Ai fini della tutela del know-how occorre l'allegazione precisa delle informazioni e delle conoscenze per le quali si richiede la protezione nonché dei vantaggi tecnici derivanti dalla loro utilizzazione.
E' lecita la condotta del datore di lavoro che si limiti ad utilizzare le competenze che il proprio dipendente ha liberamente messo a disposizione dell'azienda, e ciò a maggior ragione laddove l'attività svolta da quest'ultimo sia stata prevalentemente esecutiva o si sia basata sulle indicazioni operative fornite da un altro dipendente e comunque abbia riguardato conoscenze tecniche già in possesso della società o note nel settore.
La concorrenza sleale confusoria ricorre soltanto laddove gli elementi che siano asseritamente ripresi abbiano comunque un carattere sufficientemente distintivo, ossia consentano al consumatore di associare il prodotto o il servizio contraddistinto dal segno distintivo all'imprenditore che lo utilizza.
Quanto alla configurabilità della concorrenza sleale parassitaria, tale fattispecie consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell'imprenditore concorrente, mediante l'imitazione non tanto dei prodotti, quanto piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest'ultimo, in un contesto temporale prossimo all'ideazione dell'opera, in quanto effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente [c.d. concorrenza parassitaria diacronica] o dall'ultima e più significativa di esse [c.d. concorrenza parassitaria sincronica], laddove per "breve" deve intendersi quell'arco di tempo per tutta la durata del quale l'imprenditore che ha ideato la nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari - ad es. in tema di incassi, di pubblicità, di avviamento - dal lancio della novità, ovvero fino a quando tale iniziativa viene considerata tale dai clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto.
La creatività, infatti, è tutelata dall'ordinamento solo per un tempo determinato, ossia fino a quando l'iniziativa può considerarsi originale, e il connotato dell'originalità può dirsi venuto meno nel momento in cui quel determinato modo di produrre e/ o di commerciare sia divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di quanti operano nel settore e dunque il capitale impiegato nello sforzo creativo da parte dell'imprenditore che ha primariamente ideato l'iniziativa si può dire, secondo l'id quom plemmque accidit ammortizzato. L'imitazione di un'attività, dunque, che al momento in cui è sorta e si è successivamente formata era originale ma che poi si è generalizzata e spersonalizzata non è costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda. Le condotte parassitarie sono, pertanto, illecite in quanto costituiscono uno sfruttamento sistematico delle idee, dei mezzi di ricerca e finanziari e - più in generale - degli sforzi altrui per attrarre la clientela e conquistare una fetta di mercato.
Per poter godere della tutela autorale, l'opera deve concretizzarsi in un oggetto originale, cioè in una creazione intellettuale propria del suo autore, sì da rifletterne la personalità e manifestare le scelte libere, creative e personali del medesimo; per contro, quando la realizzazione di un oggetto è determinata da considerazioni di carattere tecnico, da regole o da altri vincoli che non lasciano margine per la libertà creativa, il requisito della creatività necessaria per poter costituire un'opera viene meno. Per non pervenire ad un'interpretazione di fatto abrogante del n. 10 dell'art. 2 l.d.a., occorre in altri termini dimostrare comunque che i particolari dell'opera sono espressione di un tratto della personalità dell'autore e ne riflettono originalità e creatività, per esempio, per avere l'autore realizzato un modello talmente innovativo da segnare una rottura netta con i canoni dei modelli già presenti sul mercato o, ancora, da mutarne la concezione estetica.
