La giusta causa di revoca dell'amministratore di società di persone sussiste nel caso di situazioni sopravvenute (provocate o meno dall'amministratore stesso) che minino il pactum fiduciae, elidendo l'affidamento inizialmente riposto sull'idoneità dell'organo di gestione o nel caso di violazioni di obblighi di lealtà, correttezza e di diligenza da parte dell'amministratore, che incidano negativamente sul carattere fiduciario del rapporto o rendano impossibile l'assolvimento del mandato, anche se in considerazione di circostanze obiettive ed estranee alla persona del revocato. Ad ogni modo, non deve necessariamente trattarsi di un grave inadempimento, fermo restando l’esigenza di situazioni sopravvenute che minino irrimediabilmente il rapporto fiduciario che deve intercorrere tra amministratore e società amministrata, non consentendone neppure in via provvisoria l’esecuzione. Nel rifiuto del socio di prestare consenso alla modifica dell'atto costitutivo non può ravvisarsi un grave inadempimento degli obblighi sociali che legittimi l'esclusione del socio.
Nella locuzione di “amministratore nominato con contratto sociale” di cui all’art. 2259 c.c. può farsi rientrare anche il socio amministratore nominato con l’atto, pur successivo a quello di originaria costituzione della società, con cui egli è entrato a far parte della compagine sociale. Anche in tale caso, infatti, tale atto realizza nei confronti del nuovo socio amministratore un contratto sociale, necessitando l’integrazione della compagine sociale dell’accettazione da parte di tutti i soci.
La revoca della facoltà di amministrare non risulta assimilabile alla nozione di sopravvenuta inidoneità a svolgere l’opera conferita ex art. 2286, 2 comma c.c.. La revoca dell’amministratore e l’esclusione del socio costituiscono situazioni distinte, legate a presupposti non necessariamente coincidenti. Quanto all’ipotesi di esclusione del socio per sopravvenuta inidoneità a svolgere l’opera conferita, essa necessita la ricorrenza di cause oggettive che precludano in modo definitivo la prestazione d’opera.
L’esclusione del socio è possibile solo in caso di renitenza al versamento della quota di capitale da lui dovuta e all’esito del relativo procedimento (articolo 2466 c.c.), ovvero quando l’atto costitutivo lo consenta, ma in quest’ultimo caso, data la necessità di permettere ai soci di evitare la “sanzione” conoscendo preventivamente le condotte che potrebbero darvi causa, si richiede la previa individuazione delle ipotesi che potrebbero integrare una giusta causa di cessazione del vincolo sociale. La clausola statutaria che disciplina l’esclusione del socio, proprio per questa esigenza di consentire la verifica puntuale della ricorrenza della causa di esclusione nel caso concreto, deve quindi descrivere specificamente, a pena di nullità per indeterminatezza, la condotta suscettibile di integrarla.
Il legislatore ha lasciato all’autonomia contrattuale la regolamentazione della ripartizione interna delle obbligazioni già contratte dalla società al momento della cessione, ma non ancora estinte, in coerenza con la natura giuridica di bene complesso della quota sociale. Ne consegue che al fine di valutare l'incidenza delle obbligazioni di pagamento contratte dalla società prima della cessione, nei rapporti interni tra cedente e cessionario, ciò che rileva è il contratto di cessione della quota, da interpretarsi secondo i canoni dettati dagli artt. 1362 ss. c.c. L'individuazione della parte tenuta al pagamento delle obbligazioni societarie precedenti e non estinte è un problema di ermeneutica contrattuale, inconferenti essendo, a tale riguardo, le previsioni degli artt. 2269 e 2290 c.c., che attengono alla responsabilità verso i creditori sociali, e dell’art. 2289 c.c., che regolamenta i rapporti tra società e socio uscente.
