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Antonio Bramanti

Antonio Bramanti

Iscritto all’Albo degli Avvocati di Firenze. Ha conseguito un LLM in International Financial Law presso il King’s College London. Attualmente collabora con Deloitte Legal, dove svolge attività di assistenza e consulenza legale nell’ambito di operazioni di fusioni e acquisizioni, corporate finance, private equity, nonché su tematiche attinenti alla corporate governance e alla contrattualistica d’impresa.

11 Giugno 2024

Fase liquidatoria e recesso del socio

La società rileva sul piano giuridico non solo come contratto, ma anche come forma di organizzazione di un’attività economica da svolgere nei confronti di altri soggetti. Questo spiega perché il suo scioglimento non faccia venir meno la forza vincolante dell’atto dal quale ha avuto origine, ma segni l’inizio di una nuova fase, la liquidazione, destinata a definire i molteplici rapporti derivati dall’esercizio dell’attività programmata e a ripartire l’eventuale residuo tra i soci. Invero, il verificarsi di un fatto che determina lo scioglimento della società non comporta la cessazione dell’autonomia patrimoniale, che anzi si rafforza (artt. 2271 e 2280 c.c.), non libera i soci dall’obbligo di effettuare i conferimenti (art. 2280, co. 2, c.c.), né determina la dissoluzione dell’organizzazione sociale, poiché anche in tale fase è individuabile una ripartizione di organi e di competenze finalizzata al raggiungimento di una finalità di comune interesse, ossia la definizione delle passività sociali, che la legge considera necessariamente collegata alla gestione delle società (art. 2280 c.c.). Ciò sta ad indicare che, benché sciolta, la società permane come gruppo organizzato e che i soci continuano a essere titolari di diritti e di obblighi. Conseguentemente, durante il procedimento di liquidazione, i soci comunque continuano a essere titolare di diritti e di obblighi non venendo meno la possibilità di scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio. Considerando il regime della liquidazione del socio recedente ex art. 2437 quater c.c., che prospetta il recesso come un costo per la società solo in via eventuale nell’ipotesi in cui le partecipazioni del recedente non siano state acquistate dai soci o da terzi, il conflitto tra liquidazione del socio recedente e creditori sociali è solo eventuale e la disciplina del recesso dà priorità alla tutela di questi ultimi. Pertanto, lo stato di liquidazione della società non costituisce un limite all’esercizio del recesso, se durante la liquidazione si configura una causa legale o statutaria di recesso. Inoltre, nessuna norma del codice civile dispone nel senso della incompatibilità tra causa di scioglimento individuale del socio e stato di scioglimento della società con relativa liquidazione della stessa, non rinvenendosi, nell’ambito della disciplina delle società, una prevalenza delle cause di scioglimento della società rispetto allo scioglimento del singolo rapporto sociale. La dichiarazione di recesso del socio non ha come effetto immediato quello dello scioglimento del rapporto sociale, in quanto questo è il risultato di un procedimento i cui momenti possono essere così individuati: decorso dello spatium deliberandi della società per la revoca della delibera o la decisione di porsi in scioglimento/determinazione del valore della partecipazione/liquidazione della partecipazione al socio nelle sue varie forme. Ne consegue che il socio con la dichiarazione di recesso non perde automaticamente il suo status di socio acquisendo quello di creditore della società, ma continua a far parte della società finché non è conclusa tutta la fase di liquidazione della quota. Lo stesso socio recedente, pertanto, non assume la veste di creditore, non esistendo, in effetti, dall’altra parte una posizione debitoria predefinita nel quantum e nella individuazione dell’elemento soggettivo della obbligazione. Un credito liquido ed esigibile del socio nei confronti della società per il recesso intervenuto nella fase liquidatoria sorge solo con l'approvazione del bilancio di liquidazione. La disposizione di cui all’art. 2491, co. 2, c.c., secondo cui i liquidatori non possono ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione, salvo che dai bilanci risulti che la ripartizione non incide sulla disponibilità di somme idonee alla integrale e tempestiva soddisfazione dei creditori sociali, è espressione del principio di carattere generale per il quale ogni distribuzione patrimoniale in favore dei soci deve essere subordinata alla certezza di non compromettere la tenuta finanziaria della società, assumendo questo principio nella liquidazione un valore particolarmente significativo. [ Continua ]

