L’azione sociale di responsabilità ha pacificamente natura contrattuale e dunque, quanto al riparto dell’onere della prova, il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’inadempimento; spetta quindi all’attore allegare l’inadempimento, ovvero indicare il singolo atto gestorio che si pone in violazione dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto, e il danno derivante da tale inadempimento, mentre è onere dell’amministratore contrastare lo specifico addebito, fornendo la prova dell’esatto adempimento.
La natura di immedesimazione che caratterizza il rapporto tra amministratore della società e quest’ultima è tale che il primo non possa ritenersi slegato dai vincoli rappresentati dal rispetto delle norme che disciplinano la convivenza dei soci all’interno della società e che regolamenta, altresì, l’operato ed i limiti di operatività dei singoli amministratori, atteso che lo stesso, con l’accettazione dell’incarico, ha manifestato la propria volontà di aderire anche alle clausole dello statuto sociale che regolano le condizioni di nomina e permanenza degli organi societari.
La decisione di alcuni amministratori di rassegnare le dimissioni non può essere ritenuta lesiva di altrui posizioni considerato che l’effetto prodotto dalle dimissioni di alcuni amministratori, essendo quello di sostituzione dell’intero organo amministrativo per effetto della clausola simul stabunt simul cadent, comporta che la scelta dei componenti dell’organo gestorio, nell’esclusivo interesse della società, venga demandata all’Assemblea dei soci ai sensi di legge e di statuto.
Incombe sull’attore che lamenta la sussistenza di una revoca illegittima a suo pregiudizio la prova del collegamento oggettivo e soggettivo tra le dimissioni dei consiglieri che hanno perfezionato la fattispecie statutaria della decadenza e la successiva immediata nomina di un nuovo consiglio composto da tutti gli altri precedenti componenti, nonché la prova della sua esclusiva finalizzazione all’estromissione dell’attore dal collegio degli amministratori e quindi all’ottenimento in via indiretta del risultato di revocarlo in assenza di giusta causa.
Qualora un amministratore di s.r.l. decaduto per via dell’operatività dell’art. 2386 c.c. agisca in giudizio per chiedere il risarcimento del danno agli altri amministratori, graverà su di esso l’onere della prova in ordine alla abusività della condotta altrui, non essendo sufficiente a tal fine dimostrare l’assenza di propri comportamenti negligenti o comunque l’assenza di situazioni integranti giusta causa di revoca.
La ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate e le sezioni ordinarie del medesimo tribunale non implica l'insorgenza di una questione di competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio.
Le norme sull’esclusione del socio “per gravi inadempienze” hanno carattere speciale e sostituiscono quelle generali sulla risoluzione per inadempimento dei contratti con prestazioni corrispettive, di cui agli artt. 1453 e segg. c.c., le quali non sono applicabili al contratto di società sia per la mancanza di interessi contrapposti tra il socio e l’ente sociale, sia per le diverse finalità cui esse sono preposte. La risoluzione mette nel nulla il rapporto contrattuale nei confronti della parte inadempiente, con gli effetti restitutori di cui all’art. 1458 c.c., e, nel caso le parti in contratto siano soltanto due, elimina del tutto il rapporto con i reciproci obblighi restitutori delle parti di cui alla citata disposizione di legge. L’esclusione del socio comporta, invece, soltanto lo scioglimento del vincolo sociale limitatamente al socio inadempiente, con il diritto di quest’ultimo esclusivamente ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota, ma non anche, di per sé, lo scioglimento della società, neppure nel caso in cui i soci siano soltanto due, perché, in tale ipotesi, la società si scioglie solo se, nel termine di sei mesi, non venga ripristinata la pluralità di soci.
Per quanto riguarda l’ipotesi prevista al 1° co. dell’art. 2533 c.c., il carattere della gravità, in base alla disciplina generale, deve essere vagliato in relazione al peculiare interesse del creditore, quindi al mancato – o particolarmente difficoltoso – raggiungimento dello scopo sociale, trattandosi di condotte che possano avere inciso negativamente sulla situazione economica dell’ente, rendendone meno agevole il perseguimento dei fini.