Il principio della responsabilità solidale illimitata dei soci di società di persone per le obbligazioni sociali, desumibile dall'art. 2291 c.c., non si applica nei rapporti tra i soci medesimi, a prescindere dal titolo dell'azione intrapresa contro la società, perché da ritenersi dettato ed operante esclusivamente a tutela degli interessi dei terzi estranei a quest'ultima, avendo così l'ordinamento inteso favorire ed agevolare l'attività di enti, quali le società di persone o le associazioni non riconosciute, dotati di mera soggettività giuridica e di un fondo comune, ma sprovvisti del riconoscimento della personalità giuridica perfetta, prevedendo che, nei confronti dei terzi, per le obbligazioni ad essi imputabili rispondano solidalmente ed illimitatamente tutti i soci o gli associati (o alcuni di loro), sul cui patrimonio personale, pertanto, oltre che sul predetto fondo comune, i primi possono fare affidamento.
Nella società in nome collettivo, così come in quella semplice, la responsabilità solidale e illimitata anche dei soci per le obbligazioni sociali è posta a tutela dei creditori della società e non di quest'ultima, sicché solo i creditori possono agire nei confronti dei soci per il pagamento dei debiti sociali e non anche la società, la quale a tale scopo non può nemmeno invocare la previsione dell'art. 1203, n. 3, cod. civ., in tema di surrogazione, applicabile solo nell'ipotesi di pagamento di un debito altrui.
In presenza di un dissidio sostanziale tra soci di una società di persone sulla sussistenza della causa di scioglimento, il ricorso per la nomina di liquidatore ex art. 2275 c.c. non è ammissibile.
Non rilevano ai fini dell’affermazione della sussistenza di una causa di scioglimento la mera difficoltà economica della società né la presenza di addebiti gestori in quanto non costituiscono di per sé una causa di scioglimento, che richiede l'impossibilità assoluta e obiettiva di conseguire l'oggetto sociale.
Gli eredi del socio accomandatario defunto di una s.a.s. hanno la qualifica di creditori della società e sono, pertanto, legittimati, in via surrogatoria ex art ex art. 2900 c.c., ad agire in sede cautelare ex art. 700 c.p.c. a tutela del patrimonio sociale per chiedere la revoca del liquidatore negligente ed eventualmente esperire azione risarcitoria sociale verso lo stesso nel caso in cui, ai sensi dell’art. 2275 c.c., ricorra una “giusta causa”, concesso espresso altresì dagli artt. 2259 c.c. (revoca di amministratore di società di persone) e 2383 comma tre c.c.. (revoca amministratore di società di capitali). Sul punto, deve ritenersi che la giusta causa per la revoca dell'amministratore, prevista dall'art. 2383, terzo comma, cod. civ., consista non solo in fatti integranti un significativo inadempimento degli obblighi derivanti dall'incarico, ma anche in fatti che minino il "pactum fiduciae", elidendo l'affidamento riposto al momento della nomina sulle attitudini e capacità dell'amministratore [nel caso di specie, il Tribunale ha ravvisato la sussistenza di una "giusta causa" di revoca nel comportamento del liquidatore che non abbia tempestivamente iscritto al Registro imprese la liquidazione della società per mancata ricostituzione della pluralità dei soci e non abbia svolto alcuna attività liquidatoria per un lungo lasso temporale].
Il curatore dell'eredità giacente di un socio unico di una società in liquidazione ha il potere di convocare l'assemblea e deliberare la nomina del liquidatore. Non può invece provvedervi il Tribunale che interviene solo in caso di inerzia o esito negativo dell'assemblea, secondo la procedura trifasica prevista dagli artt. 2484 e ss., procedura quindi che non trova applicazione nel caso di compagine societaria composta solo dal curatore dell'eredità giacente.
Non v’è incompatibilità fra accettazione con beneficio di inventario e subentro dell’erede nella qualità di socio illimitatamente responsabile in società di persone, e ciò sia nel caso in cui l’acquisto della qualità di socio sia intervenuto in forza di una clausola statutaria c.d. di continuazione automatica, sia nel caso in cui il subentro fosse stato convenuto tra gli eredi e i soci superstiti con un accordo ad hoc.
