Dopo il fallimento della società debitrice l'azione di cui all’art. 2394 c.c. è esperibile in via esclusiva dal curatore del fallimento della stessa, con la legittimazione del quale non può concorrere quella dei creditori sociali per l’azione di loro spettanza, essendo quest’ultima assorbita, in costanza della procedura fallimentare, dall’azione di massa e non potendo, quindi, finché dura il fallimento, ad essa sopravvivere, ancorché il curatore rimanga inerte. Rimane in capo al singolo creditore della società fallita la diversa azione individuale del terzo di cui all’art. 2395 c.c., che presuppone un “danno diretto” al patrimonio del terzo-creditore, derivante dall’azione dolosa o colposa degli amministratori della fallita.
Il mutamento dell’oggetto sociale idoneo a legittimare il recesso del socio può verificarsi in via di fatto se in concomitanza con atti gestori che, pur non incidendo sul dato formale relativo all’oggetto sociale determinato dallo statuto, ne comportano una modifica sostanziale, tale da legittimare l’esercizio del diritto di recesso da parte del socio dissenziente. Il cambiamento rilevante dell’oggetto sociale che comporti una modificazione radicale dell’attività tale da rendere l’oggetto dell’impresa effettivamente diverso da quello precedente è quello in cui la mutatio si traduca in un’attività sensibilmente difforme da quella precedentemente esercitata [nel caso di specie, una holding avente come oggetto sociale l’assunzione di partecipazioni in altre società, e il compimento di operazioni immobiliari solo in via strumentale e comunque non prevalente, aveva ceduto l’unico asset, costituito dalla totalità del capitale sociale di s.p.a., conservando solo i beni immobili di proprietà di quest’ultima].
L’azione individuale di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2476 c.c. non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale [nel caso di specie, il danno oggetto di domanda risarcitoria sarebbe derivato dalla cessione delle quote della società partecipata a condizioni che, ad opinione dell’attrice, sarebbero state ingiustificatamente peggiori rispetto a quelle offerte da precedenti potenziali acquirenti].
La responsabilità degli amministratori verso la società è di natura contrattuale e trova la sua fonte tanto nella violazione degli obblighi che hanno un contenuto specifico e già determinato dalla legge o dall’atto costitutivo, quanto nella violazione di obblighi definiti attraverso il ricorso a clausole generali, quali l’obbligo di amministrare la società e perseguirne l’oggetto sociale con la diligenza professionale esigibile ex art. 1176, co. 2, c.c., nonché quello di amministrare senza conflitto di interessi. Altra e distinta forma di responsabilità è quella degli amministratori verso i creditori della società come conseguenza dell’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, la cui natura extracontrattuale presuppone l’assenza di un preesistente vincolo obbligatorio tra le parti ed un comportamento dell’amministratore funzionale ad una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da renderlo inidoneo per difetto ad assolvere la sua funzione di garanzia generica, con conseguente diritto del creditore di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di adempiere. L’azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l.fall. compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c. ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, patrimonio visto unitariamente come garanzia sia per i soci sia per i creditori sociali. Dal carattere unitario dell’azione ex art. 146 l.fall. discende che il curatore, potendosi avvalere delle agevolazioni probatorie proprie delle azioni contrattuali, ha esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombendo per converso sui convenuti l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
Il thema probandum, nell’ambito dell’azione in questione, si articola pertanto nell’accertamento di tre elementi: l’inadempimento di uno o più degli obblighi di cui sopra, il danno subito dalla società e il nesso causale, mentre il danno risarcibile sarà quello causalmente riconducibile, in via immediata e diretta, alla condotta (dolosa o colposa) dell’agente sotto il duplice profilo del danno emergente e del lucro cessante, dunque commisurato in concreto al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, positivo o omissivo, non fosse stato posto in essere. Ad ogni modo, nell’accertamento della responsabilità degli amministratori deve tenersi conto del principio della insindacabilità nel merito delle scelte di gestione, in quanto il giudice non può apprezzare il merito dei singoli atti di gestione, valutandone, così, l’opportunità e la convenienza: ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice, dunque, non può essere l’atto in sé considerato e il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì, esclusivamente, le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi agli amministratori. Pertanto, alla luce del principio di insindacabilità del merito gestorio, non ogni atto dannoso per il patrimonio sociale è idoneo a fondare la responsabilità dell’amministratore che lo abbia compiuto; al contempo, non tutte le violazioni di obblighi derivanti dalla carica comportano necessariamente una lesione del patrimonio sociale e, dunque, l’individuazione di un danno risarcibile. Infatti, non tutti i comportamenti illeciti degli amministratori danno luogo infatti a responsabilità risarcitoria, ma solo quelli che abbiano causato un danno al patrimonio sociale rendendolo incapiente, danno che deve essere legato da un nesso eziologico ai suddetti illeciti.
