In tema di risanamento e risoluzione degli enti creditizi, la ratio della disciplina del d.lgs. 180/2015, di derivazione europea, è quella di creare una netta distinzione tra l’ente in risoluzione e l’ente ponte al fine di garantire, nell’interesse pubblico generale, la stabilità del sistema finanziario con la prosecuzione dell’attività bancaria, a tutela anche dei rapporti di clientela in essere con la banca in crisi e al fine di scongiurare riflessi negativi sul tessuto economico delle aree interessate che deriverebbero dalla liquidazione della banca in crisi.
Le decisioni della Corte di Giustizia sull’interpretazione dei trattati sono vincolanti non solo per il giudice del rinvio, ma spiegano efficacia anche al di fuori del giudizio principale, data la loro portata generale ed astratta con efficacia vincolante erga omnes a garanzia dell’uniforme interpretazione del diritto dell’Unione Europea in tutto l’ambito europeo. Inoltre, alle sentenze interpretative va attribuita efficacia retroattiva come conseguenza dell’effetto di incorporazione dell’interpretazione della Corte UE nel testo della disposizione interpretata.
Le norme della Direttiva 2014/59 devono essere interpretate nel senso che esse ostano a che, successivamente alla svalutazione totale delle azioni del capitale sociale di un ente creditizio o di un’impresa di investimento sottoposti a una procedura di risoluzione, le persone che hanno acquistato delle azioni, nell’ambito di un’offerta pubblica di sottoscrizione emessa da tale ente prima dell’avvio di detta procedura di risoluzione, propongano, nei confronti dell’ente creditizio o dell’impresa in parola, ovvero contro l’entità succeduta a tali soggetti, un’azione di responsabilità a causa delle informazioni fornite nel prospetto oppure un’azione di nullità del contratto di sottoscrizione di tali azioni, la quale, in considerazione del suo effetto retroattivo, porti alla restituzione del controvalore dei titoli azionari suddetti, maggiorato di interessi a decorrere dalla data di conclusione di tale contratto.
Il d.lgs. 180/2015 non preclude in assoluto ogni facoltà di agire per il risarcimento del danno ex art 94 TUF, ma solo la facoltà di agire verso il nuovo soggetto, l’ente ponte, nelle sole ipotesi in cui l’iniziativa non è stata assunta prima della cessione ex d.lgs. 180/2015, restando immutata la facoltà di agire verso gli altri possibili co-responsabili (quali l’offerente, l’eventuale garante, le persone responsabili delle informazioni contenute nel prospetto, l’intermediario finanziario).
Il divieto ex art. 2265 c.c. assume rilevanza anche nel settore delle società di capitali ed anche in relazione a patti tra soci estranei allo statuto sociale, tale divieto riguardando le condizioni essenziali del tipo contratto di società nel quale la legge ha imposto non solo la costituzione di un patrimonio sociale ma anche la formazione ad opera di tutti i soci, in modo che tutti i membri della compagine siano partecipi del rischio di impresa al fine di garantire, nell’interesse generale, un esercizio avveduto e corretto dei relativi poteri.
La ratio del divieto di patto leonino risiede nel preservare la purezza della causa societatis. Una diversa regolamentazione, tale da escludere del tutto un socio dagli utili o dalle perdite, finirebbe per contrastare con il generale interesse alla corretta amministrazione delle società, inducendo il socio a disinteressarsi della proficua gestione (anche intesa con riguardo all’esercizio dei suoi diritti amministrativi) e non prodigarsi per l’impresa, quando non, addirittura, a compiere attività avventate o non corrette.
Nell’ipotesi di opzione put a prezzo preconcordato, occorre ricostruire la causa concreta del programma contrattuale, per valutare se esista, sia lecita e meritevole di tutela: onde il patto non potrà ricadere nel divieto ex art. 2265 c.c. e supererà positivamente il vaglio ex art. 1322 c.c., laddove l’esclusione dalle perdite non sia strutturalmente assoluta e costante, né ne integri la funzione essenziale, o causa concreta, con riguardo al complessivo regolamento negoziale.