L’usufrutto della quota di una società di persone è ammissibile, poiché la quota può formare oggetto di diritti ai sensi dell’art. 810 cod. civ. e rientrare nel concetto di beni mobili immateriali ex art. 812, comma 3, cod. civ., ma la qualità di socio non viene però acquistata dall’usufruttuario ma permane in capo al nudo proprietario. L’assetto dei poteri, diritti e facoltà attribuibili al titolare di un diritto parziario quale l’usufruttuario non discende dalla qualificazione giuridica eventualmente utilizzata dalle parti per individuare il titolare del diritto costituito o trasferito, ma discende dalla tipologia di diritto sulla quota che è stato in concreto costituito o traferito; in altri termini, la volontà delle parti non può spingersi sino a modificare il contenuto del diritto reale di usufrutto in senso contrario a quanto voluto dal legislatore e a far acquisire la qualità di socio a colui che non può essere considerato tale per scelta dell’ordinamento.
Nelle società di persone l’incarico gestorio può essere affidato ad un soggetto non socio.
La mancata ricostituzione entro sei mesi della pluralità dei soci non determina affatto la cessazione o l’estinzione automatica della società di persone, ma soltanto che la stessa si scioglie ex lege ai sensi dell’art. 2272, n. 4, cod. civ. e entra automaticamente in stato di liquidazione; il socio rimasto, dopo aver lasciato trascorrere il semestre, potrebbe proseguire l’attività d’impresa utilizzando il complesso dei beni sociali senza dare inizio alla fase di liquidazione e pertanto la società potrebbe proseguire con un unico socio, sostanzialmente come una società unipersonale a tempo indeterminato assoggettata ad un particolare regime di responsabilità per le obbligazioni sociali, esposta al rischio di liquidazione derivanti da azioni esecutive promosse dal creditore particolare del socio superstite e di cancellazione d’ufficio da parte del registro delle imprese.
L’art. 3 d.p.r. 247/2004 non prevede affatto un’estinzione automatica della società di persone al verificarsi di una causa di scioglimento, ma soltanto che, laddove risulti una di tali cause, l’ufficio del registro delle imprese debba invitare gli amministratori a comunicare l’avvenuto scioglimento o a fornire elementi idonei a dimostrare la persistenza dell’attività sociale e che, decorso un termine di trenta (in caso di ricevimento dell’invito) o quarantacinque giorni (in caso di irreperibilità) senza che gli amministratori abbiano fornito riscontro, l’ufficio provveda a trasmettere gli atti al Presidente del Tribunale, il quale potrà nominare d’ufficio il liquidatore oppure – se non lo ritiene necessario – trasmettere direttamente gli atti al giudice del registro per l’adozione delle iniziative necessarie a disporre la cancellazione della società.
Il socio che richiede il pagamento della sua parte degli utili è tenuto a dimostrare l’avvenuta approvazione del rendiconto annuale da parte dei soci, in quanto presupposto indefettibile per la distribuzione degli utili.
L’art. 2395 cod. civ. si ritiene applicabile analogicamente anche alle società di persone così come il principio – affermato sulla base del dato testuale di tale disposizione, che peraltro risponde ai principi generali sul risarcimento del danno aquiliano – secondo cui l’azione individuale del socio non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’art. 2395 cod. civ. esige che il singolo socio sia stato danneggiato direttamente dagli atti colposi o dolosi dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società.
L’applicazione analogica dell’art. 2395 cod. civ. anche alle società di persone si giustifica sulla base del fatto che ancorché prive di personalità giuridica, dette società costituiscono comunque un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei singoli soci.
Nell’ambito delle azioni di risarcimento per danno da c.d. mancata distribuzione degli utili occorre distinguere: (i) l’ipotesi in cui il socio lamenti la mancata approvazione del rendiconto – unico adempimento necessario nelle società di persone, a differenza delle società di capitali ove invece è necessaria una delibera che ne autorizzi la distribuzione – nella quale si è al cospetto di un danno che può essere fatto valere ai sensi dell’art. 2395 cod. civ. e che può essere riconosciuto sempre a condizione che sia dimostrata la presenza di utili distribuibili; (ii) l’ipotesi in cui il socio faccia valere in giudizio la mancata percezione degli utili come derivante da diversi comportamenti di gestione tenuti dall’amministratore, quali ad esempio atti distrattivi, nella quale si è al cospetto di un danno meramente indiretto non risarcibile ai sensi dell’art. 2395 cod. civ., posto che le condotte dell’amministratore ledono in via primaria il patrimonio sociale e solo di riflesso quello del socio.