La figura dell'amministratore di fatto ricorre nelle fattispecie nelle quali un soggetto non formalmente investito della carica si ingerisce egualmente nell'amministrazione, esercitando (di fatto) i poteri propri inerenti alla gestione della società. Rilevano, in particolare, 1) l'assenza di una efficace investitura assembleare; 2) una attività gestoria esercitata non occasionalmente ma continuativamente; 3) l'esercizio di funzioni riservate alla competenza degli amministratori di diritto; 4)una autonomia decisionale – non necessariamente surrogatoria, ma almeno cooperativa e non subordinata – rispetto agli amministratori di diritto. Pertanto, si considera amministratore di fatto chi, senza valido titolo, gestisce, da solo o anche con l'amministratore formale, la società, esercitando un potere di fatto corrispondente a quello degli amministratori di diritto (sempre che le funzioni gestorie svolte in via di fatto abbiano carattere sistematico e non si esauriscano, quindi, nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea ed occasionale).
L'azione di responsabilità esercitata dai creditori sociali nei confronti degli amministratori, ai sensi dell'art. 2394 c.c., è soggetta a prescrizione quinquennale anche quando è promossa dal curatore fallimentare ai sensi dell'art. 146 l.fall. Il termine di prescrizione decorre dal momento dell'oggettiva percettibilità (da parte dei creditori) dell'insufficienza dell'attivo a soddisfare i rispettivi crediti.
Stante l'onerosità della prova gravante sul curatore che eserciti tale azione, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento. Ricade sull'amministratore convenuto la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza.
Il mero richiamo ai capi di imputazione elaborati nell’ambito del processo penale per bancarotta fraudolenta conclusosi con la condanna dei convenuti in applicazione della pena su richiesta della parte ai sensi dell’art. 444 c.p.p. non è sufficiente ai fini dell’espletamento dell’onere probatorio posto in capo alla curatela attrice nel giudizio di responsabilità dell’amministratore di fatto e del socio “gestore” di s.r.l. per i danni cagionati alla società e ai creditori. Infatti, poiché la sentenza penale emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. e divenuta irrevocabile è solo equiparata ad una pronuncia di condanna e, ai sensi dell'art. 445, co. 1-bis, c.p.p., non ha efficacia in sede civile o amministrativa, le risultanze del procedimento penale non sono vincolanti, ma possono essere liberamente apprezzate dal giudice civile ai fini degli accertamenti di sua competenza.
L’amministratore di società, con l’accettazione della carica, di regola acquisisce il diritto a essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli. Tale diritto è comunque disponibile e può anche essere derogato da una clausola dello statuto della società, che condizioni lo stesso al conseguimento di utili, o da cui risulti la gratuità dell’incarico, posto che il rapporto intercorrente tra la società di capitali ed il suo amministratore è di immedesimazione organica e ad esso non si applicano né l’art. 36 cost., né l’art. 409, co. 1, n. 3, c.p.c. La gratuità dell’incarico discendente dallo statuto non deve essere necessariamente espressa, ma va comunque desunta dalle clausole statutarie in modo univoco, non essendo a ciò sufficiente il mero silenzio.
