La delibera assembleare costituisce l’esito di un procedimento che può e deve essere valutato sotto il profilo della sua correttezza e legittimità; dunque, anche nel caso in cui l’esito del procedimento si traduca in una mancata delibera è coerente con il sistema ammettere l'impugnazione per consentire il rilievo di un vizio procedimentale, determinante dell’esito. L’interesse alla impugnazione deve essere rappresentato, e sussiste, qualora si possa dimostrare che, correggendo il vizio del procedimento, l’esito sarebbe stato diverso.
La necessità di una preventiva autorizzazione assembleare rispetto a una o più materie o decisioni non può dirsi idonea ad esautorare gli amministratori, titolari del potere gestorio, laddove vi sia una giustificazione nello specifico assetto societario
La previsione di quorum assembleari ultra-qualificati deve ritenersi generalmente ammissibile, con le uniche ed espresse eccezioni dei casi di approvazione del bilancio e nomina o revoca delle cariche sociali
In caso di fallimento di una società, la clausola compromissoria contenuta nello statuto della stessa non è applicabile all'azione di responsabilità proposta unitariamente dal curatore ai sensi dell’art. 146 LF diretta alla reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali e nella quale confluiscono sia l'azione prevista dall’art. 2393 c.c. che quella di cui all’art. 2394 c.c., in riferimento alla quale la clausola compromissoria non può operare poiché i creditori sono terzi rispetto alla società.
Come è noto, secondo costante giurisprudenza di legittimità, all'amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può, pertanto, eventualmente rilevare come giusta causa di sua revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società: ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, e quindi, l'eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità.
Ne consegue che, anche nell’ipotesi in cui le scelte adottate dall’ex amministratore presentassero, dal punto di vista tecnico-contabile e tecnico-giuridico, profili di irregolarità, dette scelte, in ogni caso, non risultano, per le ragioni sopra esplicitate, manifestatamente illogiche o irragionevoli, e gli eventuali errori ascrivibili all’amministratore dell’epoca possono ritenersi incensurabili in sede giudiziaria, rientrando tale operato gestorio, in concreto, nell’ambito di applicazione e dei limiti stabiliti dal principio della “business judgement rule” e, dunque, nell’alveo delle scelte insindacabili dell’amministratore, insuscettibili di costituire fonte di responsabilità ex art. 2476 c.c.
Sul tema, la Corte di legittimità, con elaborazione giurisprudenziale ormai costante e consolidata, ha affermato che, in tema di responsabilità degli amministratori, la regola dell'insindacabilità nel merito delle scelte gestionali da essi operate trova un limite nel corollario della necessaria ragionevolezza delle stesse nonché nella valutazione della diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione contestata.
Nonostante la natura contrattuale dell'azione di responsabilità ex art. 2476 c.c., i soggetti legittimati a promuovere l'azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore hanno l' onere di provare, in aggiunta alla sussistenza della condotta inadempiente, anche l'esistenza di un sanno risarcibile, nonché il nesso di causalità tra il fatto compiuto dall'amministratore inadempiente e il danno concreto, consistente nel depauperamento del patrimonio sociale di cui si chiede il ristoro.
L’assuntore non è successore universale del fallimento con cui concorda, ma particolare: subentrando in tutti e solo i diritti (di proprietà, di obbligazione e di azione) oggetto del patto concordatario autorizzato. Deve pertanto escludersi la legittimazione dell'assuntore a promuovere un'azione di responsabilità extracontrattuale che non sia stata espressamente oggetto di accordo.
Una volta dedotto che i pagamenti eseguiti dalla società convenuta in favore della società attrice per la restituzione dell'indebito versamento a titolo di deposito cauzionale da quest'ultima effettuato, sono compatibili con l'estinzione del debito, grava sul creditore l'onere di provare la loro imputazione a debito diverso, anche mediante l'analisi della specifica causale degli stessi.
La clausola pattizia che obbliga a rendere vincolante il patto parasociale anche nei confronti dei successori mortis causa esclude che il patto sia automaticamente efficace nei confronti degli eredi (perché diversamente la clausola sarebbe inutile).
Il rappresentante comune degli azionisti esercita i poteri incorporati nelle azioni , fra i quali non è compreso quello di aderire a un patto di sindacato. Non costituiscono significativi indizi della volontà di aderire al patto di sindacato la mancanza di contestazione alle convocazioni delle riunioni del sindacato , cosi come la partecipazione alle riunioni dello stesso.
La clausola con cui le parti si obbligano a rendere vincolante il patto parasociale anche nei confronti degli eredi non configura un patto successorio e quindi non è nulla per violazione dell’art 458 cc (in quanto va interpretata nel senso che gli stipulanti hanno semplicemente promesso l’obbligazione di terzi e cioè l’adesione all’accordo di coloro che sarebbero diventati eredi).
L’eccessività della penale deve essere valutata con riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento: pertanto non è manifestamente eccessiva una penale di importo pari al 10 % del patrimonio sociale, prevista per un inadempimento che comporti la perdita del controllo della società da parte dei soci sindacati.
La domanda risarcitoria promossa dal socio contro l’amministratore unico avente ad oggetto un danno specifico che lo riguardi esclusivamente, in quanto fonte di responsabilità risarcitoria diretta, è da inquadrarsi sub art. 2395 c.c. per le S.p.A. ovvero sub art. 2476 c.c. per le S.r.l. A questo inquadramento consegue l’ammissibilità della domanda anche qualora la società abbia già rinunciato all’esercizio dell’azione sociale, poiché trattasi di domanda altra e diversa rispetto all’azione sociale rinunciata.