Il valore artistico di cui all'art. 2 l.d.a., la cui prova spetta alla parte che ne invoca la protezione, può essere desunto da una serie di parametri oggettivi, non necessariamente tutti presenti in concreto, quali il riconoscimento, da parte degli ambienti culturali ed istituzionali, circa la sussistenza di qualità estetiche e artistiche, l'esposizione in mostre o musei, la pubblicazione su riviste specializzate, l'attribuzione di premi, l'acquisto di un valore di mercato così elevato da trascendere quello legato soltanto alla sua funzionalità ovvero la creazione da parte di un noto artista. Un simile valore può essere riconosciuto ove risulti dimostrato l'inserimento del prodotto in una corrente artistica, oppure la presenza in musei d'arte contemporanea, l'accreditamento e il perdurare del successo del prodotto presso la collettività e gli ambienti culturali, quali indici che storicizzano il giudizio e lo ancorano a criteri di obiettività, ovvero il diffuso riconoscimento che più istituzioni culturali abbiano espresso in favore dell'appartenenza dell'opera del disegno industriale ad ambito di espressività proprio di tendenze e influenze di movimenti artistici.
La condotta tipica di concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui, ai sensi dell’art. 2598 n. 2) c.c. ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie o equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi – quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù – da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.
Per ritenere integrata la fattispecie di storno di dipendenti è necessaria la dimostrazione che il comportamento sia univocamente finalizzato all’intenzionale scomposizione dell’organizzazione e della funzionalità dell’impresa concorrente, così da menomarne la vitalità economica, richiamando quali indici sintomatici, ad es., le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori, la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell'ambito dell'organigramma dell'impresa concorrente, le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti o collaboratori a passare all'impresa concorrente.
Ciò che deve essere verificato è se le conseguenze del passaggio dei lavoratori vada al di là del pregiudizio che normalmente un imprenditore subisce a causa di tale evento, che di per sé solo considerato, è lecito, in quanto esplicazione del principio della libera concorrenza.
La tutela inibitoria ha la funzione di neutralizzare gli effetti delle condotte di concorrenza sleale, da un lato consentendo all’imprenditore che le abbia subite di poter tornare nello status quo ante e di evitare di subire ulteriori comportamenti illeciti analoghi e, dall’altro ristabilendo l’equilibrio del mercato alterato dalla condotta anticoncorrenziale. Ciò, appunto, si realizza disponendo delle misure volte ad evitare che l’autore della condotta di concorrenza sleale possa avvantaggiarsi delle conseguenze del proprio comportamento o per il tempo necessario a colui che ha subito l’illecito di assumere le iniziative necessarie per ripristinare lo status quo ante o, comunque, per quel tempo che, secondo le dinamiche di mercato, sarebbe stato necessario all’autore dell’illecito per acquisire il vantaggio illecitamente acquisito con mezzi conformi alla correttezza professionale e ai principi di leale concorrenza. Ecco perché, nel pronunciare l’inibitoria, il giudice deve tener conto delle peculiarità del caso concreto ed evitare che la misura inibitoria diventi uno strumento tramite il quale l’imprenditore che ha subito la condotta di concorrenza sleale finisca con il conseguire non più soltanto il ripristino dello status quo ante – come vuole l’ordinamento – ma anche degli indebiti vantaggi a danno degli altri operatori del mercato.
Costituisce contraffazione del marchio e pratica commerciale scorretta ai sensi dell’art. 2598, n. 3 c.c., il comportamento di una società che, tramite i propri emissari, si presenti alla clientela di una concorrente fingendosi suoi agenti o mandatari, fornendo poi informazioni parziali o non veritiere sulle politiche aziendali di quest'ultima e proponendo alternative commerciali apparentemente più vantaggiose. Tale condotta risulta idonea a indurre in errore il consumatore medio sulla provenienza o natura dei servizi offerti, arrecando così danno all'impresa concorrente e sviandone la clientela.
