Nel merito delle valutazioni da compiere per affermare la sussistenza della responsabilità degli amministratori e ottenere la riacquisizione alla massa fallimentare dell'attivo sottratto, il giudice adito deve valutare la mala gestio degli atti degli amministratori e la sussistenza di un nesso di causalità giuridica tra la condotta posta in essere e il danno sofferto dalla società. Dalla irregolare tenuta della documentazione contabile non può discendere ex se un danno-conseguenza risarcibile, mancando un nesso di causalità giuridica tra questa e il pregiudizio sofferto. Diversa valutazione della sussistenza del nesso di causalità giuridica deve farsi nei casi in cui una condotta omissiva degli amministratori arrechi nocumento al patrimonio della società, minimizzando le aspettative di soddisfacimento dei creditori.
Qualora invece la condotta di mala gestio si concretizzi nel rimborso di finanziamenti fatti dai soci in violazione della regola della postergazione ex art. 2467 c.c., ossia nei casi in cui questi erano fatti in un momento in cui la situazione di difficoltà finanziaria della società rendeva preferibile un conferimento, la valutazione del danno dovrà tener conto della sussistenza della situazione finanziaria di squilibrio al momento dell’erogazione del finanziamento. Infatti, la postergazione opera solo nei casi in cui il finanziamento sia eseguito dal socio in un periodo di equilibrio finanziario della società, ma non nei casi in cui il rischio di insolvenza sia solo successivo all’erogazione del finanziamento, avendo in quest’ultimo caso il socio diritto alla restituzione del proprio finanziamento e non potendo l’amministratore opporre la postergazione.
Con riferimento all’ammissibilità dell’istanza cautelare di sospensione degli effetti della delibera consiliare di esclusione del socio di società di mutuo soccorso, è irrilevante che il ricorso sia fondato sull’art. 700 c.p.c. ovvero riqualificato ai sensi dell’art. 2378, co. 3 c.c. dal momento che, qualunque delle due strade si segua, l’effetto è quello di dichiarare ricevibile l’istanza cautelare e scrutinarla nel merito. Altresì irrilevante è la mancata convocazione degli amministratori e dei sindaci in carica prescritta dall’art. 2378, co. 4 c.c. da parte del ricorrente in via cautelare poiché trattasi di norma senza sanzione (minus quam perfecta), specie qualora le circostanze del caso inducano il giudice istruttore a una prognosi di inutilità della comparizione di tali soggetti.
Quanto all’interesse ad agire, vale il principio per cui la decisione di accoglimento dell’istanza di tutela cautelare sospensiva della delibera di esclusione del socio può al più assicurare un ripristino provvisorio del rapporto societario in via anticipatoria ma non è idonea, di per sé sola e in difetto di susseguente giudizio di merito, al definitivo ripristino della posizione del socio, il quale può essere prodotto solo ed esclusivamente dal passaggio in giudicato della sentenza costitutiva di annullamento della delibera stessa.
La deliberazione di esclusione (o revoca) di un socio (o di un amministratore) deve essere redatta e comunicata in modo da riportare in modo autosufficiente e chiaro quali siano gli addebiti posti a suo fondamento, in modo da consentire al destinatario del provvedimento ablatorio di averne adeguata cognizione e di potervi reagire ovvero di farvi acquiescenza; proprio per tale funzione e ragione, non è possibile addurre in causa (se non nel limitatissimo senso di chiarire quelle già dispiegate) nuove o ulteriori ragioni della delibera espulsiva che già non siano pienamente evincibili dal suo testo; allorché si tratti di esclusione del socio, questa può aver tratto soltanto a violazioni gravi e codificate dei doveri che incombano per legge e per contratto (sociale), e quindi per statuto, al socio in quanto tale; non avendo ex se rilievo a tal fine violazioni, legali o statutarie, commesse dalla persona fisica del socio in altra sua veste, ad esempio come amministratore o dipendente.
