La nozione di “associazione”, richiesta dall’art. 20 lett. b) c.p.i. per l’integrazione della fattispecie di contraffazione dei marchi, non costituisce un’alternativa alla nozione di “rischio di confusione”, limitandosi a precisarne l’estensione. La semplice associazione tra due marchi che potrebbe essere stabilita dal pubblico non è sufficiente, da sola, per concludere che esista un rischio di confusione.
La condotta consistente nella commercializzazione di una confezione che riproduce caratteristiche salienti e distintive del packaging della concorrente integra la fattispecie della concorrenza sleale per agganciamento di cui all’art. 2598 n. 2 c.c. (look alike); tale agganciamento sussiste quando è finalizzato a richiamare alla mente del consumatore il prodotto della concorrente, sfruttando l’altrui lavoro e l’altrui investimento per l’accreditamento del nuovo prodotto, ma non idoneo a creare confusione, e pertanto ad integrare la fattispecie confusoria della concorrenza sleale di cui all’art. 2598 n. 1 c.c. e, a fortiori, la fattispecie della contraffazione di marchi.
Il criterio della retroversione degli utili, alternativo e non cumulativo con quello del lucro cessante, non deroga alla necessità della sussistenza del nesso causale tra la violazione e il profitto conseguito, da accertarsi in concreto. L’incremento patrimoniale del contraffattore o dell’autore dell’illecito non deve, cioè, essere ascrivibile all’opera da questi autonomamente svolta.