In caso di concorrenza sleale per sviamento di clientela, l’illiceità della condotta non deve essere ricercata episodicamente, ma va desunta dalla qualificazione tendenziale dell’insieme della manovra posta in essere per danneggiare il concorrente, o per approfittare sistematicamente del suo avviamento. Pertanto, mentre è contraria alle norme di correttezza imprenditoriale l’acquisizione sistematica, da parte di un ex dipendente che abbia intrapreso un’autonoma attività imprenditoriale, di clienti del precedente datore di lavoro il cui avviamento costituisca, soprattutto nella fase iniziale, il terreno dell’attività elettiva della nuova impresa, deve invece ritenersi fisiologico il fatto che il nuovo imprenditore, nella sua opera di proposizione e promozione sul mercato della sua nuova attività, acquisisca o tenti di acquisire anche alcuni clienti già in rapporti con l’impresa alla cui dipendenze aveva prestato lavoro.
Configura atto di concorrenza sleale il trasferimento di un complesso di informazioni aziendali da parte di un ex dipendente di imprenditore concorrente che - pur non costituendo oggetto di un vero e proprio diritto di proprietà industriale quali informazioni riservate o segreti commerciali - costituisca un complesso organizzato e strutturato di dati cognitivi, seppur non segretati e protetti, che superino la capacità mnemonica e l'esperienza del singolo normale individuo e configurino così una banca dati che, arricchendo la conoscenza del concorrente, sia capace di fornirgli un vantaggio competitivo che trascenda la capacità e le esperienze del lavoratore acquisito.
Non può considerarsi illecita l'utilizzazione del valore aziendale esclusivamente costituito dalle capacità professionali dell'ex dipendente, non distinguibili dalla sua persona, poiché si perverrebbe altrimenti al risultato duplicemente inammissibile di vanificare i valori della libertà individuale inerenti alla personalità del lavoratore, costringendolo ad una situazione di dipendenza che andrebbe oltre i limiti contrattuali, e di privilegiare nell'impresa, precedente datrice di lavoro, una rendita parassitaria derivante, una volta per tutte, dalla scelta felicemente a suo tempo fatta con l'assunzione di quel dipendente.
La concorrenza sleale, di cui all’art. 2598 c.c., n. 1, è volta a tutelare l’attività d’impresa nella sua funzione distintiva, garantendo che sia rispettata la possibilità di identificare la stessa come fonte della produzione di determinati beni e servizi, con riferimento alla provenienza dei predetti prodotti rispetto a comportamenti che, invece, ingenererebbero equivoci, provocando uno sviamento della clientela. Vi si ricomprendono le due ipotesi dell’adozione di nomi e segni distintivi e dell’imitazione servile.
La fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile non esige la riproduzione pedissequa di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo di quella che ricade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante, cioè idonee, in virtù della loro capacità distintiva, a rendere originale quel prodotto, sempre che la ripetizione dei connotati formali non si limiti all’imitazione di forme comuni o standardizzate - salvo il caso che quest’ultime acquistino un valore individualizzante - ovvero di quei profili resi necessari dalle caratteristiche funzionali del prodotto stesso. Inoltre è necessario che la comparazione tra i prodotti avvenga non attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti gli stessi, ma mediante una valutazione sintetica dei beni e servizi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore di riferimento, al quale i prodotti in esame sono destinati, di guisa che egli, volendo acquistare la merce di un determinato produttore, possa essere tratto in inganno e confonderla con quella di un suo concorrente.
La cessazione del comportamento spontaneamente attuato solo a seguito di notifica del ricorso cautelare e/o l’impegno a desistere dal comportamento non sono sufficienti a evitare l’assunzione del comando inibitorio e delle altre misure invocate in sede cautelare.
La concorrenza parassitaria consiste in un continuo e sistematico operare, da parte di un imprenditore, sulle orme dell'imprenditore concorrente, attraverso l'imitazione di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest'ultimo.
Nella cosiddetta concorrenza parassitaria, l'imitazione può considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza parassitaria diacronica) o dall'ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), là dove per "breve" deve intendersi quell'arco di tempo per tutta la durata del quale l'ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari (di incassi, di pubblicità, di avviamento) dal lancio della novità, ovvero fino a quando essa è considerata tale dai clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto. Ciò in quanto la creatività è tutelata nel nostro ordinamento solo per un tempo determinato, fino a quando l'iniziativa può considerarsi originale, sicché quando l'originalità si sia esaurita, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commerciare sia divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di quanti operano nel settore, l'imitazione non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l'altrui azienda.