Le doglianze relative ad asserite lacune informative circa il contenuto dell'ordine del giorno, quale forma di insufficienza dell'avviso di convocazione, non soddisfano il requisito del fumus boni iuris necessario per la richiesta cautelare di sospensione di una delibera assembleare (nel caso di specie adunanza con la quale viene revocato l'amministratore). E invero, non sussiste alcuna previsione che imponga nell'avviso di convocazione un contenuto di dettaglio, o addirittura una proposta di delibera assembleare atteso che il legislatore con la disposizione normativa di cui all'art. 2479 bis cod.civ. tutela "la tempestiva informazione sugli argomenti".
Per le medesime finalità di impugnazione, altresì, non può ritenersi soddisfatto il requisito del humus boni iuris in presenza di un asserito abuso di maggioranza laddove la revoca avvenga in presenza di una lacuna degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili coerenti con la natura e le dimensioni dell'impresa ex art. 2086, cod.civ.
Con riferimento all’ammissibilità dell’istanza cautelare di sospensione degli effetti della delibera consiliare di esclusione del socio di società di mutuo soccorso, è irrilevante che il ricorso sia fondato sull’art. 700 c.p.c. ovvero riqualificato ai sensi dell’art. 2378, co. 3, c.c. dal momento che, qualunque delle due strade si segua, l’effetto è quello di dichiarare ricevibile l’istanza cautelare e scrutinarla nel merito.
Altresì irrilevante è la mancata convocazione degli amministratori e dei sindaci in carica prescritta dall’art. 2378, co. 4, c.c. da parte del ricorrente in via cautelare poiché trattasi di norma senza sanzione (minus quam perfecta), specie qualora le circostanze del caso inducano il giudice istruttore a una prognosi di inutilità della comparizione di tali soggetti.
Quanto all’interesse ad agire, vale il principio per cui la decisione di accoglimento dell’istanza di tutela cautelare sospensiva della delibera di esclusione del socio può al più assicurare un ripristino provvisorio del rapporto societario in via anticipatoria ma non è idonea, di per sé sola e in difetto di susseguente giudizio di merito, al definitivo ripristino della posizione del socio, il quale può essere prodotto solo ed esclusivamente dal passaggio in giudicato della sentenza costitutiva di annullamento della delibera stessa.
Con riferimento al merito della decisione cautelare, valgono tre principi fondamentali: (i) la deliberazione di esclusione (o revoca) di un socio (o di un amministratore) deve essere redatta e comunicata in modo da riportare in modo autosufficiente e chiaro quali siano gli addebiti posti a suo fondamento, in modo da consentire al destinatario del provvedimento ablatorio di averne adeguata cognizione e di potervi reagire ovvero di farvi acquiescenza; (ii) proprio per tale funzione e ragione, non è possibile addurre in causa (se non nel limitatissimo senso di chiarire quelle già dispiegate) nuove o ulteriori ragioni della delibera espulsiva che già non siano pienamente evincibili dal suo testo; (iii) allorché si tratti di esclusione del socio, questa può aver tratto soltanto a violazioni gravi e codificate dei doveri che incombano per legge e per contratto (sociale), e quindi per statuto, al socio in quanto tale; non avendo ex se rilievo a tal fine violazioni, legali o statutarie, commesse dalla persona fisica del socio in altra sua veste, ad esempio come amministratore o dipendente.
Al fine di verificare se un trust violi o meno il divieto di patto commissorio occorre esaminarne l’atto istitutivo onde desumerne gli scopi e le modalità di funzionamento. Trattandosi di un’operazione ermeneutica volta a verificare la validità di un negozio, essa deve essere condotta su un piano oggettivo/funzionale, mentre viceversa non è congruente con l’indagine effettuata con un criterio soggettivo.