Classificazione e criteri per la qualificazione degli apporti dei soci

Gli apporti effettuati dai soci sono generalmente classificati come finanziamenti, versamenti in conto capitale o a fondo perduto o versamenti in conto futuro aumento di capitale. I finanziamenti fanno sorgere un vero e proprio obbligo di restituzione da parte della società e, come tali, sono appostati nella classe D del passivo dello stato patrimoniale, tra i debiti verso soci per finanziamenti. I versamenti in conto capitale o a fondo perduto sono apporti non comportanti obbligo di restituzione, non legati a una specifica e prospettica operazione sul capitale, idonei a irrobustire il patrimonio netto della società e dotarla di mezzi propri. Come tali, non sono appostati a debito ma a riserva, nella classe A del passivo dello stato patrimoniale, e restano definitivamente acquisiti dalla società. Infine, i versamenti in conto futuro aumento di capitale sono versamenti corrispondenti a veri e propri acconti su versamenti che saranno dovuti, in ragione dell’intenzione di sottoscrivere un determinato aumento di capitale, ancora non deliberato ma pur sempre individuato con un certo grado di chiarezza. In altri termini, appaiono come apporti risolutivamente condizionati alla mancata, successiva, deliberazione di aumento del capitale nominale della società. Essi devono essere iscritti in bilancio come riserva, e non come finanziamento soci, in quanto, ove l’aumento intervenga, le somme confluiscono automaticamente nel capitale sociale, mentre, in caso contrario, devono essere restituiti, in conseguenza del mancato perfezionamento della fattispecie programmata. Stabilire se una determinata dazione tragga origine da un mutuo o se invece sia stato effettuato quale apporto del socio al patrimonio della società è questione di interpretazione, riservata al giudice del merito. L’indagine sul punto deve tenere conto soprattutto del modo in cui concretamente è stato attuato il rapporto, tenendo conto delle finalità pratiche perseguite, degli interessi implicati e della reale intenzione dei soggetti - socio e società - tra i quali il rapporto si è instaurato. In particolare, per qualificare la dazione come versamento in conto futuro aumento di capitale, l’interprete deve verificare che la volontà delle parti di subordinare il versamento all’aumento di capitale risulti in modo chiaro e inequivoco, utilizzando, all’uopo, indici di dettaglio (quali l’indicazione del termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, il comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o nella nota integrativa al bilancio, clausole statutarie) e, comunque, qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti, non essendo sufficiente la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili. [ Continua ]

Compenso all’amministratore: competenza della sezione specializzata in materia di impresa ed eccezione di inadempimento

La controversia introdotta da un amministratore nei confronti della società e riguardante le somme da quest’ultima dovute in relazione all’attività espletata dal primo va attribuita alla cognizione della sezione specializzata in materia di impresa, poiché la formulazione dell’art. 3, co. 2, lett. a, del d.lgs. n. 168 del 2003, facendo riferimento alle cause e ai procedimenti “relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario”, si presta a ricomprendere, quale specie di questi, tutte le liti che vedano coinvolti la società e i suoi amministratori, senza poter distinguere fra quelle che riguardino l’agire degli amministratori nell’espletamento del rapporto organico e i diritti che, sulla base dell’eventuale contratto stipulato con la società, siano stati da quest’ultima riconosciuti a titolo di compenso. In tema di ripartizione dell’onere probatorio tra il soggetto attivo e il soggetto passivo del rapporto obbligatorio, il debitore convenuto che si avvalga dell’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c. può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento; viceversa, il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento e ciò anche nell’ipotesi in cui sia eccepito non l’inadempimento dell’obbligazione, bensì il suo inesatto adempimento, essendo sufficiente che il creditore istante alleghi l’inesattezza dell’adempimento, gravando sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento. [ Continua ]

