La finalità del sequestro giudiziario è assicurare la fruttuosità dell’esecuzione conseguente all’accertamento del diritto alla restituzione del bene al termine del processo di cognizione. Il sequestro è strumentale all’esperimento sia di azioni reali che di azioni personali: si è in presenza di una controversia sulla proprietà o sul possesso non solo quando siano esperite le caratteristiche azioni di rivendica, di manutenzione o di reintegrazione, ma anche nel caso in cui venga proposta un’azione contrattuale che, ove accolta, comporta la condanna alla restituzione di un bene. Il requisito del periculum in mora va ravvisato nell’opportunità di provvedere alla custodia o alla gestione temporanea del bene. Quando la domanda cautelare di sequestro giudiziario si fonda sull’intervenuta risoluzione di diritto di un contratto di cessione di quote, tale opportunità è determinata dal timore che il cessionario, restando inerte a fronte della richiesta di retrocessione, possa compiere atti di alienazione o di disposizione giuridica delle quote ancora in suo possesso in favore di terzi ovvero eserciti i diritti sociali nonostante sia privo della qualità di socio.
L'accordo esterno è il contratto tra il debitore accollato e il terzo accollante, in forza del quale quest'ultimo assumere verso il creditore accollatario l'obbligo di adempiere la prestazione a lui dovuta dal debitore accollato. Tale fattispecie sottende lo schema del contratto a favore di terzo: (i) il debitore accollato è lo stipulante, (ii) l'accollante (terzo rispetto al rapporto obbligatorio originario) è il promittente e (iii) il creditore accollatario è il terzo rispetto alla convenzione di accollo.
L'accollo esterno può essere cumulativo o liberatorio. Nell'accordo cumulativo il debitore accollato non è liberato, ma resta obbligato verso il creditore accollatario, in solido con l'accollante. In tal caso, tuttavia, l'operatività del beneficium ordinis in favore del debitore originario è subordinata al fatto che il creditore accollatario, pur non liberando l'accollato, dichiari di aderire alla stipulazione fatta in suo favore, rendendola irrevocabile. Nel caso dell'accollo esterno, infatti, la volontà del creditore-terzo assume un ruolo diverso e più forte alla luce del principio di relatività degli effetti contrattuali, che impedisce la produzione di effetti pregiudizievoli per colui che non è parte del contratto: il terzo, infatti, è già creditore dello stipulante e il contratto, pur assegnandogli un nuovo debitore, fa degradare il debitore originario a co-obbligato solidale in via sussidiaria. L'accollo liberatorio, invece, si configura quando (i) il creditore dichiara espressamente e inequivocabilmente di liberare il debitore accollato o (ii) la liberazione del debitore accollato costituisce condizione espressa e inequivoca della convenzione di accollo, tale per cui l'adesione del creditore determina l'automatica liberazione del debitore originario.
L'art. 1268 c.c., subordinando la liberazione del debitore ad una dichiarazione espressa del creditore, esclude che la liberazione possa costituire l'effetto di fatti concludenti, per definizione sintomatici di una manifestazione tacita di volontà e comunque concettualmente contrapposti alla dichiarazione espressa. L'adesione del creditore alla convenzione d'accollo, intervenuta fra il debitore ed un terzo, non determina di per sè la liberazione del debitore accollato, essendo a tal fine necessaria, ai sensi dell'art. 1273, comma 2, c.c., un'espressa previsione o dichiarazione del creditore medesimo, restando altrimenti il debitore originario obbligato in solido con il terzo. La mera adesione del creditore alla convezione d'accollo, in mancanza della manifestazione di volontà espressa ed inequivoca volta a liberare l'originario debitore, comporta unicamente, in funzione rafforzativa del credito, l'effetto di degradare l'obbligazione di costui a sussidiaria ed il conseguente onere del creditore di chiedere preventivamente l'adempimento all'accollante.
La violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta l’inopponibilità, nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione, della cessione della partecipazione sociale, nonché l’obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto. In caso di violazione della clausola statutaria di prelazione, dunque, l’inefficacia del trasferimento della quota sociale può essere fatta valere in giudizio non soltanto dalla società, ma anche dai soci pretermessi. Il fatto che i soci non si limitino a regolare il loro diritto di prelazione in un patto parasociale, ma scelgano di inserirlo all’interno dello statuto è indice della volontà degli stessi di elevare il loro interesse individuale a mantenere omogenea la compagine sociale a interesse “organizzativo” della società, con conseguente opponibilità della clausola a società e terzi e quindi inefficacia relativa del trasferimento operato in violazione della clausola.