L’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 c.c., anche quando promossa dal curatore fallimentare a norma dell'art. 146 l.fall. (Cass. 24715 del 2015), non riguarda il mancato pagamento di singoli crediti e presuppone, invece, la dimostrazione che, in conseguenza dell'inadempimento delle obbligazioni ex artt. 2476, c. 1 e 2486 c.c., e della violazione del dovere di amministrare con competenza e diligenza, sia andata persa la garanzia patrimoniale generica e, cioè, che, per l'eccedenza delle passività sulle attività, il patrimonio sociale sia divenuto insufficiente a soddisfare le ragioni del ceto creditorio, situazione non necessariamente coincidente con lo stato di insolvenza o con la perdita integrale del capitale sociale (che possono verificarsi pur in presenza di attivi da liquidare idonei a soddisfare il ceto creditorio Cass. n. 28613 del 2019).
L'azione sociale è diretta semplicemente alla reintegrazione del patrimonio della fallita, l’azione dei creditori invece non si interessa del patrimonio sociale di per sé, ma quale garanzia per i terzi, e può essere accolta nel momento in cui sia dimostrata la insufficienza del patrimonio residuo a soddisfare i creditori della società fallita, e il nesso causale tra la situazione descritta e la condotta colposa dell’amministratore. Va altresì rilevato che secondo l’orientamento tradizionale l’azione dei creditori è volta a far valere una responsabilità extracontrattuale, non contrattuale, con la conseguente diversa ripartizione dell’onere della prova: spetta quindi all’attore la dimostrazione sia della condotta colposa, e illecita, posta in essere dall’amministratore che del danno causato, in nesso di causa effetto rispetto alla condotta.
Il sindacato giurisdizionale circa la responsabilità degli amministratori deve limitarsi all’accertamento del dolo e della colpa, e trova un limite laddove l’amministratore abbia esercitato la sua discrezionalità imprenditoriale, senza contravvenire ai principi di diligenza e prudenza. Ne consegue che un esito infruttuoso del contratto e dei relativi investimenti e financo l’insuccesso imprenditoriale non sono elementi sufficiente per dimostrare la responsabilità dell’amministratore.
In ragione dell’eccezionalità e della non estensibilità delle condizioni di procedibilità in senso stretto, nel silenzio del legislatore, il mancato soddisfacimento del credito del socio da parte della società partecipata ed etero diretta (che va quindi ad escludere il mancato avveramento della condizione a cui il legislatore – ex art.2497 comma 3 c.c. – subordina la possibilità di agire verso la società controllante), non integra un’eccezione di improcedibilità assoluta dell’azione di responsabilità verso la controllante (ex art.2497 c.c.), bensì può costituire una condizione di procedibilità in ambito esecutivo, operando essa come un sorta di beneficium excussionis, di per sé, non ostativo alla formazione di un titolo giudiziale (di merito) nel quale consacrare e cristallizzare il diritto di credito.
Si deve ritenere che il giudicato formatosi copra il decisum della sentenza di primo grado non soltanto nei limiti delle deliberazioni e statuizioni espressamente contenute nella sentenza d’appello afferenti i petita e le causae petendi esplicitamente esaminati, ma anche quelli che, ancorché non deliberati, avevano comunque formato oggetto di motivi d’appello, e la cui omessa valutazione e decisione da parte della Corte d’Appello avrebbe dovuto essere, per ciò, impugnata dalla parte soccombente con ricorso per Cassazione al fine di prevenire il passaggio in giudicato anche di siffatti ultimi temi.
Va esclusa una effettiva soggezione di una società all’asserita influenza dominante di un’altra società, qualora i benefici concessi a quest’ultima [nomina di un membro del CdA e di un sindaco effettivo; diritto di veto su deliberazioni aventi ad oggetto, tra le altre, modifica dello statuto, del capitale sociale, riorganizzazione societaria; prelazione su quote preferenziali della operatività della società con il sistema banca], ancorché “significanti e incidenti”, trovino adeguato bilanciamento in altre disposizioni [diritto degli altri soci di nominare il Presidente, l’amministratore delegato, il vice presidente ed un membro del Cda, l’alternanza della carica di Presidente tra gruppi di soci, la necessità che le condizioni bancarie praticate dall’istituto di credito fossero effettuate a “parità di costi e condizioni di mercato”].
L'acquisto della qualità di socio di una società cooperativa equivale a diventare "imprenditori di se stessi" e, quindi, manca il presupposto di cui all'art. 3 del D.lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) per potergli attribuire la qualità di "consumatore", non essendo il socio estraneo all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale svolta dalla cooperativa di cui fa parte e beneficiando, in termini economici, di un trattamento di favore per l'appartenenza alla medesima. Il fenomeno cooperativo, infatti, si scompone in una duplicità di rapporti: da un lato, il "rapporto di società", oggetto del quale è ovviamente l'esercizio in comune di un'attività imprenditoriale mediante i conferimenti dei soci e, dall'altro lato, il rapporto di scambio, che si instaura tra la società cooperativa ed il singolo socio a condizioni migliorative rispetto al mercato. Da ciò ne consegue che, sia per la natura dei soggetti ("soci" e non "consumatori"), sia per la natura del rapporto socio/cooperativa (benefici economici appresi dal sistema e riversati a favore dei soci volontariamente aderenti al vincolo solidale), deve escludersi l'applicabilità della disciplina del Codice del Consumo alle controversie tra soci e società cooperative.