La simulazione di una società di capitali iscritta nel registro delle imprese non è configurabile ed ammissibile in ragione della natura stessa del contratto sociale, che non è solo regolatore degli interessi dei soci, ma si atteggia, al contempo, come norma programmatica dell'agire sociale, destinata ad interferire con gli interessi dei terzi, che con la società instaurano rapporti e fanno affidamento sulla sua esistenza, dovendosi ritenere che tipo e scopo sociale, una volta compiute le formalità di legge, siano quelli che emergono dal sistema di pubblicità, sicché l'atto di costituzione dell'ente non può più essere interpretato secondo la comune intenzione dei contraenti e resta consacrato nei termini in cui risulta iscritto ed è portato a conoscenza dei terzi (richiama Cass. n. 22560/2015).
È contrario ai principi contabili mutare il criterio di valorizzazione delle poste di bilancio in corso di esercizio. Cosicché non è corretto che le rimanenze, inizialmente valutate in funzione della capacità di produrre reddito d’impresa, che si manifesterà come ‘ricavi’ dopo che le materie prime sono state trasformate in prodotti finiti e messe in vendita, siano poi valorizzate come rottami alla fine dell’esercizio.
Esula dai poteri del Conservatore - e, quindi, del Giudice del Registro - il controllo sul merito di una (possibile) lite tra i soci e, dunque, la valutazione in ordine alla validità sostanziale dell’atto. Così, un atto o una deliberazione devono essere considerati come validamente assunti finché non interviene
l’annullamento o la revoca in via giudiziale o stragiudiziale. In particolare, deve affermarsi che all’ufficio ed al Giudice del Registro compete soltanto la formale verifica della corrispondenza tipologica dell'atto da iscrivere a quello previsto dalla legge, senza alcuna possibilità di accertamento in ordine alla validità negoziale dell'atto, poiché tale controllo potrà essere svolto unicamente in sede giurisdizionale.
Nella categoria e nell'ambito del controllo c.d. qualificatorio viene fatto rientrare il controllo circa la legittimità dell'atto da iscrivere nella misura in cui il vizio di nullità da cui l'atto sia affetto sia tale da escludere che l'atto stesso possa essere ricondotto nello schema tipico previsto per quell'atto dal legislatore. In quest'ottica, è stato ammesso un controllo di legalità dato dalla verifica della corrispondenza tipologica dell'atto o del fatto del quale si chiede l'iscrizione a quello previsto dalla legge e, anche in tale ottica, un controllo di legittimità sostanziale limitato alla rilevazione di quei vizi di validità che siano individuabili prima facie e tali da rendere l'atto presentato immeritevole di iscrizione perché non corrispondente a quello previsto dalla legge. In altre parole, la radicale illiceità dell'atto può venire in rilievo solo se compromette la riconducibilità al "tipo" giuridico di atto iscrivibile (fermo restando che il controllo di tipicità non può sconfinare in una valutazione di merito dell'atto depositato, non potendo implicare un giudizio relativo all'eventuale non corrispondenza al vero di quanto in esso rappresentato).
L'azione di responsabilità contro amministratori e sindaci, esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 L. fall., compendia in sé sia l'azione prevista dall'art. 2394 c.c. che quella ex art. 2393 c.c., e la stessa è certamente ammissibile anche nel caso di s.r.l.: la riforma societaria di cui al D.Lgs. 6/2003 non spiega alcuna rilevanza abrogativa sulla legittimazione del curatore, ex art. 146 l. fall., della S.r.l. che sia fallita, in quanto per tale disposizione tale organo è abilitato all'esercizio di qualsiasi azione di responsabilità contro amministratori, organi di controllo, direttori generali e liquidatori della società.
La decorrenza del termine prescrizionale di 5 anni dell'azione di responsabilità è per pacifica giurisprudenza - salvo prova contraria gravante sul convenuto - ancorata alla data di dichiarazione del fallimento, ovvero inizia a decorrere dal momento in cui l'insufficienza patrimoniale diviene oggettivamente conoscibile dai creditori, vale a dire dalla data di deposito del bilancio che segnali la situazione di squilibrio patrimoniale.
Il risarcimento del danno cui è tenuto l'amministratore ai sensi dell'art. 2393 c.c. - sia che derivi da responsabilità per illecito contrattuale, sia che si ricolleghi a responsabilità extracontrattuale, sia che si configuri come effetto di responsabilità "ex lege", e tanto se si tratti di danno emergente come di lucro cessante - riveste natura di debito di valore e non di debito di valuta, il quale è, pertanto, sensibile al fenomeno della svalutazione monetaria fino al momento della sua liquidazione, ancorché il danno consista nella perdita di una somma di denaro, costituendo questo solo un elemento per la commisurazione dell'ammontare dello stesso, privo di incidenza rispetto alla natura del vincolo.