L’art. 2385 c.c. prescrive che l’amministratore uscente debba comunicare per iscritto le proprie dimissioni al CdA e prevede che le dimissioni operino immediatamente solo se lasciano intatta la maggioranza del consiglio. La comunicazione scritta non è surrogabile, per la produzione dell’effetto, da notizia informale; è validamente sostituita solo da PEC, in ragione del regime speciale di questa. In seguito alle dimissioni, spetta agli amministratori adoperarsi perché vengano correttamente trasmesse le consegne; in particolare, è loro dovere segnalare affari pendenti e urgenze da coprire.
Il vizio di mancato invio dell’avviso di convocazione di un’assemblea rileva come causa di nullità della delibera ai sensi dell’art. 2479 ter, co. 3, c.c., ben potendosi assimilare l’ipotesi di carenza assoluta di informazione a quella (anche più grave) di carenza assoluta di convocazione.
È pacifico che in caso di impugnazione di delibera da parte di un socio che abbia dimostrato la sua mancata partecipazione all’assemblea, incombe sulla società convenuta l’onere di provare di avere inviato l’avviso di convocazione. Il socio attore in un giudizio contumaciale è sollevato dall’onere di provare il mancato invio dell’avviso di convocazione poiché, in forza dei principi del riparto dell’onere della prova in materia di responsabilità contrattuale e della prossimità alla fonte di prova, si deve considerare che l’obbligo di comunicare la convocazione è in capo alla società (art. 2479 bis, co. 1, c.c.), sicché, in un rapporto di natura contrattuale, quale quello tra socio e società, è sufficiente che il socio-creditore alleghi l’inadempimento perché sia la società-debitore a dover provare l’esatto adempimento.
Nel caso di impugnazione di deliberazione assembleare, legittimata passiva è solo ed esclusivamente la società, quale soggetto da cui promana la manifestazione di volontà impugnata.
Nel giudizio instaurato da un socio di s.r.l. al fine di ottenere la restituzione di un finanziamento effettuato a favore della società, grava in capo a quest'ultima l’onere della prova della necessaria postergazione del rimborso (e, cioè, della temporanea inesigibilità del credito del finanziamento-conferimento di fatto). Si tratta di eccezione propria in senso lato, rilevabile anche d’ufficio, ma a condizione che la situazione di crisi ex art. 2467 c.c. risulti provata ex actis secondo quanto dedotto e prodotto in giudizio e, cioè, sulla base dei fatti allegati (e comprovati) dall’eccipiente. E per radicare la fattispecie ex art. 2467, co. 2, c.c., si deve fare riferimento non solo all’eventuale squilibrio sussistente al momento del finanziamento, ma anche alla circostanza che esso perduri e sia presente al momento della richiesta di rimborso e, in caso di controversia giudiziaria, della sentenza.
Il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di imprese, nel caso in cui entrambe le sezioni facciano parte del medesimo ufficio giudiziario, non attiene alla competenza, ma rientra nella mera ripartizione degli affari interni dell’ufficio giudiziario.
Le condotte distrattive aventi a oggetto disponibilità liquide della società e beni aziendali poste in essere dal socio costituiscono certamente una fonte di danno per la società, danno del quale non può che essere chiamato a rispondere (anche) l’amministratore di diritto il quale – consentendo al socio la gestione dei rapporti con i clienti senza alcuna formalizzazione, omettendo qualsivoglia controllo o contestazione sul suo operato e anzi agendo nei confronti dei debitori contestando la legittimazione dello stesso a ricevere i pagamenti, senza invece intraprendere alcuna iniziativa nei suoi confronti – con la sua condotta inerte ha violato gli obblighi di diligenza connessi alla carica.