La business judgment rule opera solo in assenza di un conflitto di interessi

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall. ha carattere unitario e inscindibile poiché cumula le azioni disciplinate dagli artt. 2393 e 2394 c.c. in un’unica azione finalizzata alla reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia dei soci e dei creditori, in modo tale che, venendo a mancare i presupposti dell’una, soccorrono i presupposti dell’altra. In caso di fallimento, pertanto, le diverse azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci di una società di capitali previste dal codice civile, pur rimanendo tra loro distinte, confluiscono nell’unica azione di responsabilità esercitabile da parte del curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall., la quale implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne muta i presupposti. L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale e si configura come un’azione risarcitoria volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del suo depauperamento cagionato dagli effetti dannosi provocati dalle condotte dolose o colpose degli amministratori poste in essere in violazione degli obblighi su di loro gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo, ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo. La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comporta che quest'ultima ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni e il nesso di causalità fra queste e il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sui sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. Il danno risarcibile è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente e, in difetto di tale allegazione e prova, la domanda risarcitoria mancherebbe di oggetto. La mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo. Una correlazione tra le condotte dell’organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall’intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che, proprio in ragione di esse, l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza. La figura dell’amministratore di fatto ricorre nelle ipotesi in cui un soggetto non formalmente investito della carica di amministratore si ingerisce nell’amministrazione, esercitando i poteri propri inerenti alla gestione della società. Tali funzioni gestorie esercitate in via di fatto debbono avere carattere sistematico e non esaurirsi nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e occasionale. All’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere e, quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità. L’insindacabilità delle scelte di gestione dell’amministratore trova un limite anche nella presenza di una situazione di conflitto di interesse non manifestata. Sussiste un conflitto di interessi quando gli interessi di cui sono portatori l'amministratore e la società sono in una relazione di incompatibilità, tale per cui il perseguimento dell'uno comporta il necessario sacrificio dell'altro. Ciò significa che al vantaggio conseguibile dall’amministratore in base all’operazione deve corrispondere, anche se non in modo necessariamente proporzionale, uno svantaggio della società, che può anche consistere in un mancato guadagno. Il comportamento dell’amministratore che agisce in conflitto di interessi deve ritenersi sindacabile sotto il profilo della violazione del generale dovere di correttezza cui egli è tenuto nel rapporto con la società. Ai sensi degli artt. 2482 bis e 2482 ter c.c., gli amministratori, in caso di perdita di oltre un terzo del capitale, devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la sola ed eventuale riduzione del capitale e non anche la messa in liquidazione, a meno che la perdita non comporti la riduzione al disotto del capitale minimo. Nel caso in cui il minimo legale non sia stato intaccato, la riduzione non è obbligatoria, potendo la società decidere di portare a nuovo le perdite, ma sussiste comunque l’obbligo, per gli amministratori, di convocare l’assemblea senza indugio per l’adozione degli opportuni provvedimenti e di redigere una relazione sulla situazione patrimoniale della società con le osservazioni del collegio sindacale o del revisore. In tal caso, la riduzione del capitale sociale ha funzione meramente dichiarativa, tendente a far coincidere l’entità del capitale nominale con quello effettivo, riconducendo il primo alla misura del secondo, se e in quanto questo sia realmente divenuto inferiore all’ammontare indicato nell’atto costitutivo. [ Continua ]
3 Settembre 2024

La ripartizione della perdita in caso di condebitore insolvente richiede la prova dell’insolvenza

Ai sensi dell’art. 1299, co. 2, c.c., il condebitore che, nell’esercitare l’azione di regresso nei confronti degli altri condebitori in solido per il debito pagato ultra-quota, voglia ripartire la perdita derivante dall’insolvenza di uno di loro, ha l’onere di provare che, al momento dell’esercizio dell’azione di regresso, il patrimonio del condebitore è insolvibile. La prova dell’insolvenza può essere data con qualsiasi mezzo, anche per presunzioni, senza che sia necessario provare l’inutile esperimento di un’azione di recupero del credito; la prova presuntiva, però, deve fondarsi su adeguati elementi gravi, precisi e concordanti. A tale riguardo, la mera circostanza che il condebitore non sia proprietario di alcun immobile non è sufficiente a ritenerlo insolvente, specialmente in caso di mancata allegazione con riguardo alle consistenze mobiliari o ai crediti sottoponibili a esecuzione. [ Continua ]
31 Luglio 2024

Denunzia al tribunale: il provvedimento di revoca dell’amministratore è limitato ai casi più gravi