Tra le società di persone (dove i soci sono illimitatamente responsabili) e le società di capitali (dove la responsabilità è limitata), cambia il concetto di perdita: nelle società di persone significa responsabilità illimitata per debiti che la società non riesce a pagare; nelle società di capitali la perdita, per il socio, non può che essere intesa se non nell’accezione di cui agli artt. 2446, 2447, 2482 bis, 2482 ter c.c., ossia perdite di esercizio capaci di intaccare il capitale sociale per oltre un terzo, o addirittura di farlo scendere sotto il minimo legale. Sono invece irrilevanti le perdite che non intaccano il capitale sociale e quelle che lo intaccano per meno di un terzo.
Ai fini della verifica della compatibilità di un accordo con il divieto di patto leonino, non deve confondersi il concetto di perdita con il valore della partecipazione (aspetto economico), né con il prezzo della cessione della partecipazione (aspetto giuridico). Non con il valore perché esso, anche nelle società chiuse, ha un rapporto con la rappresentazione contabile della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società del tutto mediato e non diretto (metodi di valutazione patrimoniali, reddituali e misti). Non con il prezzo perché l’oggetto della compravendita della partecipazione è la partecipazione stessa, rispetto alla quale il patrimonio sociale è oggetto mediato di cui è invece titolare la società. Pertanto, si ha esclusione dalle perdite del socio di società di capitali quando, per statuto o per patto parasociale, il socio è in grado, mantenendo la stessa partecipazione, di scaricare il relativo costo su altri soci.
La configurabilità della nullità della previsione che esclude in modo continuato ed assoluto uno dei soci dalla partecipazione alle perdite per violazione del divieto di patto leonino presuppone logicamente che la pattuizione sia adottata al momento della costituzione del rapporto sociale, così che al socio sia assicurata l’esenzione per tutta la sua durata dall’alea tipica dell’investimento nella società in modo tale da alterare stabilmente la ripartizione del rischio di impresa fra i soci. Per poter avere l’effetto di alterare la causa del contratto sociale, la previsione negoziale che realizzi l’effetto vietato dall’art 2265 c.c. deve essere contenuta nell’atto costitutivo, nello statuto o in un patto parasociale coevo all’acquisto della partecipazione. La pattuizione dell’opzione di vendita successiva contenuta in un contratto di compravendita fra soci si risolve, invece, in una comune vicenda circolatoria della partecipazione esterna al contratto sociale e inidonea ad alterarne la causa.
Il fallimento non è causa di estinzione immediata della società sicché la perdurante esistenza in vita dell’ente, sia pure ormai privo di ogni potere in relazione al suo patrimonio, conferisce natura di beni commerciabili alle relative quote di partecipazione, quindi l’azione, oggetto del contratto di trasferimento, permane come bene esistente anche in caso di fallimento dell’ente.
Tra i doveri di diligente gestione e conservazione del patrimonio sociale posti in capo agli amministratori a tutela della società, dei creditori e dei terzi rientra altresì il dovere di assolvere al pagamento degli obblighi fiscali e di gestione delle risorse finanziarie, in specie al fine di garantire la regolarità dei versamenti e non esporre l’ente a relative sanzioni, spese, interessi e aggi.
In tema di transazione pro quota intervenuta tra il creditore e uno o più dei debitori in solido, al fine di evitare un ingiustificato arricchimento in capo al creditore, il residuo debito gravante sugli altri debitori solidalmente obbligati si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dai condebitori transigenti soltanto laddove costoro abbiano versato una somma pari o superiore alla loro quota ideale di debito. Qualora, per converso, i condebitori transigenti abbiamo pagato una somma inferiore alla quota loro facente idealmente capo, il debito residuo deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto.
Per poter affermare l’esistenza del nesso causale tra condotta omissiva ed evento dannoso, occorre che l’attore offra la prova del fatto che, laddove la condotta doverosa fosse stata posta in essere, l’evento dannoso non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato con minore intensità lesiva.