Viene rimesso all'interpretazione della volontà negoziale delle parti lo stabilire se il versamento effettuato dal socio tragga origine da un rapporto di mutuo o se invece esso sia stato effettuato a titolo di apporto del socio al patrimonio di rischio dell'impresa, al fine di stabilire se sussista un diritto alla restituzione: della prova del diritto alla restituzione è onerato il socio che ha operato il versamento, e la prova va tratta non tanto dalla denominazione attribuita al versamento nelle scritture contabili della società, quanto piuttosto dalla concreta conformazione che le parti hanno dato al rapporto.
Il principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci a favore della società rispetto alla soddisfazione degli altri creditori, ai sensi dell'art. 2467 c.c., è applicabile, come reso evidente dal secondo comma della disposizione, non a ogni forma di finanziamento da parte dei soci, ma, esclusivamente, alla figura dei cosiddetti prestiti anomali o "sostitutivi del capitale" al fine di porre rimedio alle ipotesi di sottocapitalizzazione cosiddetta nominale.
In tema di cancellazione di società di persone, le Sezioni Unite della Suprema Corte, nel 2010 e successivamente sempre ribadito, hanno statuito che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2495 c.c., dettato in tema di società di capitali, impone di ritenere che l'effetto estintivo alla cancellazione di una società si produca anche in relazione alle società di persone.
Pur sottolineando la natura dichiarativa della cancellazione, la Suprema Corte ha così stabilito che il venir meno della pur limitata capacità e soggettività di tali tipi di società permette di rendere opponibile ai terzi detto evento contestualmente alla pubblicità, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali (Cass. Sez. Un. n. 4060/2010; Cass. 26196/2018).
In secondo luogo, il Giudice di legittimità ha evidenziato la diversità del comportamento del legislatore in materia di rapporti non esauriti al momento dello scioglimento della società, avendo disciplinato espressamente la sorte dei rapporti passivi originariamente facenti capo alla società estinta e non avendo previsto alcuna regolamentazione dei rapporti attivi.
In particolare, quanto ai debiti, proprio in materia di società in nome collettivo, la Corte ha richiamato l'art. 2312 c.c. che consente ai creditori insoddisfatti di agire nei confronti dei soci, con una meccanismo di tipo successorio secondo cui i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, facendo emergere il sostrato personale che è alla base della società (Cass. sez. un. 2013/6070).
Quanto ai rapporti attivi facenti capo all'ente disciolto, dopo aver osservato la maggior difficoltà di una soluzione in assenza di una normativa specifica, la Cassazione ha descritto le diverse ipotesi configurabili al momento dello scioglimento volontario dell'ente collettivo.
Essa ha così distinto le pendenze non definite, qualificabili come mere pretese a cui, ancorché azionate o azionabili in giudizio, ancora non corrisponda la possibilità di individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito o relative ad un diritto di credito contestato o illiquido, dall'ipotesi dei beni o dei diritti che, se fossero stati conosciuti o non trascurati al tempo dello scioglimento della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz'altro figurare e sarebbero perciò stati suscettibili di ripartizione tra i soci.
L'azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 L. F. compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c. ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, patrimonio visto unitariamente come garanzia sia per i soci che per i creditori sociali. Dal carattere unitario dell'azione ex art. 146 L. F. discende che il curatore, potendosi avvalere delle agevolazioni probatorie proprie della azioni contrattuali, ha esclusivamente l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombendo per converso sui convenuti l'onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti.
Il thema probandum, nell'ambito dell'azione in questione, si articola pertanto nell'accertamento di tre elementi: l'inadempimento di uno o più degli obblighi di cui sopra, il danno subito dalla società e il nesso causale, mentre il danno risarcibile sarà quello causalmente riconducibile, in via immediata e diretta, alla condotta (dolosa o colposa) dell'agente sotto il duplice profilo del danno emergente e del lucro cessante, dunque commisurato in concreto al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, positivo o omissivo, non fosse stato posto in essere.
