Per la nomina e la revoca dei liquidatori occorre la maggioranza prevista per le modificazioni dell'atto costitutivo o dello statuto (art. 2487 c.c.), con ciò intendendosi che il quorum deliberativo in materia di liquidazione è pari alle maggioranze previste dalla legge e/o dallo statuto per le modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto; infatti, il rinvio di cui all’art. 2487, co. 1, c.c. alle maggioranze previste per le modificazioni dell'atto costitutivo o dello statuto non è soltanto un rinvio alla previsione normativa delle maggioranze in materia di modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto, ma rappresenta piuttosto la volontà del legislatore di operare un rinvio alla materia delle modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto, parificando, quindi, per importanza le decisioni relative alla liquidazione a quelle relative alle modifiche dello statuto e per le quali la legge prevede, salvo diversa previsione statutaria, maggioranze più elevate rispetto a quelle, per così dire, ordinarie.
La ratio della previsione dell’art. 2434 bis c.c. consiste nella finalità di attuare, esprimendolo nella fattispecie concreta, il generale principio di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), poiché – secondo la valutazione della fattispecie stessa data dal legislatore, letta alla luce del principio di continuità dei bilanci –, approvato il bilancio successivo, la rappresentazione data, con il bilancio precedente, della situazione economico-patrimoniale della società ai soci e ai terzi ha esaurito le sue potenzialità informative (e organizzative), e dunque anche le sue potenzialità decettive, dovendo invece i destinatari dell’informazione, per ogni valutazione e decisione organizzativa conseguente, far riferimento all’ultimo bilancio approvato. Pertanto, non sussiste interesse ad agire rispetto all’impugnativa di un bilancio superato dall’approvazione di quello successivo.
È annullabile il contratto concluso dal rappresentate con sé stesso se la procura, che pure un tale contratto autorizzi, non contenga una determinazione degli elementi negoziali sufficienti a tutelare il rappresentato, e in particolare l’indicazione di un prezzo minimo di vendita che impedisca eventuali abusi da parte del rappresentante.
L’oggetto di un contratto è determinato quando, pur se non indicato con assoluta precisione, sia però chiara la volontà delle parti quale risulta dal contratto, mentre è determinabile quando è individuabile in base a criteri oggettivi o quando le parti abbiano previsto il procedimento mediante il quale pervenire alla determinazione.
La contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, non li determina; sicchè dalla irregolare tenuta non può discendere ex se un danno idoneo a dar luogo a responsabilità risarcitoria da parte dell'amministratore nei confronti della società.
La mancata presentazione ai competenti uffici dell’erario delle prescritte dichiarazioni fiscali, con conseguente esposizione debitoria della società nei confronti dell’erario per imposte evase, contributi, sanzioni ed interessi, costituisce un'inadempimento fonte di responsabilità in capo all'amministratore. Non giova all'amministratore dedurre di essersi affidato per tale adempimento ad un consulente esterno, non essendo l’amministratore esonerato dall’obbligo di vigilare e controllare le attività svolte dai delegati.
In caso di violazione degli obblighi specifici derivanti dall’atto costitutivo o dalla legge, la responsabilità degli amministratori di una società può essere esclusa solo nel caso, previsto dall’art. 1218 c.c., in cui l’inadempimento sia dipeso da causa non imputabile e che non poteva essere evitata né superata con la diligenza richiesta al debitore. Laddove gli amministratori adducono a propria discolpa la presenza di una crisi di liquidità, hanno l’onere di fornirne la prova, nonché di dimostrare di essersi adoperati per porvi rimedio, convocando l’assemblea per deliberare l’aumento del capitale sociale o, altrimenti, per proporre la liquidazione della società.
Poiché il debito risarcitorio ex art. 2393 c.c. ha natura di debito di valore – come tale sensibile al fenomeno della svalutazione monetaria fino al momento della sua liquidazione – ancorché il danno consista nella perdita di una somma di denaro, costituendo questo, in siffatta particolare ipotesi, solo un elemento per la commisurazione dell’ammontare del danno, privo di incidenza rispetto alla natura del vincolo, al fallimento spetta anche (art. 1223 c.c.) il ristoro per il mancato godimento delle somme liquidate, da calcolare applicando sulla somma predetta, rivalutata annualmente (fino alla data della sentenza), gli interessi al tasso legale a decorrere dalla data del fallimento e fino alla pronuncia.