La cessione a terzi di quote sociali in violazione della clausola statutaria di prelazione non comporta automaticamente - nel senso che non determina ipso iure la perdita di efficacia ma deve essere fatta valere dal socio pretermesso - l’inefficacia del negozio traslativo: il socio pretermesso non può limitarsi a lamentare la semplice violazione della clausola ma deve allegare e provare l’effettivo interesse leso dal mancato rispetto della prelazione con l’eventuale conseguente diritto al risarcimento del danno. Tale interesse non può essere individuato nel mero interesse al rispetto del procedimento di cessione. Ancora, l’interesse del socio pretermesso deve concretizzarsi nella manifestazione di un interesse patrimoniale all’acquisto della quota, che la violazione della clausola di prelazione ha impedito, presupposto necessario anche ai fini del ricorso al criterio equitativo ex art. 1226 c.c. per la determinazione del danno lamentato.
In materia di contratto di cessione di azienda risoltosi per inadempimento del cessionario, la corresponsione dell’equo compenso per l’utilizzo di azienda va parametrato sulla base della remunerazione del godimento dell’azienda, del deprezzamento conseguente alla sua non commerciabilità nelle stesse condizioni in cui era al momento della stipulazione del contratto e del normale deterioramento dei beni aziendali derivanti dall’uso. Seguendo la prassi estimativa, occorre quindi determinare il compenso di un complesso di beni destinati ad un’attività imprenditoriale.
È dato di comune esperienza che un’azienda che non consente all’imprenditore di operare con una marginalità positiva non ha sul mercato un’appetibilità analoga a quella di un’azienda che è idonea a remunerare l’attività dell’imprenditore e il capitale da questi investito.
La garanzia fideiussoria è obbligazione accessoria che copre soltanto il debito principale puntualmente menzionato; l’estensione a prestazioni ulteriori, quali la penale pattuita per il c.d. rischio fideiussorio, non discende né dalla funzione protettiva della fideiussione né da generiche affinità causali, ma richiede un’espressa previsione contrattuale univoca. L’interpretazione delle clausole, guidata dal criterio sistematico dell’art. 1363 c.c., impone di leggere unitariamente il testo negoziale: se la penale figura in una disposizione autonoma, strutturata come sanzione connessa al ritardo o all’inadempimento dell’obbligo di liberare il fideiussore, essa rimane estranea al perimetro della garanzia salvo un richiamo testuale preciso. In difetto di tale richiamo, la responsabilità per la penale resta personale del debitore principale, mentre l’obbligazione del garante si limita al debito originario o alle somme tassativamente indicate. Il creditore non può quindi pretendere dal fideiussore il pagamento della penale né rivalersi su di lui per il relativo importo. Un’eventuale clausola ambigua non legittima l’aggravamento della posizione del fideiussore, dovendosi privilegiare l’interpretazione meno onerosa conforme al principio di determinatezza dell’oggetto dell’obbligazione.
Il negozio fiduciario determina un'interposizione reale di persona, attraverso la quale l'interposto acquista la titolarità della res, pur essendo obbligato a tenere un certo comportamento con il fiduciante. Si realizza, pertanto, una combinazione di fattispecie collegate, l'una costituita da un negozio reale traslativo e l'altra ad effetti meramente obbligatori.
Il diritto del fiduciante alla restituzione dei beni intestati al fiduciario si prescrive con il decorso dell'ordinario termine decennale, che decorre, in difetto di una diversa previsione nel "pactum fiduciae", dal giorno in cui il fiduciario, avutane richiesta, abbia rifiutato il trasferimento del bene, sussistendo, prima di tale momento, solo un mero obbligo di trasferimento a richiesta del fiduciante e non un'obbligazione inadempiuta.
La mera detenzione fiduciaria della res oggetto di pactum fiduciae non è, per sua stessa natura, idonea a farne acquisire la proprietà in capo al fiduciario, dal momento che l'intestazione fiduciaria di titoli azionari o quote integra gli effetti dell'interposizione reale di persona, per effetto della quale l'interposto acquista la titolarità delle azioni o quote, pur essendo, in virtù di un rapporto interno con l'interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonchè a ritrasferire i titoli ad una scadenza convenuta ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto.
L'accertato inadempimento da parte dei fiduciari dell'obbligo restitutorio legittima il fiduciante a richiedere la pronuncia di una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. che tenga luogo dell'obbligazione rimasta inadempiuta.