La funzione illecita del trust si verifica quando il trust sia stato di fatto utilizzato per eludere la disciplina concorsuale e sussiste illiceità della causa anche qualora lo strumento segregativo del patrimonio sia stato utilizzato al fine di impedire la realizzazione coattiva individuale del credito da parte del creditore sociale, il quale non potrebbe soddisfarsi sui beni conferiti in trust se non previo esperimento di azione revocatoria o di apposito accertamento giurisdizionale della nullità del negozio istitutivo del trust. Un trust liquidatorio che si ponga come dichiarato scopo quello di tutelare i creditori ricorrendo alla segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale, quando l'impresa si trova già in stato di insolvenza (ed avrebbe pertanto dovuto accedere agli istituti concorsuali), è incompatibile con la clausola di salvaguardia di cui all'art. 15, lettera e) della convenzione dell'Aja 1 luglio 1985.
Presupposto della risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c. è che l’inadempimento sia di non scarsa importanza. Per valutare la rilevanza dell’inadempimento occorre indagare sull’entità dello squilibrio ingeneratosi tra i contraenti (e valutare se sia tale da compromettere irrimediabilmente l’equilibrio sinallagmatico del rapporto obbligatorio intercorrente tra le parti). Tale valutazione deve esser condotta tenendo conto di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, dalle quali sia possibile desumere l’alterazione dell’equilibrio contrattuale. Dal punto di vista oggettivo, la gravità dell’inadempimento non deve essere commisurata soltanto all’entità del danno, che potrebbe in astratto anche mancare, quanto al concreto interesse all’esatta e tempestiva prestazione che la parte inadempiente avrebbe dovuto rendere. Ne deriva che sono atte a fondare un giudizio di gravità dell’inadempimento solo le violazioni concernenti le obbligazioni contrattuali aventi carattere essenziale. Dal punto di visto soggettivo, il giudice dovrà procedere ad una valutazione sinergica del comportamento delle parti, attraverso un’indagine globale ed unitaria dell’intero loro agire, anche con riguardo alla durata del protrarsi degli effetti dell’inadempimento, perché l’unitarietà del rapporto obbligatorio a cui ineriscono tutte le prestazioni inadempiute da ognuno non tollera una valutazione frammentaria e settoriale della condotta di ciascun contraente ma esige un apprezzamento complessivo. Alla luce di quanto sopra esposto, costituisce pertanto grave inadempimento tale da giustificare la risoluzione del contratto il mancato pagamento di una notevolissima parte del prezzo pattuito come corrispettivo della cessione di partecipazioni societarie.
La circostanza per cui i donatari abbiano tenuto una condotta non conforme alla volontà del donante [nella specie, l’aver disconosciuto un patto parasociale sottoscritto contestualmente all’atto di donazione, col quale si escludeva dalla gestione della società i donatari, figli del donante] non è sufficiente a configurare, in assenza di un manifesto sentimento di avversione e disistima, causa di revocazione per ingratitudine, sub specie di ingiuria grave, da intendersi come la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza e di solidarietà che, secondo la coscienza comune, aperta ai mutamenti dei costumi sociali, dovrebbero invece improntarne l’atteggiamento. Non solo la riconoscenza verso il donante non può declinarsi in termini di pedissequa obbedienza alle indicazioni impartite da quest’ultimo, ove non condivise, ma soprattutto il donatario non può essere privato dell’esercizio di diritti e facoltà che la legge gli attribuisce. D’altronde, imporre al donatario, a pena di revocazione, un obbligo di astensione da qualunque condotta o esternazione antitetica rispetto alla volontà del donante, integrerebbe un intollerabile vincolo sulla sua libertà di autodeterminazione per il sol fatto di essere stato destinatario di un atto di liberalità, così snaturando l’istituto in questione che si caratterizza, proprio, dall’assenza di corrispettività.