Non è fondata l’eccezione di sopravvenuta carenza di interesse del socio ad impugnare la delibera di approvazione del bilancio, in ragione della mancata impugnazione dei bilanci di esercizio successivi, con conseguente intangibilità dei saldi di tali bilanci, per il principio di continuità dei valori di bilancio, posto che, ai sensi dell’art. 2434 bis, co. 1, c.c., l’impugnazione del bilancio può essere promossa se al momento dell’instaurazione del giudizio non sia stato ancora approvato il bilancio dell’esercizio successivo, a nulla rilevando che, nelle more del giudizio, siano stati approvati i bilanci degli anni successivi, e ciò in ragione del fatto che la durata del processo non può ripercuotersi negativamente a scapito di colui che ha proposto l’impugnazione tempestivamente.
Il conflitto di interessi non rappresenta ex se una condizione in grado di inficiare la votazione, sia essa una delibera dell’assemblea dei soci o del consiglio di amministrazione; in dette ipotesi, infatti, l’invalidità dell’atto è subordinata non solo al fatto che il voto determinante per il raggiungimento della maggioranza necessaria per l’approvazione della delibera sia espressione del soggetto in capo al quale si configura una situazione di conflitto d’interessi, ma anche alla condizione che tale delibera possa recare alla società un danno, seppur in via solo potenziale. Ai fini dell’annullamento della delibera per conflitto di interessi è essenziale che essa sia idonea a ledere l’interesse sociale, inteso come l’insieme di quegli interessi che sono comuni ai soci, in quanto parti del contratto di società, e che concernono la produzione del lucro, la massimizzazione del profitto sociale (ovverosia del valore globale delle azioni o delle quote), il controllo della gestione dell’attività sociale, la distribuzione dell’utile, l’alienabilità della propria partecipazione sociale e la determinazione della durata del proprio investimento. Si ha conflitto di interessi rilevante quale causa di annullabilità delle delibere assembleari quando vi è un conflitto tra un interesse non sociale e uno qualsiasi degli interessi che sono riconducibili al contratto di società.
Non è compromettibile in arbitri la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio di società per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione. Invero, nonostante la previsione di termini di decadenza dall'impugnazione, con la conseguente sanatoria della nullità, le norme dirette a garantire tali principi non solo sono imperative, ma, essendo dettate, oltre che a tutela dell'interesse di ciascun socio ad essere informato dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere la situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente, trascendono l'interesse del singolo ed attengono, pertanto, a diritti indisponibili. Identica ratio si rinviene nel caso di censura dell’approvazione del bilancio d’esercizio da parte del socio amministratore unico in conflitto di interessi ex art. 2479 ter, co. 2, c.c.
Con riferimento alla cessione di quote societarie, deve distinguersi tra un oggetto immediato della cessione, costituito dalle partecipazioni sociali alienate, e un oggetto mediato, costituito invece dal patrimonio sociale. Le quote delle società di capitali costituiscono, infatti, beni di secondo grado, in quanto non sono del tutto distinte e separate dai beni compresi nel patrimonio sociale, e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione e alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all'esercizio dell'attività sociale. Ne consegue che i beni compresi nel patrimonio della società non possono essere considerati del tutto estranei all'oggetto del contratto di cessione del trasferimento delle azioni o delle quote di una società di capitali, sia se le parti abbiano fatto espresso riferimento agli stessi, mediante la previsione di specifiche garanzie contrattuali, sia se l'affidamento del cessionario debba ritenersi giustificato alla stregua del principio di buona fede.
La responsabilità di amministratori e sindaci di società di capitali nei confronti della società ha natura contrattuale. Pertanto, l'attore deve provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l'onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi imposti. Peraltro, trattandosi di responsabilità colposa, l’amministratore può andare esente da responsabilità fornendo la prova positiva di essere immune da colpa per aver improntato la propria condotta a diligenza.