L’attore – terzo o socio – che proponga azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ai sensi dell'art. 2395 c.c., allegando di essersi determinato ad effettuare l’investimento nella società a ciò indotto da bilanci non veritieri e da altre informazioni fuorvianti veicolate prima della conclusione dell’operazione, è tenuto a provare la specificità di tali circostanze, nonché l’idoneità di esse a trarlo in inganno, lì dove il riferimento all’incidenza diretta del danno sul patrimonio del soggetto danneggiato – quale tratto distintivo della responsabilità ex art 2395 c.c. – importa un esame rigoroso del nesso di causale, secondo un principio di causalità ancorato al criterio del “più probabile che non”. Peraltro, chi si duole dei dati contabili e di bilancio è tenuto ad allegare e poi a dimostrare anche l’idoneità dei medesimi a trarre in inganno la sua fiducia, con la conseguenza che deve fornire la dimostrazione del nesso causale fra l’illecito contabile degli amministratori ed il danno patito in modo diretto e in conseguenza dell’illecito commesso.
Il danno al valore della partecipazione del socio della società eterodiretta non costituisce una proiezione immediata ed automatica del pregiudizio subito dal patrimonio sociale della eterodiretta, frazionato in proporzione alla partecipazione. Piuttosto, il pregiudizio al valore della partecipazione del socio consiste nella diminuzione del valore della partecipazione causato dall’esercizio illecito dell’attività direttiva e sta nella differenza tra il valore che la partecipazione ha dopo l’esercizio abusivo dell’attività di direzione e coordinamento e il valore che avrebbe avuto se quella attività fosse stata esercitata positivamente.
Per effetto del fallimento di una società di capitali, all’esercizio delle azioni di responsabilità degli amministratori è legittimato, in via esclusiva, il curatore del fallimento, ai sensi dell’art. 146 l. fall., che può, conseguentemente, formulare istanze risarcitorie verso gli amministratori, i liquidatori e i sindaci tanto con riferimento ai presupposti della responsabilità (contrattuale) di questi verso la società (artt. 2392, 2407 c.c.), quanto a quelli della responsabilità (extracontrattuale) verso i creditori sociali (art. 2394, 2407 c.c.). L’azione sociale, anche se esercitata dal curatore fallimentare, ha natura contrattuale, in quanto trova la sua fonte nell’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo. Dalla qualificazione in termini di responsabilità contrattuale dell’azione de qua consegue che, mentre sull’attore (società o curatore fallimentare che sia) grava esclusivamente l’onere di allegare la sussistenza delle violazioni agli obblighi (trattandosi di obbligazioni di mezzi e non di risultato), il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, sugli amministratori l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
L’azione spettante ai creditori sociali ai sensi dell’art. 2394 c.c. o art. 2476 co. 6 c.c. costituisce conseguenza dell’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale che presuppone un comportamento dell’amministratore funzionale ad una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da rendere lo stesso inidoneo per difetto ad assolvere la sua funzione di garanzia generica (art. 2740 c.c.), con conseguente diritto del creditore sociale di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere.
Posta senza ritardo la società in liquidazione, la responsabilità del liquidatore sorge se cagiona un danno ai creditori non adempiendo ai suoi propri doveri di compiere con diligenza tutti gli atti utili alla liquidazione, come dispone l’art 2489 c.c., o se nel pagamento dei creditori sociali, in mancanza di attivo per soddisfare tutto il ceto creditorio, non rispetta la par condicio creditorum ex art 2471 c.c. Dunque, se la liquidazione si conclude con il mancato soddisfacimento di parte del ceto creditorio, non per questo sorge responsabilità dell’amministratore che abbia tempestivamente rilevato la causa di scioglimento e del liquidatore che abbia compiuto con la diligenza richiesta la liquidazione del patrimonio sociale. Responsabilità che potrebbe sussistere per l’amministratore nell’ipotesi in cui le risorse si siano ridotte per il ritardo nel rilevare il ricorrere della causa di scioglimento e nella messa in liquidazione della società e per il liquidatore nel compimento di atti non meramente conservativi, come impone l’art. 2486 co. 1, c.c., nel compimento non diligente e non tempestivo delle attività di liquidazione o, in una situazione patrimoniale della società inidonea al soddisfacimento di tutti i creditori, per aver provveduto al pagamento solo di alcuni creditori disattendendo quanto dispone l’art 2471 c.c. Il liquidatore deve procedere a una corretta e fedele ricognizione dei debiti sociali e, accertata una situazione di incapienza patrimoniale, provvedere sollecitamente al pagamento nel rispetto della par condicio creditorum, secondo il loro ordine di preferenza, senza alcuna pretermissione di crediti all’epoca esistenti.