Al fine di ottenere la tutela dall’imitazione servile di cui all’art. 2598 n. 1 cod. civ., consistente nella pedissequa riproduzione della forma esteriore del prodotto del concorrente tale da ingenerare confusione, non è sufficiente provare la confondibilità del prodotto commercializzato dalla società concorrente rispetto al proprio ma è necessario dimostrare che il prodotto che si intende tutelare abbia carattere distintivo, tale da far sì che il consumatore medio associ tale prodotto alla sua impresa. Rilevano al riguardo i seguenti parametri, più volti rimarcati dalla giurisprudenza: a) è necessario accertare che le caratteristiche imitate non siano dettate da esigenze funzionali o strutturali e presentino al contempo i requisiti di originalità e capacità individualizzante. Le forme di cui la norma suddetta vieta l'imitazione sono, cioè, le sole forme del prodotto comunemente definite superflue, arbitrarie, capricciose, tecnicamente insignificanti.; b) la valutazione del rischio di confusione deve essere preceduta dall'individuazione del consumatore di riferimento al quale i prodotti oggetto di esame sono destinati. È noto, infatti, che maggiore è il grado di attenzione prestato dal consumatore, minore è la possibilità di equivoco generata dalla similitudine delle forme; c) non rientra in tale fattispecie l'imitazione di forme comuni o standardizzate, salvo il caso che queste ultime acquistino, come detto, valore individualizzante; d) il carattere confusorio deve essere accertato in rapporto al mercato di riferimento (ovvero rilevante). A tal fine può essere rilevante, ad esempio, la produzione di documentazione pubblicitaria, commerciale o di indagini di mercato, dalle quali emerga che la pubblicizzazione del prodotto abbia assunto una rilevanza tale da far sé che il consumatore medio sia in grado di associarlo ad una determinata impresa.
Il reclamo proposto nei confronti di soggetti che non sono stati parte del giudizio di primo grado va dichiarato inammissibile nei confronti dei medesimi soggetti.
Affinché il requisito della c.d. "strumentalità" dell'istanza proposta in via cautelare sia soddisfatto, non è necessario che il ricorso riporti espressamente le domande del giudizio di merito, ma è sufficiente che queste siano sufficientemente desumibili, anche con un ragionevole sforzo, dal tenore dell'atto introduttivo del procedimento d'urgenza.
L'applicabilità dell'art. 2598 c.c. non può essere esclusa per il fatto che entrambe le parti del giudizio siano degli enti privi di lucro, in quanto ciò che rileva è che i soggetti operino come imprenditori, e quindi esercitino un'attività economica organizzata al fine dello scambio dei beni e dei servizi ex art. 2082 c.c., intendendosi per "economica" non solo l'attività che tenda a conseguire un utile, ma anche quella che tende alla copertura dei costi con i ricavi.
In relazione alla valutazione circa il periculum in mora, il requisito dell'irreparabilità sussiste non solo quando il danno che il ricorrente patirebbe in attesa dell'esito del giudizio di merito non potrebbe essere ristorato in nessuno modo (c.d. irreparabilità assoluta), ma anche laddove il pregiudizio sia riparabile in misura incerta o incompleta o con particolare difficoltà (c.d. irreparabilità relativa).
Nel caso di violazione di marchio, il pregiudizio che deriverebbe dalla prosecuzione o dalla reiterazione dell'illecito può senz'altro dirsi connotato dal carattere dell'irreparabilità, in considerazione del fatto che in tal caso il titolare del marchio rischierebbe di veder ulteriormente diluita la capacità distintiva del proprio segno e di perdere delle quote di mercato.
