Come non sono addebitabili agli amministratori gli esiti infausti di una scelta gestionale, purché questa sia stata posta in essere secondo criteri di ragionevolezza, previa assunzione di ogni elemento conoscitivo utile alla stessa, da valutarsi ex ante, ossia sulla base delle circostanze note al momento delle condotte, così non è addebitabile al liquidatore la scelta gestionale in prospettiva liquidatoria che non abbia sortito l’effetto desiderato, assunta sulla base dei medesimi parametri.
Il liquidatore di società di capitali ha il dovere di procedere a un'ordinata liquidazione del patrimonio sociale, pagando i debiti secondo il principio della par condicio creditorum; tuttavia, il danno subito dai creditori a seguito di pagamenti preferenziali fatti in violazione della par condicio creditorum da amministratori e liquidatori di una società dopo che il patrimonio della medesima sia divenuto insufficiente rispetto alla massa dei crediti, è danno specifico e diretto, corrispondente alla minore misura in cui ciascuno dei creditori potrà concorrere sull'attivo liquidato.
Il liquidatore, una volta constatato che le attività sociali non consentono l'integrale pagamento dei creditori sociali, man mano che i rispettivi crediti giungono a scadenza, anziché provvedere a pagare ugualmente, deve promuovere senza indugio una procedura concorsuale per il soddisfacimento paritetico di tutti i creditori, altrimenti è chiamato a rispondere direttamente nei confronti dei creditori danneggiati, e per essi del curatore in caso di fallimento, ai sensi degli artt. 146 l. fall. e 2394 c.c.
Le dimissioni del collegio sindacale, ove non accompagnate da atti volti a impedire e contrastare il protrarsi degli illeciti gestori, non sono sufficienti ad esimere l’organo di controllo dalla responsabilità derivante dall’omessa vigilanza sulla gestione, divenendo esemplari della condotta colposa e pilatesca tenuta dal sindaco rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità. Il ragionamento di probabilità causale per definizione non conduce alla certezza, ma alla ragionevole ricostruzione di un legame tra i fatti, laddove in tema di responsabilità omissiva dei sindaci, l'inerzia è causa del danno, se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l'attivazione lo avrebbe ragionevolmente evitato.
Con il sequestro delle quote il diritto di intervento e di voto in assemblea spetta al custode (artt. 2471 bis e 2352 c.c.); pertanto, il custode/amministratore delle quote totalitarie ha piena legittimazione non solo a convocare l’assemblea, ma anche a prendervi parte e ivi esprimere la volontà dell’assemblea in carica in luogo del socio.
La regola dell'incidenza della giusta causa di revoca solo sul piano risarcitorio e della correlata piena libertà dell’assemblea di revocare gli amministratori in ogni momento, prevista dall’art. 2383, co. 3, c.c. in tema di s.p.a., è applicabile in via analogica alla s.r.l.
Risulta improcedibile, per sopravvenuta carenza di legittimazione ad agire, l'impugnativa di delibera assembleare di s.r.l. nel caso in cui l'attore abbia perso la qualità di socio in corso di causa.
L'azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall. ha natura unitaria e inscindibile e racchiude in sé, quale strumento di reintegrazione del patrimonio della fallita unitariamente considerato a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali, tanto l'azione spettante alla società quanto quella a tutela dei creditori sociali; ciò comporta che anche in assenza di una specificazione, si deve presumere che il curatore abbia inteso esercitare congiuntamente entrambe le azioni. Nondimeno, la natura giuridica e i presupposti delle due azioni rimangono diversi ed indipendenti. Ne consegue che il curatore ha il vantaggio di cumulare i vantaggi di entrambe le azioni, sia sotto il profilo dell’onere della prova (gravando sul fallimento esclusivamente l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, gravando invece sull’amministratore l'onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso), sia per quanto attiene al regime della prescrizione.
Il termine di prescrizione quinquennale ex art. 2949, co. 2, c.c. decorre dal momento in cui si è palesata e resa percepibile dai terzi l’insufficienza patrimoniale della società. Al riguardo, ricorre una presunzione semplice che tale momento coincida con il fallimento della società, salvo la prova contraria – ovvero che l’insufficienza patrimoniale si sia manifestata prima – a carico dell’amministratore.
La quantificazione del danno non si sottrae ai principi generali in tema di onere della prova che solo possono essere mitigati dal ricorso all’equità, ma sempre nella ricorrenza della prova dell’esistenza del danno. Infatti, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c., presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza.