Non è soggetta alla giurisdizione arbitrale l'istanza di nomina di un perito prevista in un patto parasociale per la determinazione del valore di una partecipazione oggetto di un'opzione di vendita da parte di un socio. La diversità di funzioni tra gli istituti dell’arbitrato e dell’arbitraggio - composizione di una lite quanto al primo, integrazione del contenuto negoziale quanto al secondo – comporta che presupposto fondamentale dell’arbitrato è l’esistenza di un rapporto controverso che invece difetta nell’arbitraggio. Ove una clausola del patto parasociale preveda una modalità per stabilire il prezzo da pagare a seguito dell’esercizio dell’opzione e, quindi, per integrare il contenuto del contratto mediante l’individuazione di un suo elemento (in particolare, il corrispettivo), si è in presenza di arbitraggio che ha ad oggetto l’incarico di determinare uno degli elementi del negozio in via sostitutiva della volontà delle parti.
La procedura per la nomina dell’arbitratore dev’essere seguita anche nel caso sorga tra le parti una controversia circa la validità e l’efficacia di un contratto di compravendita tramite cui sia stato dalle parti convenuto di affidare ad un terzo la determinazione del prezzo secondo la previsione dell’art.1473 c.c.. Ai sensi dell'art.1473, 2°c., c.c., del resto, si procede alla nomina dell’arbitratore in sede di volontaria giurisdizione a prescindere dai motivi che non hanno portato alla nomina congiunta del medesimo.
L'esercizio dell'opzione di vendita (put option) da parte di un socio in relazione alla propria partecipazione sociale comporta il perfezionamento del contratto.
Nel caso di inadempimento del preliminare di vendita di quote di società a responsabilità limitata contenente un termine - non rispettato alla scadenza - per la stipulazione del definitivo, l’esercizio dell’azione di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. non presuppone necessariamente la natura essenziale di tale termine né l’intimazione di una diffida ad adempiere a carico della controparte. E’ infatti sufficiente la sola condizione oggettiva dell’omessa stipulazione del definitivo, che determina di per sé l’interesse alla pronuncia costitutiva.
È ammissibile l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare di cessione di quote sociali, ai sensi dell’art. 2932 c.c., anche nell’ipotesi in cui la società non abbia depositato il bilancio per più esercizi e/o versi in una situazione di irregolarità amministrativa o fiscale. La previsione dell’art. 2490, sesto comma, c.c., che contempla la cancellazione d’ufficio delle società in liquidazione in caso di omesso deposito del bilancio per tre esercizi consecutivi, non è di per sé ostativa alla cessione delle partecipazioni sociali, in assenza di un provvedimento effettivo di cancellazione dal Registro delle Imprese.
In uno stesso contratto preliminare di compravendita delle quote sociali di una S.r.l., le parti possono prevedere sia una clausola penale, sia una caparra confirmatoria, avente ad oggetto lo stesso importo.
Attesa l’alternatività dei rimedi del recesso con ritenzione di caparra confirmatoria - da un lato - e della risoluzione del contratto con risarcimento del danno - dall’altro - la domanda dell’attore di accertamento della risoluzione di diritto del preliminare inadempiuto è incompatibile con l’incameramento automatico della caparra confirmatoria, giacché il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali.
La domanda di riduzione dell'indennità ex articolo 1526 c.c., conseguente alla risoluzione di un contratto di vendita con patto di riservato dominio, può essere accolta solo successivamente alla restituzione della res oggetto del contratto di vendita [nel caso di specie, l'azienda], in quanto solo dopo che la restituzione è avvenuta diviene possibile determinare l'equo compenso spettante al venditore per il godimento garantito all'acquirente nel periodo di efficacia del contratto. Il suddetto equo compenso comprende la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente all'incommerciabilità del bene come nuovo e il logoramento per l'uso, ma non il risarcimento del danno spettante al venditore.
Con riferimento a un contratto di vendita con patto di riservato dominio che preveda che le rate pagate dal compratore restino acquisite al venditore a titolo di indennità in caso di risoluzione, è considerata manifestamente eccessiva la penale che, mantenendo in capo al venditore la proprietà del bene, gli consenta di acquisire i canoni maturati fino al momento della risoluzione, ciò comportando un indebito oggettivo derivante dal cumulo della somma dei canoni e del residuo valore del bene e in tal caso il giudice, secondo le circostanze, può ridurre l'indennità convenuta.