L’attività di amministratore compendia non soltanto un incarico gestionale, ma altresì l’obbligo diretto di osservare le norme di legge e di statuto. Di tal che, la responsabilità connessa al ruolo di amministratore per violazione degli obblighi legislativi e statutari sorge per effetto della nomina da parte dell’organo competente e della successiva accettazione di detta nomina da parte del soggetto designato, il quale assume l’impegno di adempiere a tutti gli obblighi connessi alla carica e di svolgere le funzioni gestorie con la diligenza professionale richiesta dalla natura dell’incarico. Pertanto, non esclude la responsabilità per mala gestio l’aver assunto l’incarico in forza di un rapporto di lavoro stipulato con la socia di maggioranza.
Con riferimento alla valutazione dell’attività dell’organo amministrativo, sussiste un generale principio di insindacabilità del merito delle scelte di gestione, che nondimeno trova un limite nella ragionevolezza delle stesse da compiersi secondo una valutazione ex ante – dunque, al momento della assunzione della decisone – secondo i parametri della diligenza del mandatario.
Ai sensi dell’art. 15 d. lgs. 39/2010, i revisori legali e la società di revisione legale rispondono, in solido tra loro e con gli amministratori, nei confronti della società, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento dei loro doveri. L’attività di revisione è preordinata a svolgere un controllo in relazione alla regolarità formale e sostanziale delle operazioni contabili effettuate sui fatti di gestione e sul bilancio da parte della società revisionata, rilasciandone all’esito la relativa attestazione. Dunque, la sua attività è costituita da un complesso di verifiche allo scopo di esprimere un giudizio indipendente e veritiero sull’attendibilità della documentazione contabile e di bilancio del soggetto oggetto di verifica. Tale opera è volta, in esecuzione di un rapporto di carattere privatistico, a realizzare l’interesse pubblico della protezione dei mercati. L’attività dei revisori è delineata all’art. 14 d.lgs. n. 39/2010, che ne regolamenta gli obblighi, tra i quali rientra la verifica, strumentale alla prestazione principale del revisore, della regolare tenuta della contabilità della società soggetta a revisione, nonché la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabile. Tale attività comporta verso i singoli risparmiatori e investitori responsabilità di natura extracontrattuale ex art. 2043 c.c. e 2409 sexies c.c., essendo ricompresa nell’alveo della responsabilità da informazione non corretta sul mercato, rispondendo ad una necessità di controllo avvertita dall’intera società attraverso la tutela dell’ordinata conduzione del mercato.
Colui che agisce in giudizio contro i revisori, deve fornire la prova: (i) dell’inadempimento ai loro doveri attraverso la violazione delle regole tecniche e dei principi internazionali di revisione oltre che delle comuni regole di diligenza e prudenza nell’accertamento della corrispondenza alla realtà della rappresentazione contabile dei fatti di gestione contenuta nelle scritture contabili e trasfusa nei bilanci; (ii) del pregiudizio economico arrecato alla sfera giuridica del terzo o del socio, dal conseguente mancato rilievo della discrepanza tra la situazione patrimoniale, economica e finanziaria reale della società e quella rappresentata nei bilanci attestati senza rilievo; (iii) del nesso causale tra la condotta illecita ed il pregiudizio economico, in modo tale che quest’ultimo costituisca, ai sensi dell’art. 1223 c.c., conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento da parte dei revisori ai loro doveri.