Nell’ambito di un contratto preliminare di cessione di quote di s.r.l. da eseguirsi mediante preventiva scissione parziale della società obiettivo (target) e successiva fusione ex art. 2501 bis c.c. della s.r.l. promissaria acquirente di nuova costituzione (newco) in target, spetta ex art. 2504 bis c.c. all’incorporante target la legittimazione attiva sostanziale e processuale ad agire nei confronti dei promittenti venditori per ottenere la rifusione dei costi professionali relativi alle operazioni di scissione e fusione previste dalla struttura dell’operazione di cessione delle partecipazioni e la condanna al risarcimento dei danni in applicazione delle garanzie previste nel contratto preliminare (l’incorporante target non è invece legittimata attiva ex art. 81 c.p.c. alla domanda di condanna dei promittenti venditori convenuti al pagamento della penale a favore dei promissari acquirenti diversi dalla società incorporante – nel caso di specie, i nuovi soci amministratori dell’incorporante e attrice target).
Al fine di individuare il giudice munito dello jus dicere in ordine ad un’azione di responsabilità volta nei confronti dell’organo gestorio (tra cui i commissari straordinari, che, ai sensi dell’art. 40 d.lgs. 270/1999, hanno la gestione dell’impresa e l’amministrazione dei beni dell’imprenditore insolvente) di una società in house, occorre verificare la qualità dei soggetti e la natura degli interessi, pubblici o privati, che si intendono tutelare dal cattivo e pregiudizievole operato dell’amministratore. L’azione di responsabilità esercitata, ex art. 146, co. 2, l. fall., dal curatore del fallimento di una società c.d. in house nei confronti degli amministratori, dei componenti degli organi di controllo e del direttore generale della stessa, spetta alla giurisdizione del giudice ordinario, e non al giudice contabile, in conseguenza della scelta del paradigma privatistico, che comporta, in mancanza di specifiche disposizioni in contrario o di ragioni ostative di sistema, l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato.
La giurisdizione del giudice ordinario va affermata anche in ordine all’azione di responsabilità esercitata dal fallimento nei confronti del MISE. L’amministrazione straordinaria è una procedura liquidatoria che riguarda imprese private e che si attua secondo i principi e, in parte, le regole delle procedure concorsuali, laddove l’intervento e la gestione da parte della pubblica amministrazione è giustificato esclusivamente dal fatto che, in ragione delle dimensioni della impresa sottoposta alla procedura in esame, la sua liquidazione possa produrre effetti rilevanti nell’ambito del settore produttivo nazionale, così come riguardo ai livelli occupazionali. In ogni caso, quindi, non entrano in gioco interessi direttamente rilevanti sul piano pubblicistico, in quanto la liquidazione riguarda beni che appartengono all’impresa privata e non già alla pubblica amministrazione. In quest’ottica, gli atti con cui il MISE nomina gli organi della procedura, approva il programma di cessione o ristrutturazione aziendale, autorizza l’attività dei commissari e ne controlla l’operato, lungi dal costituire espressione di potestà pubblicistica preordinata alla concreta cura degli interessi pubblici affidati all’amministrazione dalla legge, sono rivolti alla tutela degli interessi privati a vario titolo coinvolti nella procedura. In particolare, con specifico riferimento ai creditori sociali, l’amministrazione non esercita alcun potere autoritativo tale da comportare l’affievolimento delle posizioni giuridiche da costoro vantate in interesse legittimo, essendo al contrario questi soggetti che la p.a. è tenuta a tutelare informando la propria attività ai canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché al rispetto delle norme di legge e regolamentari; con la conseguenza che la posizione giuridica dei creditori assume la consistenza di diritto soggettivo.
Nel contesto di una procedura di amministrazione controllata, la funzione del MISE non risulta circoscritta ad un mero controllo formale degli atti posti in essere dal commissario, ma contempla piuttosto una pluralità di compiti finalizzati alla verifica che l’attività gestoria sia coerente con lo spirito e le finalità della procedura stessa. Proprio in tale ottica, sono attribuiti al MISE, non solo i poteri di verifica preventiva sugli atti del commissario, ma anche poteri di revoca dello stesso.