All'esito di un lungo iter interpretativo giurisprudenziale, il danno oggi non viene più dunque automaticamente identificato nella differenza tra attivo e passivo fallimentare, a meno che non si dimostri che il dissesto economico della società e il conseguente fallimento si siano verificati per fatto imputabile agli amministratori. Non è sufficiente, quindi, ai fini della configurabilità della responsabilità degli amministratori addurre che l'evento dannoso è pari a disavanzo fallimentare, bensì occorre dimostrare non solo la specifica violazione dei doveri imposti dalla legge ma anche la correlazione tra tali violazioni e il pregiudizio arrecato alla società. Tali principi giurisprudenziali, con specifico riferimento all'ipotesi del danno da illecita prosecuzione dell'attività nonostante il verificarsi di una causa di scioglimento, sono stati inoltre recepiti dal legislatore che, approvando il cd codice della crisi e dell'insolvenza, ha modificato in tal senso l'art. 2486 c.c..
L'erogazione di somme, che i soci effettuano alla società da loro partecipata, può avvenire a titolo di mutuo ovvero quale versamento in apposita riserva "in conto capitale": la qualificazione, nell'uno o nell'altro senso, dipende dall'esame della volontà negoziale delle parti. La relativa prova, di cui è onerato il socio attore in restituzione, deve trarsi dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, analizzando le finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi [nel caso di specie, è stata pronunciata l'illegittimità, a causa di nullità per oggetto giuridicamente impossibile ex art. 2379 comma 1 c.c., della delibera assembleare con cui la società ha inteso cancellare unilateralmente il debito verso i soci, disponendo una indebita patrimonializzazione per pari importo].
Il finanziamento dei soci a titolo di mutuo può essere qualificato come postergato ex art. 2467 comma 2 c.c. solamente nel caso in cui, tanto nel periodo in cui esso sia stato effettuato quanto in quello in cui viene chiesta la restituzione, la società versi in situazione di crisi qualificata, cioè di probabile insolvenza. Non è sufficiente, ai fini probatori della probabile insolvenza, dedurre una generica situazione di difficoltà finanziaria della società risultante dai bilanci.
Anche nel caso in cui non sia stata prevista alcuna specifica garanzia contrattuale, i beni compresi nel patrimonio della società non sono del tutto estranei all'oggetto del contratto di cessione delle azioni o delle quote di una società di capitali e, pertanto, la differenza tra l'effettiva consistenza del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incidendo sul valore delle azioni o delle quote, può integrare la mancanza delle qualità essenziali della cosa, che rende ammissibile la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1497 c.c.
Benchè il suddetto principio sia stato enunciato dalla Corte di Cassazione (v. Cass. 22790/2019) esplicitamente con riguardo all’azione di risoluzione di cui all’art. 1497 c.c. (risoluzione del contratto per mancanza nell’oggetto delle qualità promesse o essenziali), lo stesso principio non può che ritenersi riferito anche all’azione di cui all’art. 1427 c.c. (annullamento per errore che cade sopra una qualità essenziale dell’oggetto), sia perché il requisito richiesto per la fondatezza delle due azioni (il fatto che l’oggetto del contratto abbia qualità differenti da quelle che avrebbe dovuto avere, in quanto esplicitamente promesse o in quanto determinanti il consenso e quindi essenziali) è il medesimo, sia perché anche sentenze precedenti lo hanno affermato sempre con riferimento sia all’azione di cui all’art. 1497 c.c. sia all’azione di cui all’art. 1427 – 1429 c.c. [nella specie tuttavia la Corte conferma la decisione di primo grado che aveva respinto l'azione di annullamento].
Per comprendere la reale natura e portata degli apporti spontanei eseguiti dai soci in favore della società (ovvero se le risorse siano state versate nelle casse sociali a titolo di finanziamento e, quindi, di mutuo; oppure, a titolo di apporto in favore del patrimonio sociale di risorse a fondo perduto) occorre indagare la reale ed effettiva volontà delle parti; volontà che può essere desunta e riscontrata anche da elementi indiziari e documentali, quali:
i. l’effettiva indicazione utilizzata nelle causali dei bonifici (ad esempio “prestito soci”/”finanziamento soci”);
ii. l’eventuale rimborso anche parziale degli stessi operato nel tempo dalla società;
iii. la registrazione effettuata dalla società di tali movimenti nelle scritture contabili e nel bilancio contabile e/o di esercizio.
In tal senso, l’indicazione attribuita dalla società nel bilancio di esercizio (ove risulti un debito verso il socio) costituisce elemento probatorio forte e sufficiente ad attribuire all’apporto la natura di finanziamento soci, atteso anche che le qualificazioni che i versamenti hanno ricevuto nel bilancio diventano determinanti per stabilire se si tratta di finanziamento o di conferimento.