Ai sensi dell’art. 15, co. 3, d.lgs.39/2010 l’azione di risarcimento nei confronti dei revisori si prescrive nel termine di cinque anni dalla data della relazione di revisione sul bilancio d’esercizio o consolidato emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento. La disciplina di derivazione comunitaria (Direttiva 43/06 e Racc CE 5-6-2008) è il risultato di una scelta del legislatore di equilibrio tra l’esigenza di garantire al danneggiato la possibilità di agire per il pieno ristoro del suo pregiudizio e quella di contenere l’eccessiva esposizione del revisore per troppo lungo ed incerto tempo. Il legislatore, dunque, al fine del raggiungimento degli obiettivi delle direttive comunitarie e seguendo le raccomandazioni in materia da parte della Commissione Europea, ha deciso, da un lato, di lasciare in capo ai revisori la responsabilità senza limiti e in solido con gli amministratori; dall’altro, di rendere tuttavia certo il dies a quo della prescrizione, individuato a partire dalla data della relazione di revisione sul bilancio d’esercizio o consolidato emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento. Tale scelta, coerente con gli obiettivi della legislazione comunitaria, non appare irragionevole né eccessivamente limitativa dei diritti dei danneggiati. La specificità della materia del controllo esterno da parte del revisore giustifica la scelta del legislatore di discostarsi dal principio generale ex art 2935 c.c. che vuole che la prescrizione decorra da quando il diritto può esser fatto valere mantenendo, da un lato, la totale responsabilità del revisore in solido con gli organi sociali della società soggetta a revisione (amministratori) predisponendo tuttavia un limite di esposizione temporale che garantisca al revisore di non rimanere esposto sostanzialmente per un periodo di tempo indefinito al rischio di chiamate in corresponsabilità nei confronti di soggetti la cui individuazione ex ante è praticamente impossibile. Ciò al fine di permettere ai revisori, nell’ambito di quel contemperamento con gli interessi degli investitori, di avere contezza certa di quali possano essere i periodi contestabili nonché di sapere ex post nei confronti di quali soggetti la responsabilità solidale possa permanere. L’inadempimento imputabile ai revisori riguarda l’esercizio negligente dell’attività di revisione di ogni singolo bilancio dove il pregiudizio informativo è istantaneo e si verifica con la pubblicazione del bilancio non veritiero corredato del parere del revisore; l’eventuale differimento della manifestazione all’esterno della lesione al bene giuridico tutelato costituisce un ostacolo di mero fatto, non derivante da cause giuridiche che ostacolino l’esercizio del diritto le sole che, nell’ambito dei principi generali, cui però fa eccezione la disciplina speciale ex d.lgs. 39/2010, possono impedire la decorrenza del termine di prescrizione.
Ai sensi dell’art. 15 d. lgs. 39/2010, i revisori legali e la società di revisione legale rispondono, in solido tra loro e con gli amministratori, nei confronti della società, dei suoi soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento dei loro doveri. L’attività di revisione è preordinata a svolgere un controllo in relazione alla regolarità formale e sostanziale delle operazioni contabili effettuate sui fatti di gestione e sul bilancio da parte della società revisionata, rilasciandone all’esito la relativa attestazione. Dunque, la sua attività è costituita da un complesso di verifiche allo scopo di esprimere un giudizio indipendente e veritiero sull’attendibilità della documentazione contabile e di bilancio del soggetto oggetto di verifica. Tale opera è volta, in esecuzione di un rapporto di carattere privatistico, a realizzare l’interesse pubblico della protezione dei mercati. L’attività dei revisori è delineata all’art. 14 d.lgs. n. 39/2010, che ne regolamenta gli obblighi, tra i quali rientra la verifica, strumentale alla prestazione principale del revisore, della regolare tenuta della contabilità della società soggetta a revisione, nonché la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabile. Tale attività comporta verso i singoli risparmiatori e investitori responsabilità di natura extracontrattuale ex art. 2043 c.c. e 2409 sexies c.c., essendo ricompresa nell’alveo della responsabilità da informazione non corretta sul mercato, rispondendo ad una necessità di controllo avvertita dall’intera società attraverso la tutela dell’ordinata conduzione del mercato.
Colui che agisce in giudizio contro i revisori, deve fornire la prova: (i) dell'inadempimento ai loro doveri attraverso la violazione delle regole tecniche e dei principi internazionali di revisione oltre che delle comuni regole di diligenza e prudenza nell'accertamento della corrispondenza alla realtà della rappresentazione contabile dei fatti di gestione contenuta nelle scritture contabili e trasfusa nei bilanci; (ii) del pregiudizio economico arrecato alla sfera giuridica del terzo o del socio, dal conseguente mancato rilievo della discrepanza tra la situazione patrimoniale, economica e finanziaria reale della società e quella rappresentata nei bilanci attestati senza rilievo; (iii) del nesso causale tra la condotta illecita ed il pregiudizio economico, in modo tale che quest'ultimo costituisca, ai sensi dell'art. 1223 c.c., conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento da parte dei revisori ai loro doveri.