È inammissibile la domanda di revoca del curatore per asserita mala gestio per condotte attive od omissive in spregio del dovere di diligenza proprio dell’ufficio. Il curatore è un organo della procedura concorsuale e la sua revoca, come la sua nomina e la sua sostituzione, sono di competenza esclusiva del tribunale fallimentare ex art. 23 l.fall.
La dedotta mala gestio dell’amministratore non può coincidere con il deliberato assembleare dallo stesso espresso quale socio, per il solo fatto che nella stessa persona si sommano la qualità di socio e quella di amministratore unico, perché la delibera dell’assemblea è espressione della volontà del socio e non dell’amministratore; specularmente, l’erogazione dei compensi cui abbia dato corso l’amministratore in proprio favore non delinea un conflitto di interessi ex art. 2475 ter c.c. per il sol fatto che la medesima persona riveste la duplice posizione di socio e amministratore quando il versamento erogato sia conforme al precedente deliberato assembleare. Più in generale, non si delinea atto di mala gestio da parte dell’amministratore unico che si sia liquidato somme a titolo di compensi in conformità alle delibere assembleari, a meno che all’atto della erogazione non risultasse evidente lo stato di dissesto in cui versava la società, con conseguente violazione della par condicio creditorum.
La mancata convocazione dell’assemblea ex art. 2482 ter c.c. non è di per sé sufficiente a configurare un’ipotesi di responsabilità gestoria in capo all’amministratore. Il curatore che intende far valere la responsabilità dell’ex-amministratore deve allegare e provare che, successivamente alla perdita del capitale sociale, sono state intraprese iniziative imprenditoriale connotate dall’assunzione di nuovo rischio economico-commerciale e compiute al di fuori di una logica meramente conservativa.
Posto che è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il curatore fallimentare è pienamente legittimato all’esercizio di qualsiasi azione di responsabilità contro gli amministratori della società, anche per i pagamenti eseguiti in violazione della par condicio creditorum e, dunque, il pagamento preferenziale è di per sé sufficiente a legittimare il curatore all’azione di risarcimento, nondimeno è onere del curatore che agisce in giudizio dedurre la natura, chirografaria o privilegiata, del credito soddisfatto e l’esistenza di crediti di pari grado o di grado poziore rimasti, invece, insoddisfatti.
Il danno da pagamento preferenziale è individuabile quale danno da “maggior falcidia” dei crediti insinuati nel passivo fallimentare, danno pari alla differenza tra, da una parte, quanto i creditori avrebbero percepito dal riparto fallimentare se il pagamento non fosse stato effettuato e il creditore preferito si fosse insinuato al passivo fallimentare e, dall'altra, quanto hanno effettivamente percepito. Il calcolo di tale danno suppone l'allegazione e la prova di: (i) il passivo fallimentare; (ii) l’attivo fallimentare; (iii) il riparto effettuato; (iv) il riparto che sarebbe stato effettuato se il pagamento preferenziale non fosse avvenuto e il creditore preferito si fosse invece insinuato al passivo.
L’intestazione fiduciaria di quote di partecipazione sociale ricorre nel caso in cui un soggetto acquista la titolarità delle quote con l’obbligo, derivante dal rapporto interno con il fiduciante, di osservare un certo comportamento, precedentemente convenuto con quest’ultimo, nonché di retrocedergli i titoli a una scadenza prestabilita, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario; ciò che si realizza, quindi, è una combinazione di fattispecie negoziali collegate, l’una costituita da un negozio reale traslativo e l’altra a effetti meramente obbligatori. Per il negozio fiduciario vige il principio di libertà delle forme.
L’inadempimento dell’obbligo restitutorio derivante dal patto fiduciario legittima una pronuncia di sentenza costitutiva, ex art. 2932 c.c., onde dare esecuzione all’obbligazione, rimasta inadempiuta da parte del fiduciario, di restituire al fiduciante quanto oggetto di iniziale disposizione fiduciaria.
La norma di cui all'art. 2558 deve applicarsi ogni qual volta il debito del cedente l'azienda si ricolleghi a posizioni contrattuali non ancora definite, mentre la disposizione dell'art. 2560 c.c. riguarda il caso in cui il debito contrattuale non sia bilanciato da un credito corrispondente.
In tema di cessione di azienda e posizione creditoria del terzo, ai fini dell’accertamento del subentro del cessionario nei contratti stipulati dal cedente con il terzo ceduto ai sensi dell’art. 2558 c.c., il rapporto contrattuale tra cedente e terzo ceduto deve risultare stipulato per l’esercizio dell’azienda, non ancora cessato, non deve avere carattere personale e non deve essere oggetto di espressa pattuizione tra cessionario e cedente volta ad escludere il subentro nel rapporto con il ceduto.