Quanto al riparto dell’onus probandi (ex art. 2697 c.c.), nel giudizio di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio di una società cooperativa, incombe su quest'ultima l’onere di provare i fatti posti a base della determina impugnata: la veste processuale di convenuta è infatti puramente formale, non diversamente che in qualsiasi altro giudizio a struttura oppositiva o impugnativa di un provvedimento giudiziale, ovviamente nel solco di quelle che sono le argomentazioni e le eccezioni formulate dal socio (o dai soci, nella specie) opponente.
La costituzione in pegno delle quote di società a responsabilità limitata è soggetta al disposto della norma dell’art. 2806 c.c., sicché il diritto di pegno risulta costituito con l’iscrizione del relativo atto nel registro delle imprese. Secondo l’impianto codicistico della disciplina del pegno, infatti, di cui agli articoli 2784 e seguenti, le partecipazioni di s.r.l. rientrerebbero nella normativa sui diritti diversi dai crediti di cui all’articolo 2806. Ai sensi di tale norma, il pegno di diritti diversi dai crediti si costituisce nella forma rispettivamente richiesta per il trasferimento dei diritti stessi, fermo restando il disposto del terzo comma dell’articolo 2787. Il trasferimento della partecipazione nel caso di s.r.l. è regolato dall’articolo 2470 del codice civile secondo cui il trasferimento delle partecipazioni ha effetto di fronte alla società dal momento del deposito di cui al successivo comma. L’atto di trasferimento, con sottoscrizione autenticata, deve essere depositato entro 30 giorni, a cura del notaio autenticante, presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale. Il diritto di pegno su quote, pertanto, si costituisce soltanto con l’iscrizione dell’atto costitutivo presso il registro delle imprese. Da tale momento l’atto costitutivo esprime la sua efficacia rendendo il diritto di pegno opponibile a terzi.
L’art. 2378, co. 3 c.c., richiamato per le s.r.l. dall’ultimo comma dell’articolo 2479-ter c.c., prevede che, con ricorso depositato contestualmente al deposito della citazione avente ad oggetto l’impugnazione della delibera assembleare, l’impugnante possa richiedere la sospensione della delibera impugnata. A fronte di tale previsione, che contempla un apposito rimedio cautelare deputato alla sospensione della delibera contestuale alla proposizione del giudizio di impugnazione, deve essere esclusa, per difetto di residualità, l’ammissibilità di una istanza cautelare ex art 700 c.p.c. con cui venga richiesta in via cautelare - in difetto di instaurazione del giudizio di impugnazione della delibera - la mera sospensione dell’efficacia della delibera assembleare, senza che vi sia stata adeguata prospettazione delle ragioni di eccezionale urgenza che non consentirebbero di attendere l’instaurazione del giudizio di merito per proporre la richiesta di sospensiva.
Il sindacato giudiziale sulla condotta degli amministratori della società, quale fonte di responsabilità, non può avere ad oggetto il merito delle scelte imprenditoriali, non potendosi addebitare gli esiti economici negativi di dette scelte che dipendano dal rischio economico a cui è soggetta l’intrapresa, secondo il principio della business judgment rule. Tuttavia, la regola di insindacabilità in discussione trova precisi limiti che, se travalicati, impongono un giudizio di responsabilità gestoria in capo agli amministratori che la scelta abbiano effettuato, cagionando pregiudizio al patrimonio sociale. Un primo limite è costituito dalla possibilità di discutere la scelta di gestione, valutando ex ante, ovvero al momento della scelta imprenditoriale, il grado di diligenza mostrata dall’amministratore. Si tratta di una verifica sul percorso decisionale dell’amministratore, finalizzata ad accertare se siano state omesse le cautele, le verifiche e le informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo. Un secondo limite è quello che permette di contestare la razionalità della scelta, non essendo sufficiente che l’amministratore abbia assunto le necessarie informazioni ed abbia eseguito tutte le verifiche del caso, essendo pur sempre necessario che le informazioni e le verifiche così assunte abbiano indotto l’amministratore ad una decisione razionalmente inerente ad esse.
In tema di azione di responsabilità dei sindaci, il sindaco non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso che amministratori negligenti, pendente societate, abbiano posto in essere, ma solo ove sia possibile affermare che se, in adempimento dei suoi doveri, si fosse attivato utilmente in forza dei poteri di vigilanza, controllo e reazione che l'ordinamento gli conferisce ed alla diligenza che l'ordinamento pretende, il danno sarebbe stato evitato.
