Vanno ritenuti applicabili ai comunicati stampa, anche emessi da enti pubblici, i generali principi in tema di diffamazione, riguardanti in particolare, la verità della dichiarazione, l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e il requisito della continenza, dovendo tenersi in considerazione il rapporto tra il testo ed il contesto.
Va esclusa l’illiceità dei comunicati stampa ove i fatti descritti siano di interesse pubblico, non siano stati menzionati i nomi dei soggetti coinvolti e siano state utilizzate espressioni ipotetiche accompagnate da forme verbali al condizionale.
La concorrenza sleale deve consistere in attività dirette ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del concorrente, che si concretino nella confusione dei segni prodotti, nella diffusione di notizie e di apprezzamenti sui prodotti e sull'attività del concorrente o in atti non conformi alla correttezza professionale; con la conseguenza che l'illecito non può derivare dal danno commerciale in sé, né nel fatto che una condotta individuale di mercato produca diminuzione di affari nel concorrente, in quanto il gioco della concorrenza rende legittime condotte egoistiche, dirette al perseguimento di maggiori affari, attuate senza rottura delle indicate regole legali della concorrenza.
Quanto alle privative non titolate, quali sono i segreti industriali, in caso di contestazione della sussistenza del diritto, compete a chi agisca in giudizio, pur nei limiti della prova di verosimiglianza propria del giudizio cautelare, dare contezza dell’esistenza della privativa, fornendo la prova della esistenza delle informazioni tecniche e commerciali in capo al legittimo detentore, nonché dell’esistenza dei presupposti di tutela di cui all’art. 98 cpi, quanto a segretezza di dette informazioni, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del ramo, abbiano dette informazioni valore economico in quanto segrete e siano sottoposte a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.
Sebbene siano astrattamente compatibili e cumulabili la tutela dei segni distintivi prevista dal codice della proprietà industriale e quella prevista dal codice civile in tema di concorrenza sleale, la medesima condotta può integrare sia la contraffazione della privativa industriale sia la concorrenza sleale per l’uso confusorio di segni distintivi solo se la condotta contraffattoria integri anche una delle fattispecie rilevanti ai sensi dell'art. 2598 c.c.
Va esclusa la concorrenza sleale se il titolare della privativa industriale si sia limitato a dedurre la sua contraffazione, se le due condotte consistano nel medesimo addebito integrante la violazione del segno. In buona sostanza, dall’illecito contraffattorio non discende automaticamente la concorrenza sleale, che – dunque – deve constare di un quid pluris rispetto alla pura violazione del segno, cioè di una modalità ulteriore afferente il fatto illecito.
È contrario alle regole della correttezza professionale assumere un impegno formale di non utilizzo di marchi nella propria attività commerciale al fine di chiudere un contenzioso e poi adottare, poco dopo, una condotta affatto contraria all’impegno assunto; l’idoneità a danneggiare l’altrui azienda ben può essere solo potenziale.
Secondo la giurisprudenza comunitaria, il titolare del marchio può opporsi all'ulteriore commercializzazione dei prodotti, contraddistinti dal suo marchio, dopo la prima immissione in commercio, previo riconfezionamento degli stessi, quando non sussista un'esigenza, meritevole di tutela, di procedere a tale riconfezionamento.
[Nel caso di specie, la circostanza che alcuni esemplari dei prodotti contestati, cioè dei prodotti acquistati all'estero, riconfezionati e importati in Italia, siano stati commercializzati al dettaglio in Milano, pur in assenza di un rapporto diretto tra il rivenditore al dettaglio e le società importatrici e distributrici, consente di attribuire la competenza all'Autorità Giudiziaria di Milano anche nei confronti delle società importatrici e distributrici, non essendovi dubbio che anche la mera commercializzazione del prodotto, in asserita violazione dei diritti sul marchio registrato, costituisca un segmento della condotta lesiva del diritto del titolare del marchio di cui alla norma sopra citata.]
In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell'illecito è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. Legittimato all'ordinaria azione di concorrenza sleale è unicamente l'imprenditore concorrente e, nel caso in cui gli atti di concorrenza sleale vengano compiuti in danno di una società, soltanto questa, in persona dell'organo che la rappresenta, è la parte legittimata all'esercizio della relativa azione.
I soci di una società di capitali non hanno titolo per avanzare pretese risarcitorie nei confronti del terzo che con il suo comportamento illecito abbia danneggiato la società, con conseguente depauperamento del patrimonio personale degli stessi soci, per la perdita del capitale investito nella società e della possibilità di incassare utili di gestione, attesa l' autonomia patrimoniale inerente alla personalità giuridica della società dalla quale derivano l'esclusiva imputazione alla società stessa dell'attività svolta in suo nome e delle relative conseguenze patrimoniali passive. Gli effetti negativi sull'interesse economico del socio (riduzione del valore della quota e compromissione della redditività dell'investimento) costituiscono mero riflesso del pregiudizio patito dalla società, e non conseguenza diretta ed immediata dell'illecito, considerando inoltre che il riconoscimento di un autonomo diritto al risarcimento in capo ai singoli soci potrebbe determinare una duplicazione del ristoro inerente ad un unico danno. Il socio è legittimato a domandare il ristoro del pregiudizio da lui subito ove non risarcibile alla società perché riguardante la sfera personale (diritto all'onore od alla reputazione) o la perdita di opportunità personali, economiche e lavorative dello stesso socio o la riduzione del cd. merito creditizio di quest'ultimo.