L’azione di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, sulla legge o su clausole generali, si rilevi carente ab origine del titolo giustificativo, mentre resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.
Le «gravi inadempienze» di cui agli artt. 2286 e 2287 c.c. hanno carattere speciale e sostitutivo del rimedio della risoluzione per inadempimento prevista dagli artt. 1453 ss. c.c., inapplicabile al contratto di società per essere quest'ultimo caratterizzato non già dalla corrispettività delle prestazioni dei soci, bensì dalla comunione di scopo. Da ciò discende che il parametro della gravità cui si riferisce l'art. 2286 c.c. debba essere inteso nella medesima prospettiva che emerge dall'articolo 1455 c.c. e debba essere cioè commisurato all'interesse della società, valutando in altri termini la gravità dell'inadempimento in relazione al pregiudizio per il fine sociale, di modo che l'inadempienza deve essere considerata grave, così da giustificare l'esclusione del socio, non soltanto quando sia tale da impedire del tutto il raggiungimento dell'oggetto sociale, ma anche quando si sia limitata ad incidere negativamente sulla situazione della società, tanto da rendere meno agevole il conseguimento dello scopo sociale.
Si deve pertanto trattare di addebiti che configurano inadempimenti agli obblighi gravanti sul socio in ragione del rapporto sociale e che sono suscettibili di produrre effetti pregiudizievoli nei confronti della società, con la conseguenza che gli addebiti che non incidono sul rapporto societario oggetto della delibera di esclusione, ma su altre società di famiglia riconducibili alla medesima compagine sociale, non giustificano l’esclusione del socio da una società estranea alle condotte oggetto di addebito.
Pur essendo la società l’unica legittimata passiva rispetto alla azione di impugnazione della delibera di esclusione del socio, non è ravvisabile carenza di legittimazione passiva processuale e sostanziale dei singoli soci convenuti ove l’attore abbia introdotto anche domande di condanna della società e dei soci, quali obbligati in solido ex art 2291 c.c., al risarcimento dei danni conseguenti ai fatti che avrebbero giustificato il recesso dalla società e al pagamento del valore di liquidazione della sua partecipazione sociale; rispetto a queste domande (pagamento del valore di liquidazione della quota e risarcimento danni) legittimata passiva è la società ma non può escludersi anche la legittimazione passiva dei soci superstiti al fine di far valere la loro responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali.
Nel concorso tra le due cause di scioglimento del rapporto associativo [nel caso di specie, esclusione e recesso] vi è concorde volontà tra tutti i soci parti del contratto sociale sullo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al singolo socio uscente; ciò comporta il venire meno di un interesse giuridico attuale all’opposizione con l’assorbimento di ogni questione sulla regolarità formale della decisione dei soci di esclusione.
La nomina del liquidatore spetta ai soci, potendo provvedervi ex lege il presidente del tribunale, o il tribunale in composizione collegiale in caso di società di capitali, quando i soci non siano in grado di raggiungere le maggioranze richieste per detta nomina. È possibile procedere alla nomina anche quando, pur non essendo stato il ricorso preceduto dalla convocazione dell'assemblea o dalla consultazione dei soci, possa comunque presumersi che i soci non siano in grado di addivenire a detta nomina con le richieste maggioranze.
La ratio sottesa alla clausola dei patti sociali che disponga l’esclusione nei confronti del socio la cui quota di partecipazione sia stata pignorata va ravvisata nella volontà dei soci di tenere la società immune dal rischio che il creditore personale del socio possa aggredire la singola quota, il che nelle società di persone comporterebbe l'inserimento nella compagine sociale di un nuovo soggetto prescindendo dalla volontà degli altri soci, rischio che si verificherebbe anche nell’ipotesi di pignoramento parziale della quota di partecipazione.
Nell'ambito di un giudizio cautelare di opposizione all'esclusione del socio di cui all'art. 2287 c.c., l'ordinanza di rigetto dell'istanza cautelare non preclude la riproposizione dell'istanza se si verificano, anche alternativamente, mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o diritto. Non risulta infatti inammissibile per violazione dell'art. 669 septies c.p.c. la nuova istanza che si fondi su mutamenti dei profili strettamente fattuali o giuridici.