In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, il rimedio di cui all’art. 1453 c.c. presuppone che l'inadempimento soddisfi il connotato della non scarsa importanza di cui all’art. 1455 c.c.; in particolare, con specifico riferimento al concetto di non scarsa importanza, il giudice deve tener conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive dalle quali sia possibile desumere l’alterazione dell’equilibrio contrattuale. La valutazione della gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito.
L’art. 1218 c.c. regolamenta la responsabilità da inadempimento e delinea, sotto il profilo soggettivo, un modello di responsabilità presunta, la cui disciplina ha significativi riflessi, in particolare, sul piano del riparto dell’onere della prova, giacché realizza una inversione dell’onus probandi previsto, in generale, dall’art. 2697 c.c. Nello specifico, il creditore, che intende far valere tale responsabilità, è gravato unicamente dall’onere di dimostrare in giudizio il titolo, allegare l’inadempimento e provare il danno; diversamente, anche in applicazione del principio di vicinanza della prova, spetta al debitore costituirsi in giudizio e dimostrare di aver esattamente adempiuto, ovvero di aver posto in essere quello sforzo di diligenza richiesto dalla natura della prestazione e che, per tale ragione, l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile (c.d. prova liberatoria).
L’attività di direzione e coordinamento, di per sé legittima, assume, ai sensi dell’art. 2497 c.c., i connotati dell’antigiuridicità quando sia esercitata da parte della società controllante nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui, dunque estraneo a quello della società soggetta alla sua direzione/coordinamento, e in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società sottoposte ad essa. Il secondo comma della norma prevede, inoltre, una responsabilità solidale in capo a chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, a chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio.
La predetta disposizione normativa e, in particolare, quella di cui al secondo comma, prevede un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, inquadrata nello schema di cui all’art. 2043 c.c., riconducibile alla violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale dell’attività di direzione e coordinamento della società controllata da parte della controllante. Gli amministratori della società controllante rispondono in solido, in via aquiliana, per la lesione all’integrità del patrimonio della società controllata conseguente a condotte che costituiscono violazione dei suddetti principi o per aver concorso con gli amministratori della società controllata al depauperamento del suo patrimonio sociale.
Il mero esercizio dell’attività di direzione e coordinamento non comporta che la controllante possa essere chiamata a rispondere delle obbligazioni di una controllata nei confronti dei fornitori della stessa o dell’inadempimento delle medesime. In altri termini, non può configurarsi una responsabilità della capogruppo per obbligazioni fisiologicamente assunte dalla controllata e rimaste inadempiute nella normale dinamica dello svolgimento dell’attività d’impresa.
Con riguardo al computo del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, il dies a quo va individuato nel momento in cui il pregiudizio agli interessi sociali sia conoscibile da parte dei soci della società eterodiretta. Ne deriva che il decorso della prescrizione va ancorato non al momento in cui sono stati posti in essere i singoli atti attraverso cui si è realizzata l’illecita condotta di direzione e coordinamento, bensì valorizzando il frangente in cui il danno si è manifestato attraverso la completa evidenziazione dello scenario fattuale che ne costituiva la causa.
L'azione esercitata dal socio ai sensi dell'art. 2476, co. 3, c.c. costituisce la medesima azione di cui è titolare la società e, precisamente, l'azione volta a far valere la responsabilità degli amministratori nei confronti dell'ente: la legge si limita, in questa prospettiva, a delineare una legittimazione concorrente e disgiuntiva spettante, per un verso, alla società e, per l'altro, al singolo socio, il quale esercita l'azione sociale sulla base di una sostituzione processuale eccezionalmente ammessa dalla legge.
La concessione abusiva di credito è una fattispecie plurioffensiva, in quanto può determinare: (i) un danno al patrimonio dell’impresa finanziata per le perdite maturate nel periodo in cui la dichiarazione d'insolvenza è stata dilazionata; (ii) un danno ai creditori sociali per il minor incasso conseguito; (iii) una sanzione penale per gli amministratori della società fallita e gli eventuali concorrenti. In apparenza il comportamento della banca è contrario ai suoi stessi interessi, posto che il cliente in difficoltà difficilmente restituisce il denaro prestato; pertanto, è la banca stessa ad aver interesse a valutare con prudenza se concedere o meno il prestito. Il fatto di procrastinare l’apertura di una procedura concorsuale può, però, derivare da una scelta consapevole dell’istituto di credito, che spera così di recuperare i propri crediti in violazione della par condicio, o di porre al riparo da azioni revocatorie i pregressi rientri e la costituzione di diritti di prelazione. Il finanziamento potrebbe essere concesso al solo fine di ottenere il consolidamento di garanzie altrimenti revocabili in caso di tempestiva declaratoria d’insolvenza o, più genericamente per munire di garanzia un precedente credito chirografario con l’ulteriore conseguenza che il mutuo fondiario potrebbe essere accordato in modo distorto solo per ripianare debiti preesistenti. Invero, la concessione abusiva di credito ha confini labili, in quanto è anche vero che la banca potrebbe incorrere in responsabilità per brutale interruzione dell’erogazione del credito, in violazione del dovere di buona fede negoziale, rischiando così di essere attaccata su entrambi i fronti.