Ai sensi dell’art. 15, co. 3, d.lgs.39/2010 l’azione di risarcimento nei confronti dei revisori si prescrive nel termine di cinque anni dalla data della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio o consolidato emessa al termine dell'attività di revisione cui si riferisce l'azione di risarcimento. La disciplina di derivazione comunitaria (Direttiva 43/06 e Racc CE 5-6-2008) è il risultato di una scelta del legislatore di equilibrio tra l’esigenza di garantire al danneggiato la possibilità di agire per il pieno ristoro del suo pregiudizio e quella di contenere l’eccessiva esposizione del revisore per troppo lungo ed incerto tempo. Il legislatore, dunque, al fine del raggiungimento degli obiettivi delle direttive comunitarie e seguendo le raccomandazioni in materia da parte della Commissione Europea, ha deciso, da un lato, di lasciare in capo ai revisori la responsabilità senza limiti e in solido con gli amministratori; dall’altro, di rendere tuttavia certo il dies a quo della prescrizione, individuato a partire dalla data della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio o consolidato emessa al termine dell'attività di revisione cui si riferisce l'azione di risarcimento. Tale scelta, coerente con gli obiettivi della legislazione comunitaria, non appare irragionevole né eccessivamente limitativa dei diritti dei danneggiati. La specificità della materia del controllo esterno da parte del revisore giustifica la scelta del legislatore di discostarsi dal principio generale ex art 2935 c.c. che vuole che la prescrizione decorra da quando il diritto può esser fatto valere mantenendo, da un lato, la totale responsabilità del revisore in solido con gli organi sociali della società soggetta a revisione (amministratori) predisponendo tuttavia un limite di esposizione temporale che garantisca al revisore di non rimanere esposto sostanzialmente per un periodo di tempo indefinito al rischio di chiamate in corresponsabilità nei confronti di soggetti la cui individuazione ex ante è praticamente impossibile. Ciò al fine di permettere ai revisori, nell’ambito di quel contemperamento con gli interessi degli investitori, di avere contezza certa di quali possano essere i periodi contestabili nonché di sapere ex post nei confronti di quali soggetti la responsabilità solidale possa permanere. L’inadempimento imputabile ai revisori riguarda l’esercizio negligente dell’attività di revisione di ogni singolo bilancio dove il pregiudizio informativo è istantaneo e si verifica con la pubblicazione del bilancio non veritiero corredato del parere del revisore; l’eventuale differimento della manifestazione all’esterno della lesione al bene giuridico tutelato costituisce un ostacolo di mero fatto, non derivante da cause giuridiche che ostacolino l'esercizio del diritto le sole che, nell’ambito dei principi generali, cui però fa eccezione la disciplina speciale ex d.lgs. 39/2010, possono impedire la decorrenza del termine di prescrizione.
Ai fini della qualificazione dei versamenti effettuati dal socio a favore della società occorre avere riguardo all'esame della volontà negoziale delle parti e la relativa prova, di cui è onerato il socio attore in restituzione, deve trarsi dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi.
In mancanza di una chiara manifestazione di volontà, occorre avere riguardo alla qualificazione che i versamenti hanno ricevuto nel bilancio, da reputarsi determinante per stabilire se si tratti di finanziamento o di conferimento, in considerazione della soggezione del bilancio all’approvazione dei soci.
La scrittura privata contenente l’impegno diretto e immediato del socio a erogare somme a titolo di finanziamento soci a favore della società dal medesimo partecipata costituisce una promessa di pagamento ai sensi dell’art. 1988 c.c., di cui la società può giovarsi. Detta scrittura non può essere qualificata alla stregua di una mera lettera di patronage “forte”, differenziandosi per la circostanza giusta la quale quest’ultima contiene normalmente l’assunzione di una garanzia atipica nei confronti di una banca al fine di ottenere un finanziamento, per esempio attraverso l’impegno a mantenere la propria partecipazione della società debitrice. Nemmeno può essere qualificata quale lettera di patronage l’ipotesi in cui il patrocinante assuma un’espressa obbligazione di finanziare la società della somma corrispondente a quanto la società medesima deve restituire alla banca in quel momento storico.