La delibera assembleare con cui si chiede ai soci di versare nelle casse sociali risorse a titolo gratuito ed a fondo perduto non può obbligare i soci ad apportare risorse a tale titolo, ben potendo il socio non effettuare versamenti o decidere di farlo a titolo di finanziamenti. In ogni caso, l’esistenza della delibera non è di per sé sufficiente ad attribuire agli apporti eseguiti in forma spontanea dai soci natura di conferimenti e/o di versamenti a fondo perduto, dovendosi necessariamente interpretare e valutare l’effettiva volontà del socio.
Il socio che agisce per la restituzione dei finanziamenti soci erogati deve, dunque, dimostrare l’avvenuto versamento (ad esempio mediante la produzione delle contabili), la natura degli apporti e la loro entità.
Il socio che ha effettuato finanziamenti alla società ha diritto a chiederne la restituzione anche in via monitoria e/o ad azionare la tutela cautelare conservativa sul patrimonio sociale, qualora sussistano i presupposti del fumus e del periculum in mora (da intendersi quale pericolo: i. soggettivo, ovvero riconnesso alla condotta e/o ad atti compiuti dalla società e/o dagli amministratori e finalizzati a ridurre la garanzia creditizia, quali la promessa e/o la cessione di cespiti sociali e/o lo scioglimento della società, e/o; ii. oggettivo e ricollegato alla entità ed alla sufficienza del patrimonio sociale rispetto alla pretesa creditizia).
In una società di persone ciascun socio è legittimato a chiedere giudizialmente ai sensi dell’art. 2259, co. 3 c.c. la revoca dell’amministratore per giusta causa.
Tale provvedimento può essere richiesto e disposto, oltre che con la instaurazione di un giudizio di merito e con relativa sentenza, anche in via anticipata mediante la tutela cautelare in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (non sussistendo un rimedio cautelare tipico come, invece, per le società a responsabilità limitata), attesi, da un lato, la compatibilità della tutela con la futura decisione di merito e, dall’altro, la residualità della misura.
La “giusta causa” di cui all’art. 2259 co. 3 c.c. ai fini della revoca dell’amministratore di società di persone viene integrata da qualsiasi evento che determini la violazione degli obblighi propri dell’amministratore e incida negativamente sul carattere fiduciario del rapporto o, comunque, renda impossibile il naturale svolgimento del rapporto di gestione. In particolare, nella casistica di condotte elaborate dalla giurisprudenza ed integranti giusta causa di revoca del socio amministratore vi rientrano: (i) l’avvenuta rinegoziazione a condizioni meno vantaggiose di contratti di utilizzo e godimento dei cespiti produttivi; (ii) l’avere consentito a terzi di ingerirsi nella gestione, divenendo socio di fatto della società; (iii) la mancata comunicazione ai soci non amministratori dei rendiconti e dei bilanci annuali; (iv) la creazione di situazioni tali da nuocere alla prosecuzione della attività di impresa; (v) il tentativo del socio amministratore di provocare lo scioglimento della società prima della scadenza con mezzi artificiosi, ovvero di distrarre risorse reimpiegandole in attività estranee e diverse; (vi) ripetuti comportamenti gravemente inadempienti ai propri obblighi, tra i quali la mancata comunicazione dei bilanci e dei rendiconti della società al socio non amministratore, e l’impedimento frapposto a quest’ultimo ad accedere ai documenti essenziali per l’esercizio dei diritti di controllo sulla gestione sociale; (vii) ogni fatto costituente violazione di obblighi di lealtà, correttezza, e di diligenza da parte dell’amministratore, tale da incidere negativamente sul carattere fiduciario del rapporto ovvero da rendere impossibile l’assolvimento del mandato, anche se in considerazione di circostanze obiettive ed estranee alla persona del revocato. Tuttavia, perché la revoca cautelare del socio amministratore dalle funzioni gestorie possa essere pronunziata è necessario che sussista anche il requisito del periculum in mora (cioè il rischio che nelle more del giudizio di merito siano poste in essere nuove condotte pregiudizievoli o che si aggravino il pregiudizio e/o gli effetti di quelle pregresse): in assenza di ciò la revoca non potrà essere disposta, non essendo sufficiente la sussistenza di condotte illegittime e/o irregolari pregresse e non attuali.
La revoca per giusta causa dell’amministratore di società di persone determina unicamente la cessazione delle funzioni gestorie ma non comporta in capo al soggetto revocato anche la perdita della qualità di socio (cfr, ex multis, Cass. n. 15197/2001 e Trib. Milano, 9.11.15).
Le disposizioni di cui all’art. 2409 c.c. si applicano solo alle società di capitali (ancorché ora, ex art. 379 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, anche prive di organo di controllo) e non alle società di persone.