Il rischio di confusione, va valutato tenendo conto dell'impressione complessiva prodotta in considerazione, in particolare, degli elementi distintivi e dominanti presenti nei segni in comparazione, segni caratterizzati dalla elevata somiglianza differenziandosi solo per elementi di scarsissimo rilievo e non distintivi. La valutazione va condotta in riferimento all’impressione di insieme che prescinde dalla possibilità di un attento esame comparativo e sincronico.
Rileva inoltre nella valutazione globale di cui trattasi l'interdipendenza tra i cd fattori rilevanti ed in particolare tra segno e prodotto nel senso che, rileva oltre che la somiglianza tra i marchi, anche la somiglianza tra i prodotti cosicché, un tenue grado di somiglianza tra i segni può essere compensato da un rilevante grado di somiglianza tra i prodotti, in modo da concludere per la sussistenza del pericolo confusorio.
[Nel caso in esame alla elevata somiglianza dei segni si accompagna addirittura la identità, in parte qua, della tipologia dei prodotti venduti nel negozio contraddistinto dalla insegna, con quelli tutelati , dal marchio italiano e dal marchio europeo registrazione n. 001978105.]
L’imitazione servile è sanzionata dall’art. 2598 n.1 c.c. solo in quanto idonea a creare confusione con i prodotti del concorrente, cioè tale da indurre il potenziale acquirente a ritenere che l’oggetto imitato è proprio quello del produttore che subisce l’imitazione. Inoltre, poiché l’imitazione servile viene ricondotta all’ambito della concorrenza confusoria e quindi al tema dei segni distintivi (nel caso di specie costituiti dalla forma esteriore del prodotto), la tutela della forma è subordinata alle condizioni generali di tutelabilità dei segni distintivi. Ne consegue che chi assume la commissione dell’illecito in questione ed invoca la tutela contro l’imitazione deve allegare e provare la capacità distintiva della forma imitata, intesa soprattutto quale percezione del segno da parte del pubblico come segno distintivo.
Il principio secondo il quale la concorrenza sleale deve ritenersi fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato della concorrenza, non configurabile, quindi, qualora non sussista il cosiddetto “rapporto di concorrenzialità”, non esclude la sussistenza di un atto di concorrenza sleale anche nel caso in cui tale atto sia posto in essere da colui il quale si trovi con il soggetto avvantaggiato in una particolare relazione, in grado di far ritenere che l'attività sia stata oggettivamente svolta nell'interesse di quest'ultimo. La giurisprudenza ha ammesso l'ipotesi in cui gli illeciti anticoncorrenziali siano compiuti da un terzo c.d. “interposto”, il quale agisca per conto, o comunque in collegamento con un imprenditore che ne trae vantaggio, concorrente di quello danneggiato, concludendone che entrambi rispondono in via solidale a titolo di concorrenza sleale. Ai fini della configurabilità della fattispecie di concorrenza sleale per interposta persona ex art. 2598 c.c., non si richiede un vero e proprio pactum sceleris tra l'imprenditore concorrente e il terzo, ma è necessaria (e sufficiente) una relazione di interessi tra tali soggetti tale da far ritenere che il terzo, con la propria attività, abbia inteso realizzare proprio quegli interessi al cui soddisfacimento i rapporti erano funzionali, non essendo sufficiente la mera corrispondenza del fatto illecito di quest'ultimo all'interesse dell'imprenditore. In assenza di riferibilità, anche indiretta, della condotta del terzo all'imprenditor e viene meno proprio il presupposto (il rapporto di concorrenza tra le parti) della fattispecie costitutiva degli atti di concorrenza sleale.
La competenza dell’ufficio giudiziario si determina al momento della proposizione della domanda ai sensi dell’art. 5 c.p.c., senza che abbiano rilevanza rispetto ad essa i successivi mutamenti della legge o dello stato di fatto. Compete dunque alla Sezione Specializzata una domanda di accertamento di concorrenza sleale interferente, non avendo rilievo le successive deduzioni delle parti circa la configurazione della stessa.
In tema di concorrenza sleale, per poter ravvisare gli estremi della fattispecie dello storno di dipendenti di un’azienda non è sufficiente il mero trasferimento di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né la contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore altrui, ma tale condotta deve essere caratterizzata dall’"animus nocendi", il quale va desunto dall’obiettivo che l’imprenditore concorrente si proponga - attraverso il trasferimento dei dipendenti - di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando nel mercato l’effetto confusorio, o discreditante, o parassitario capace di attribuire ingiustamente, a chi lo cagiona, il frutto dell’investimento (ossia, l’avviamento) di chi lo subisce. Al fine di verificare la sussistenza del requisito dell’animus nocendi, si valuta non solo se lo storno sia stato realizzato in violazione delle regole della correttezza professionale, ma principalmente se le caratteristiche e le modalità del trasferimento evidenzino la finalità di danneggiare l’altrui azienda, in misura eccedente il normale pregiudizio che può derivare dalla perdita di prestatori di lavoro trasferiti ad altra impresa, non essendo sufficiente che l’atto in questione sia diretto a conquistare lo spazio di mercato del concorrente. A tal fine, per potersi configurare un’attività di storno di dipendenti, alla luce del requisito dell’animus nocendi, assumono rilievo i seguenti elementi: a) la quantità e la qualità dei dipendenti stornati; b) il loro grado di fungibilità; c) la posizione che i dipendenti rivestivano all’interno dell’azienda concorrente; d) la tempistica dello sviamento; e d) la portata dell’organizzazione complessiva dell’impresa concorrente.