I doveri di controllo imposti ai sindaci sono certamente contraddistinti da una particolare ampiezza, poiché si estendono a tutta l'attività sociale, in funzione della tutela e dell'interesse dei soci e di quello, concorrente, dei creditori sociali. Di modo che ad affermarne la responsabilità può ben esser sufficiente l'inosservanza del dovere di vigilanza. Questo accade, in particolare, quando i sindaci non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, poiché in tal caso il mantenimento di un comportamento inerte implica che non si sia vigilato adeguatamente sulla condotta degli amministratori (o dei liquidatori) pur nella esigibilità di un diligente sforzo per verificare la situazione anomala e porvi rimedio, col fine di prevenire eventuali danni.
L'essere stato designato alla carica solo dopo la commissione dell'illecito non è, di per sé, circostanza sufficiente ad esimere il sindaco da responsabilità, in quanto l'accettazione della carica comporta comunque l'assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo; né la responsabilità per il ritardo nell'adozione delle misure necessarie viene meno per il fatto imputabile al precedente amministratore, una volta che, assunto l'incarico, fosse esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio.
Spetta all'attore allegare l'inerzia del sindaco e provare il fatto illecito gestorio, accanto all'esistenza di segnali d'allarme che avrebbero dovuto porre i sindaci sull'avviso; assolto tale onere, l'inerzia del sindaco integra di per sé la responsabilità, restando a carico del medesimo l'onere di provare di non aver avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami, indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale.
Il provvedimento di nomina di un amministratore giudiziario ai sensi dell’art. 2409 c.c. è suscettibile di avere un notevole impatto sulla gestione della società. Ogni considerazione sulla proporzionalità della misura deve tenere conto della possibilità di adottare misure alternative, che non sussiste in caso di ristretto numero di soci, di partecipazione paritaria al capitale sociale tra quelli aventi posizioni conflittuali e di assenza di figure interne dotate di sufficiente autorevolezza ed autonomia per svolgere compiti di amministrazione, nonché tenuto conto della tipologia di irregolarità riscontrate.
La mancanza di esperienza dell’amministratore giudiziario nel settore in cui opera la società può essere supplita con la nomina di un manager munito di adeguati poteri, che agisca sotto la supervisione dell’amministratore giudiziario.
In tema di società cooperative il recesso convenzionale, disciplinato dagli artt. 2518 e 2526 c.c., costituisce manifestazione della volontà negoziale, in quanto previsto dall’atto costitutivo, che può legittimamente disciplinarlo attraverso clausole che ne determinino il contenuto, ammettendo l’esercizio di tale facoltà in situazioni specifiche, ovvero limitandolo o subordinandolo alla sussistenza di determinati presupposti o condizioni, in particolare all’autorizzazione o all’approvazione del consiglio d’amministrazione o dell’assemblea dei soci. Tali clausole attribuiscono ai predetti organi un potere discrezionale, che non può tuttavia essere esercitato in modo arbitrario, nè tradursi in un rifiuto di provvedere o in un diniego assoluto ed immotivato dell’approvazione; il che, oltre a contrastare con i principi di correttezza e buona fede, che vanno rispettati anche nell’esecuzio del contratto sociale, comporterebbe una sostanziale vanificazione del diritto di recesso, il cui esercizio non può essere escluso o reso eccessivamente gravoso.
La violazione di tale diritto, per inosservanza dei predetti principi, rende applicabile l’art. 1359 c.c., in virtù del quale la condizione si considera avverata, qualora sia mancata per causa ascrivibile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento. La necessità dell’autorizzazione non comporta infatti la trasformazione della fattispecie in un accordo, nell’ambito del quale la determinazione della società venga ad assumere la funzione di accettazione della proposta del socio, configurandosi pur sempre il recesso come un negozio unilaterale, corrispondente al diritto potestativo di uscire dalla società o di rinunciare a conservare lo status derivante dal rapporto giuridico nel quale il socio è inserito (operando quale condizione di efficacia rispetto alla deliberazione del consiglio di amministrazione o dell’assemblea).