Costituisce specifico obbligo di chi gestisce la società provvedere ai pagamenti delle imposte dovute; tra gli obblighi di diligente gestione e di conservazione del patrimonio sociale è ricompreso quello di gestire le risorse finanziarie in modo da provvedere agli obblighi fiscali evitando così l’aggravio delle relative sanzioni e interessi di mora, e ciò tanto più nel caso di mancato assolvimento di obbligo tributario relativo all’IVA, il cui versamento all’erario da parte dell’obbligato corrisponde a somme già incamerate, delle quali quindi l’obbligato non può disporre se non accantonandole in vista del futuro obbligatorio versamento. L’inadempimento di tale obbligo di pagamento espone gli amministratori a responsabilità per mala gestio verso la società e i creditori sociali per i danni ad esso conseguenti.
L’art. 2497 c.c. prevede una azione di responsabilità che può essere esercitata dai creditori sociali della società eterodiretta (e, in caso di fallimento, dal curatore) nei confronti dell’ente o della società che ha abusato dell’attività di direzione e coordinamento, al fine di ottenere il ristoro del pregiudizio conseguente alla lesione cagionata all’integrità del patrimonio sociale, lesione di cui risponde solidalmente (oltre chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio nei limiti del vantaggio conseguito) anche “chi abbia preso parte al fatto lesivo”, cioè gli amministratori della controllante e della controllata che hanno elaborato ed attuato le direttive lesive. La direzione e coordinamento rilevante ex art. 2497 c.c. si realizza per il solo fatto del suo effettivo esercizio e l’art. 2497-sexies c.c. sancisce che tale attività si presume sia esercitata dalla società o ente tenuto al consolidamento del bilancio o che comunque controlla la società in questione ai sensi dell’art. 2359 c.c.: vengono dunque in rilievo il controllo esercitato disponendo “della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria”, il controllo esercitato mediante “voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria” e “l’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa”, cioè ogni forma di potere effettivo e di ingerenza anche non tipizzati realizzati attraverso l’organizzazione societaria o attraverso la gestione di rapporti contrattuali e senza che sia necessaria alcuna spendita del nome della società etero diretta. Quanto all’antigiuridicità della gestione – ossia l’esercizio di quella attività di direzione “nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale” – tale espressione ricomprende nell’ambito di responsabilità ex art. 2497 c.c. tutte le ipotesi in cui è stato perseguito un interesse extrasociale rispetto a quello della società eterodiretta e il parametro concernente i “principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale” impone il rispetto dei principi di diritto societario ricavabili dalle norme di legge e dallo statuto della controllata e preclude all’ente controllante di imporre, nell’interesse esclusivamente proprio, politiche aziendali o singole operazioni prive di sostenibilità economica eventualmente anche per assenza di vantaggi compensativi. Infatti, l'attività di direzione e coordinamento deve essere caratterizzata, ex art. 2497 c.c., dall’osservanza dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società controllate, nel senso che l’unitarietà della direzione non può giustificare l’utilizzo della gestione delle imprese controllate ad esclusivo beneficio dell’interesse delle società controllanti, bensì per il coordinamento degli interessi delle due.
L’art. 1322 c.c. se da un lato non esclude affatto la libera espressione dell’autonomia contrattuale delle parti e quindi l’approdo delle stesse alla conclusione di contratti atipici, dall’altra pone un limite nella meritevolezza degli interessi a cui i relativi accordi contrattuali sono preordinati, da valutarsi ex ante.