Con riferimento agli atti di concorrenza sleale consistenti nell'uso di segni distintivi analoghi e nella denigrazione dell'attività svolta da un concorrente, anche la prosecuzione o la reiterazione di tali condotte rischia di determinare uno sviamento della clientela e di far perdere all'impresa che subisce tali condotte delle quote di mercato.
La nullità dell’atto di citazione si produce, a norma dell’art. 164, comma 4, c.c.p., solo quando il petitum sia stato del tutto omesso o sia assolutamente incerto oppure quando manchi del tutto l’esposizione dei fatti costituenti la ragione della domanda.
Nel valutare la conformità dell’atto al modello legale, l’identificazione dell’oggetto della domanda va peraltro operata avendo riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati, producendosi la nullità solo quando, all’esito della predetta valutazione, l’oggetto risulti assolutamente incerto. Quest’ultimo elemento deve tuttavia essere vagliato in coerenza con la ragione ispiratrice della norma, che impone all’attore di specificare sin dall’atto introduttivo, a pena di nullità, l’oggetto della sua domanda; ragione che risiede nell’esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese (prima ancora di offrire al giudice l’immediata contezza del thema decidendum), con la conseguenza che non può prescindersi, nel valutare il grado d’incertezza della domanda, dalla natura del relativo oggetto e dalla relazione in cui, con esso, si trovi eventualmente la controparte (se tale, cioè, da consentire, comunque, un’agevole individuazione di quanto l’attore richiede e delle ragioni per cui lo fa, o se, viceversa, tale da rendere effettivamente difficile, in difetto di maggiori specificazioni, l’approntamento di una precisa linea di difesa).
Per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti, è necessario che l'attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione e alla struttura produttiva del concorrente; il proposito supposto, quindi, deve essere quello di procurare un danno eccedente il normale pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita dei dipendenti o collaboratori in conseguenza della loro scelta di lavorare presso altra impresa. Un tale orientamento si spiega con l’esigenza di salvaguardare sia il diritto al lavoro e alla sua adeguata remunerazione (artt. 4 e 36 Cost.), sia il diritto alla libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), sicché la mera assunzione di personale proveniente da un’impresa concorrente non può essere considerata di per sé illecita, essendo espressione del principio di libera circolazione del lavoro e della libertà di iniziativa economica.
L’art. 2598, n. 3, c.c., cui è riconducibile la fattispecie dello storno dei dipendenti, non richiede né il dolo né la colpa, essendo sufficiente ai fini della configurabilità dell’illecito la sola condotta materiale consistente nel compimento di atti non conformi alla correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda.
La condotta dell'impresa accusata di storno viene considerata illecita ove si risolva nell’appropriazione di risorse umane altrui:
a) in violazione della disciplina giuslavoristica e degli altri diritti assoluti del concorrente (come la reputazione e i diritti di proprietà immateriale, quali le informazioni riservate);
b) con modalità potenzialmente rischiose per la continuità aziendale dell’imprenditore che subisce lo storno e che viene colpito nella sua capacità competitiva; e ciò tenuto conto, da un lato, delle normali dinamiche del mercato del lavoro in un preciso contesto economico e, dall’altro, delle condizioni interne dell’impresa leale (ad esempio, si è ritenuto che in casi di crisi aziendale o situazioni di difficoltà, lo smembramento della forza lavoro e i maggiori flussi in uscita dei dipendenti siano da considerare un effetto fisiologico);
c) con modalità non prevedibili, in grado cioè di provocare alterazioni non immediatamente riassorbibili ed aventi un effetto di shock sull’ordinaria attività di offerta di beni o di servizi dell’impresa che subisce lo storno, onde lo sviamento è da ritenersi illecito ogni qualvolta il concorrente sleale si appropri di risorse umane altrui con modalità che provochino alterazioni oltre la soglia di quanto possa essere ragionevolmente previsto.