Nelle cooperative aventi come scopo la costruzione di alloggi e l’assegnazione degli stessi in godimento e, successivamente, in proprietà individuale ai soci, le anticipazioni e gli esborsi effettuati dal socio non a titolo di conferimento, ma per il conseguimento dei singoli beni o servizi prodotti dalla cooperativa, pongono il socio nella posizione di creditore verso la cooperativa, posizione che una volta avvenuto lo scioglimento del rapporto sociale si manifesta come diritto alla restituzione delle somme anticipate, sempre che la proprietà dell’alloggio non sia stata nel frattempo conseguita e lo scopo sociale non sia stato raggiunto. La cessazione del rapporto sociale, in conseguenza del recesso esercitato dal socio di una società cooperativa, comporta anche la cessazione del rapporto mutualistico, il quale tuttavia può cessare solo qualora la cooperativa abbia realizzato lo scopo mutualistico in favore di tutti i soci, in applicazione del principio di parità di trattamento.
L’improponibilità delle domande verso la liquidazione coatta amministrativa dell’impresa bancaria riguarda tutte le domande che sono funzionali all’accertamento di un credito verso l’impresa in liquidazione, anche ove dette domande siano di mero accertamento di detto credito e non di condanna, ovvero anche ove dette domande siano costitutive o di accertamento e vengano invocate quali presupposto dell’insorgenza di un credito risarcitorio o restitutorio da far valere verso la procedura, non potendosi derogare all’accertamento del credito e dei suoi presupposti secondo le regole del concorso. Tra le domande non funzionali all’accertamento dei crediti rientrano quelle volte ad accertare l’insussistenza di crediti vantati dall’impresa in bonis e proprie della procedura ove sarà ben possibile agire secondo le regole ordinarie, anche ove l’insussistenza del credito dipenda dalla nullità o inefficacia del contratto, sempre che dette pretese siano funzionali all’accertamento negativo del credito vantato dalla procedura medesima.
Sussiste collegamento negoziale tra la concessione di affidamenti e un programma negoziale di acquisti di azioni e obbligazioni emesse dalla banca quando vi è contiguità temporale e corrispondenza degli importi affidati per elasticità di cassa progressivamente estesi e dei corrispondenti acquisti azionari ed obbligazionari, in virtù dei finanziamenti concessi dalla stessa finanziante, tenuto conto che il saldo del conto corrente affidato, al momento degli addebiti non permetteva all’attrice, se non adeguatamente finanziata, di eseguire gli acquisiti in questione. Il risultato perseguito nel caso di acquisto di obbligazioni convertibili finanziato della banca medesima non è tanto quello formale di ottenere un aumento di capitale mediante la conversione delle obbligazioni, ma quello concreto di predisporre uno strumento (emissione di obbligazioni convertibili in azioni proprie) che è idoneo ad eludere la disciplina cogente dettata per assicurare l’effettività degli aumenti di capitale ed i limiti previsti in detta disciplina per preservare detta effettività. Consegue che la sottoscrizione da parte degli attori di obbligazioni convertibili in azioni mediante assistenza finanziaria, deve reputarsi negozio in frode alla legge con conseguente nullità dei negozi collegati. Consegue che i contratti collegati nell’operazione vietata, debbono considerarsi nulli per violazione della norma imperativa di cui all'articolo 2358 del codice civile.
Ove il collocamento di azioni avvenga nel mancato rispetto delle condizioni previste dall’art. 2358 cc e, quindi, in violazione del divieto di assistenza finanziaria, la sanzione comminabile sarà quella della nullità anche se posta in essere da una banca popolare in quanto con l’entrata in vigore del Testo Unico Bancario, giusta art. 161, è stato abrogato il D.Lgs. n. 105/1948 che, al suo art. 9, prevedeva la possibilità per la società di accordare anticipazioni ai soci sulle proprie azioni entro i limiti stabiliti caso per caso dall’organo cui per legge era demandata la vigilanza sulle aziende di credito, limiti che non potevano in ogni caso eccedere il 40 % delle riserve legali. Inoltre, il nuovo testo unico bancario, introdotto con il D.Lgs. n. 310/2004, al proprio art. 150 bis, indica espressamente quali norme del codice civile non si applicano alle banche popolari e tra queste non è inclusa la norma di cui all'art. 2358 del codice civile.