La valutazione circa la ricorrenza della meritevolezza degli interessi perseguiti impone quindi di procedere all'analisi dell'interesse concretamente perseguito dalle parti (i.e. della ragione pratica dell'affare), valutando l'utilità del contratto, la sua idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale, fermo restando il rispetto dei principi racchiusi nell’art. 41 Cost.
La domanda relativa alla legittimità della delibera di esclusione di un socio da una società cooperativa attiene al rapporto sociale e rientra pertanto nella competenza della Sezione Specializzata in Materia di Impresa, cui spetta poi provvedere anche sulle ulteriori domande connesse e correlate alla decadenza dell’assegnazione dell’alloggio sociale, riguardanti il rilascio, il pagamento dei canoni e delle indennità per l’occupazione sine titulo.
In applicazione dei principi generali in materia di onere della prova, la società cooperativa che agisce per ottenere la condanna al pagamento dei canoni d’affitto dell’alloggio sociale e dell’indennità per occupazione sine titulo è tenuta a provare solo l’esistenza del titolo, ossia della fonte negoziale o legale del suo diritto, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: è il debitore convenuto a dover fornire la prova estintiva del diritto, costituita dall’avvenuto adempimento.
La somma dovuta a titolo di canone di godimento dell’alloggio sociale di una società cooperativa costituisce debito di valuta e pertanto non è oggetto di rivalutazione monetaria, salvo che non venga allegato un qualche elemento da cui desumere un maggior danno da ritardato pagamento.
Il termine di 90 giorni previsto dall’art. 2388, comma 4, c.c. per impugnare una delibera assembleare è interrotto dall’avvio del procedimento di mediazione di cui al d.lgs. 28/2010, non rilevando a tal fine che si tratti di mediazione obbligatoria o facoltativa: infatti, l’art. 5, comma 6, d.lgs. 28/2010, laddove regola l’effetto della domanda di mediazione rispetto a prescrizione e decadenza, non distingue in alcun modo tra mediazione obbligatoria e facoltativa e costituisce pertanto norma di chiusura circa gli effetti sostanziali del procedimento.
L’errore sul prezzo non ha natura essenziale e rilevante e la sua eventuale ricorrenza esclude il rimedio dell’annullabilità. In particolare, in tema di compravendita delle azioni di una società, il valore economico dell'azione non rientra tra le qualità di cui all'art. 1429, n. 2, c.c., relativo all’errore essenziale, essendo la determinazione del prezzo delle azioni rimessa alla libera volontà delle parti.
Il procedimento di cui all’art. 2357 c.c. per l’acquisto di azioni proprie è improntato sulla distinzione tra il potere autorizzativo dell’assemblea dei soci e quello invece decisionale che spetta agli amministratori e che potrebbe anche condurre, pur in presenza dell’autorizzazione dei soci, a non dare poi corso all’acquisto, perché non ritenuto più conveniente o opportuno. Infatti, la valutazione circa l’opportunità dell’acquisto costituisce un apprezzamento di natura gestoria che appare coerentemente rimesso alla valutazione dell’organo amministrativo, spettando all’organo assembleare autorizzarne poi l’acquisto.
È ammissibile la ratifica, da parte dell’assemblea, dell’acquisto di azioni proprie deciso dal consiglio di amministrazione senza previa autorizzazione dell’assemblea.
Seppure l’esercizio dell’azione di responsabilità sociale e dell’azione di responsabilità dei creditori ex art. 2394 c.c. sia riservato al Curatore una volta che sia stato dichiarato il fallimento dell’ente, la legittimazione all’azione di responsabilità ex art. 2395 c.c. (nonché ex art. 2476, comma 7 c.c.) permane comunque in capo al singolo creditore il quale lamenti il pregiudizio derivato non al patrimonio sociale in quanto tale ovvero alla massa dei creditori ma direttamente al proprio patrimonio da condotte illecite degli amministratori, in applicazione della previsione generale ex art. 2043 c.c. e, dunque, azionabile direttamente dal danneggiato. Tale azione ha natura extracontrattuale e, pertanto, è onere della parte attrice fornire la prova che i danni subiti nella propria sfera individuale siano conseguenza immediata e diretta del comportamento doloso o colposo dell’amministratore.