In tema di concessione abusiva del credito, in relazione alla condotta tenuta dall’istituto di credito occorre distinguere le situazioni in cui quest’ultimo concede fisiologicamente sostegno alle imprese in difficoltà, in vista di un potenziale risanamento, da quelle in cui il sostegno è fornito a imprese ormai insolventi, allo scopo di ottenere vantaggi a scapito degli altri creditori; è necessario provare che l’istituto di credito sapeva o poteva sapere (secondo la diligenza professionale) che il sovvenuto versava in uno stato di dissesto.
L'erogazione del credito qualificabile come abusiva, poiché effettuata a impresa senza concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del finanziatore, per essere venuto meno ai suoi doveri di prudente gestione, con conseguente obbligo di risarcimento del danno, ove ne discenda l'aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell'attività.
La curatela è legittimata ad agire contro la banca responsabile di aver danneggiato il patrimonio della società fallita, in concorso con i suoi amministratori, avendo erogato credito in condizioni di accertata perdita del capitale sociale e in carenza di adeguata valutazione del merito creditizio e, a tal proposito, il curatore può allegare sia il danno diretto subìto dall'impresa a causa del finanziamento, sia il pregiudizio sofferto dall'intero ceto creditorio, senza la necessità che l'azione venga promossa congiuntamente contro l'istituto di credito e (se l’impresa era una società) gli amministratori.
Sussiste una responsabilità concorrente della banca, ai sensi dell’art. 2055 c.c., nella mala gestio degli amministratori per aver provocato l’aggravamento del dissesto per richiesta e concessione abusiva di credito (volta a soddisfare un interesse della banca a danno degli altri creditori), mentre non integra una ipotesi di responsabilità concorrente la concessione abusiva del credito in sé, causata da una inadeguata valutazione del rischio creditizio.
Al fine di stabilire se la perdita dell’esercizio abbia eroso il capitale sociale, riducendolo al di sotto di un terzo (con le conseguenze di cui all’art. 2446 c.c.), è necessario considerare la perdita eccedente le riserve esistenti in bilancio. Nello svolgere tale analisi, è necessario tener conto della c.d. gerarchia delle riserve: dapprima si ricorre alle riserve maggiormente disponibili sino ad arrivare alle riserve meno disponibili: 1) riserve facoltative e straordinarie; 2) riserve statutarie; 3) riserva da rivalutazione; 4) versamento in conto capitale da parte dei soci; 5) riserva legale; 6) capitale sociale.
La fattispecie dell’abuso di maggioranza deve ritenersi riconducibile alla violazione del principio di correttezza desumibile in via generale dall’art. 1175 c.c., operante anche nel settore societario e a cui debbono attenersi i soci. Imponendo la correttezza dell’agire della maggioranza, l’art. 1175 c.c. funge da limite intrinseco al principio maggioritario consentendo di censurare forme distorte di esercizio dei poteri della maggioranza a detrimento della minoranza integranti, appunto, l’abuso di maggioranza.
Tale abuso non consiste, dunque, nel fatto che la delibera adottata dalla maggioranza possa comportare vantaggi per detta maggioranza e/o sacrificio di interessi della minoranza, poiché ciò è connaturato al principio maggioritario stesso. Non è consentito al giudice di operare un sindacato volto a verificare se tra le varie opzioni e interessi sul campo, in relazione ad una delibera adottata a maggioranza, siano preferibili l’opzione e gli interessi perseguiti dalla maggioranza con il suo deliberare, piuttosto che le contrapposte opzioni e interessi della minoranza. Ciò che va verificato, piuttosto, è se il principio maggioritario sia stato piegato sic et simpliciter ad avvantaggiare del tutto ingiustificatamente i soci di maggioranza e ledere altrettanto ingiustificatamente gli interessi del socio di minoranza in violazione del limite interno dato dalla regola della correttezza.