Nella notificazione a mezzo del servizio postale, l'attività legittimamente delegata dall'ufficiale giudiziario all'agente postale, in forza del disposto dell'art. 1 della legge n. 890 del 1982, gode della stessa fede privilegiata dell'attività direttamente svolta dall'ufficiale giudiziario stesso ed ha il medesimo contenuto, essendo egli, ai fini della validità della notifica, tenuto a controllare il rispetto delle prescrizioni del codice di rito sulle persone a cui l'atto può essere legittimamente notificato, e ad attestare la dichiarazione resa dalla persona che riceve l'atto, indicativa delle propria qualità. Ne consegue che, anche nel caso di notificazione eseguita dall'agente postale, la relata di notificazione fa fede fino a querela di falso per le attestazioni che riguardano l'attività svolta, ivi compresa l'attestazione dell'identità del destinatario che ha rifiutato di ricevere il piego, trattandosi di circostanza frutto della diretta percezione del pubblico ufficiale nella sua attività di identificazione del soggetto cui è rivolta la notificazione dell'atto.
Il conferimento effettuato dal socio mediante compensazione tra il relativo debito incombente su quest’ultimo verso la società ed un credito a sua volta vantato dal socio medesimo nei confronti dell’ente è legittimo solamente nell’ipotesi di aumento del capitale sociale – nella quale tale modalità di estinzione del debito del socio non determina un pregiudizio per i creditori e la società – e non invece nell’ipotesi di versamento dei decimi del capitale originario, in quanto i conferimenti iniziali possono essere costituiti solo da beni inidonei a formare oggetto di garanzia patrimoniale.
In caso di morosità del socio ex art. 2466 c.c., il recupero forzoso del credito costituisce una mera facoltà per gli amministratori e non un obbligo. Come infatti lasciato intendere dall’espressione “qualora non ritengano utile promuovere azione per l’esecuzione dei conferimenti dovuti” contenuta nell’art. 2466 c.c., l’esercizio di tale azione viene rimesso alla discrezionalità dell’organo amministrativo, che può determinarsi nel senso di non procedere preventivamente nei confronti del socio moroso (ad esempio, per il verosimile difficile recupero del credito), senza dover fornire in proposito apposita giustificazione in assemblea.
L’abuso della regola di maggioranza è causa di annullamento della deliberazione assembleare quando essa non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, in quanto il voto espresso sia ispirato al perseguimento di un interesse – di maggioranza – personale ed antitetico a quello sociale, oppure esso sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a ledere i diritti dei soci di minoranza. Ai fini dell’annullamento della deliberazione assemblare, per eccesso di potere, è necessario provare che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, oppure che esso fosse in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto. L’onere della prova non deve ritenersi limitato ai sintomi dell’abuso della regola di maggioranza manifestatasi prima dell’azione della delibera impugnata, potendo, viceversa, farsi leva su comportamenti o indizi cronologicamente successivi, in grado di rivelarne ex post la sussistenza.
L’efficacia preclusiva dell’accertamento è destinata ad estendersi anche alle questioni presupposte che non siano state fatte valere in sede di opposizione, non essendo più consentito al debitore nel successivo giudizio porre in discussione la validità ed efficacia del medesimo rapporto in cui aveva trovato titolo il credito opposto per doglianze differenti.
L’autorità del giudicato copre sia il dedotto che il deducibile, cioè non soltanto le ragioni giuridiche fatte espressamente valere, in via di azione o in via di eccezione, nel medesimo giudizio (giudicato esplicito), ma anche tutte quelle altre che, se pure non specificamente dedotte o enunciate, costituiscano, tuttavia, premesse necessarie della pretesa e dell’accertamento relativo, in quanto si pongono come precedenti logici essenziali e indefettibili della decisione (giudicato implicito).
Ne discende quindi che qualora giudizi tra le stesse parti abbiano per oggetto un medesimo negozio o rapporto giuridico e uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, pertanto, l’accertamento compiuto circa una situazione giuridica o la risoluzione di una questione di fatto o di diritto incidente su punto decisivo comune a entrambe le cause o costituente indispensabile premessa logica della statuizione contenuta nella sentenza passata in giudicato, precludono il riesame del punto accertato e risolto, anche nel caso in cui il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo e il petitum del primo.