soltanto agli amministratori, si osserva come l'acquisto di azioni proprie passi, anzitutto, per la delibera del C.d.A. che esprima la volontà di acquistare in proprio le azioni e dia avvio alla sequenza procedimentale che dovrà poi portare, passando per la previa autorizzazione dell’assemblea, al perfezionamento dell’acquisto delle partecipazioni del socio intenzionato a vendere. La successiva delibera dell’organo assembleare non rappresenta, dunque, una ratifica della decisione di acquistare assunta dall’organo amministrativo in carenza di potere, bensì un necessario passaggio nell’iter dell’acquisto di azioni in proprio: essa, cioè, si colloca nel pieno rispetto della distinzione tra competenze degli amministratori e competenze assembleari.
L’acquisto di azioni proprie senza la previa autorizzazione dell’assemblea dei soci non è invalida, a motivo del fatto che secondo l’art. 2357, 4° co., c.c., in presenza di un acquisto avvenuto in violazione dei commi 1-3 della norma (e dunque anche senza autorizzazione), le azioni debbono essere rivendute entro un anno dal loro acquisto e, in mancanza, annullate con una corrispondente riduzione del capitale. Ciò farebbe pensare a una validità dell’operazione, escludendo la nullità per violazione di norma imperativa.
La cessione delle partecipazioni di una società di capitali o di persone fisiche ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Pertanto, le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale - e, di riverbero, alla consistenza economica della partecipazione - possono giustificare l'annullamento del contratto per errore o, ai sensi dell'art. 1497 cod. civ., la risoluzione per difetto di "qualità" della cosa venduta, solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali, ovvero nel caso di dolo di un contraente, quando il mendacio o le omissioni sulla situazione patrimoniale della società siano accompagnate da malizie ed astuzie volte a realizzare l'inganno ed idonee, in concreto, a sorprendere una persona di normale diligenza.
Qualora alla cessione delle partecipazioni sociali siano collegati dei patti autonomi di garanzia, aventi ad oggetto le passività del patrimonio sociale (c.d. business warranties), questi patti non attengono all’oggetto immediato del negozio, consistente nell’acquisizione della partecipazione sociale, ma al suo oggetto mediato, riconducibile alla quota del patrimonio sociale che essa rappresenta, e costituiscono un’autonoma regolamentazione di garanzia, sicché, in caso di inadempimento, deve riconoscersi all’acquirente il diritto a conseguire un indennizzo, e non la possibilità di ottenere la risoluzione del contratto di acquisto delle azioni a causa del difetto di qualità della cosa venduta, secondo la disciplina di cui agli artt. 1495 e 1497 c.c..
Nell’ambito di un regolamento negoziale afferente ad un’operazione di investimento e finanziamento dell’attività di una s.r.l., la presenza di “patti aggiunti” coevi all’atto notarile di cessione delle quote sociali può stabilire che il prezzo della cessione dell’intero capitale sociale sia comprensivo dei debiti della società verso gli istituti bancari, da estinguere mediante accollo del debito, e con versamento ai soci cedenti della sola eventuale differenza risultante all’esito del pagamento dei debiti sociali. Nel caso, la richiesta di pagamento di una delle rate del prezzo di cessione delle quote sociali si inserisce nell’ambito di un’operazione complessa, più articolata di una mera compravendita di quote sociali, essenzialmente finalizzata, attraverso la dismissione di partecipazioni sociali, alla liberazione della società dai debiti e contestualmente alla liberazione dei suoi soci garanti e fondata sul pilastro della prioritaria destinazione del prezzo – pattuito per la cessione – all’estinzione dei debiti sociali, nonché basata sulla natura essenzialmente residuale del diritto dei soci al versamento in loro favore del prezzo della cessione.
Una volta che un soggetto si obblighi a pagare una determinata somma in favore di altro soggetto in forza di contratto, il debitore, al fine di paralizzare anche in via preventiva la propria obbligazione di pagamento, non può limitarsi a richiedere un mero accertamento negativo ma deve necessariamente allegare e dimostrare la sussistenza degli specifici strumenti offerti dall’ordinamento giuridico per impedire al creditore di richiedere il pagamento (come ad esempio l’eccezione 1460 c.c., l’eccezione di annullamento, nullità ecc.). Ciò posto, nell'ambito di un contratto di cessione di quote sociali, il sopravvenuto fallimento (rectius: liquidazione giudiziale) della società target non è un fatto di per sé idoneo a giustificare un legittimo rifiuto di pagamento del prezzo, salvo che vengano dimostrati ulteriori fatti imputabili al venditore che comportino un vizio o un inadempimento da parte sua.
Secondo lo schema negoziale del contratto di compravendita con riservato dominio, ad essere sospensivamente condizionato è il solo effetto traslativo del diritto di proprietà, non anche l’effetto obbligatorio di pagamento del prezzo; resta inteso che l’effetto traslativo, pur rinviato nel tempo e subordinato all’integrale pagamento del prezzo, è già vincolante tra le parti, al punto che con la conclusione del contratto il venditore è obbligato alla consegna del bene al compratore, il quale dal momento della consegna assume su di sé i rischi relativi al bene acquistato. Ne deriva che il pagamento del corrispettivo non è un elemento accidentale del contratto, bensì attiene al sinallagma negoziale, impingendo la causa di scambio della compravendita con riservato dominio.
Il regime speciale in materia di vendita con riservato dominio ex art. 1525 c.c., secondo cui, nonostante patto contrario, il mancato pagamento di una sola rata che non superi l'ottava parte del prezzo non dà luogo alla risoluzione del contratto ed il compratore conserva il beneficio del termine relativamente alle rate successive, è norma eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica; l’art. 1525 c.c. presenta uno spazio applicativo limitato all’inadempimento singolo (i.e. “una rata”) sotto-soglia (i.e. “non superi l’ottava parte del prezzo”). Pertanto, in caso di inadempimento plurimo - anche se complessivamente sotto-soglia - la conservazione del termine a favore del debitore va stabilita secondo le regole generali ex art. 1186 c.c..
In tema di compravendita delle azioni di una società che si assume stipulata ad un prezzo non corrispondente al loro effettivo valore, il valore economico dell'azione non rientra tra le qualità di cui all'art. 1429, n. 2, cod. civ., relativo all'errore essenziale, essendo la determinazione del prezzo delle azioni rimessa alla libera volontà delle parti.