Il provvedimento di revoca dell’amministratore di cui all’art. 2409, co. 4, c.c., è da riservarsi ai “casi più gravi”, cioè alle irregolarità gravissime. Il richiamo espresso solo ai “casi più gravi”, segna la latitudine oggettiva massima della fattispecie e, conseguentemente, consente, per i casi di irregolarità gravi ma non gravissime, una modulazione del provvedimento da adattare alla molteplicità e varietà delle situazioni che possono presentarsi. Gli opportuni provvedimenti provvisori di cui all’art. 2409, co. 4, c.c. hanno per lo più natura inibitoria e quindi una portata non adeguata alle situazioni in cui non si tratta di inibire, ma di promuovere comportamenti corretti. Il mutamento dell’organo amministrativo della società non comporta di per sé l’improcedibilità del ricorso ex art. 2409 c.c., atteso che l’attività di controllo giudiziario deve essere proseguita fino a quando non siano definitivamente dissipati i sospetti di gravi irregolarità. [ Continua ]
9 Settembre 2024

L’acquisizione di fondi effettuata sulla base di trattative personalizzate non costituisce raccolta di risparmio tra il pubblico

L’art. 11, co. 3, t.u.b. attribuisce al Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio (CICR) il potere di stabilire limiti e criteri in base ai quali non costituisce raccolta vietata del risparmio tra il pubblico quella effettuata presso specifiche categorie. In data 19 luglio 2005, il CICR ha emanato la delibera n. 1058, la quale, nel disciplinare, tra l'altro, la “Raccolta presso soci”, consente in via generale alle società di capitali di raccogliere finanziamenti presso soci, in deroga alle regole generali, purché la facoltà sia prevista nello statuto, i soci finanziatori detengano almeno il 2% del capitale sociale risultante dall’ultimo bilancio approvato ed essi siano iscritti nel libro soci da almeno tre mesi. La medesima delibera CICR specifica, altresì, all’art. 2, co. 2, che non costituisce raccolta di risparmio tra il pubblico anche l’acquisizione di fondi effettuata “sulla base di trattative personalizzate con singoli soggetti, mediante contratti dai quali risulti la natura di finanziamento”. Ne deriva che, qualora l’obbligo di versamento che il socio assume nasca da trattativa personalizzata, l'accordo di finanziamento non risulta nullo per violazione delle norme che disciplinano la raccolta del risparmio tra il pubblico. [ Continua ]
25 Maggio 2024

OPA obbligatoria su titoli AIM: competenza sezioni specializzate e vincolatività delle determinazioni del Panel

Le società italiane medio piccole le cui azioni sono negoziate in mercati alternativi sono assoggettate a oneri e regole meno rigorose rispetto a quelle quotate in borsa. Ai sensi di legge, le società i cui titoli sono negoziati su AIM Italia non sarebbero soggette alla disciplina delle offerte pubbliche obbligatorie. Tuttavia, a tutela degli investitori, il Regolamento Emittenti AIM Italia prevede, all’art. 6 bis (anche mediante il richiamo alla Scheda Sei), che gli statuti di queste emittenti debbano inserire precise previsioni in materia di offerta pubblica di acquisto. Tale Regolamento, sostanzialmente, richiede che lo statuto sociale renda applicabili, su base volontaria, le previsioni degli artt. 106 e 109 t.u.f. in tema di offerta obbligatoria successiva totalitaria. Le predette regole non sono amministrate da Consob ma da un panel di esperti nominati da Borsa Italiana. Tale disciplina è coerente con quanto previsto dall’art. 106 t.u.f., che, al verificarsi di alcune circostanze tassativamente elencate dalla legge, affida alla Consob il potere di rettificare al rialzo il prezzo dell’OPA, mediante l’adozione di un apposito provvedimento. Nel caso di società le cui partecipazioni sono quotate in AIM Italia, qualunque interessato può ricorrere al panel in base alle disposizioni sopra richiamate di cui alla Scheda Sei del predetto Regolamento, recepite nei singoli statuti. L’intervento del panel va equiparato a quello di un collegio di probiviri, la cui terzietà è garantita dal fatto che la nomina dei singoli esperti è demandata a Borsa Italiana, avente la funzione di prevenire o dirimere ogni questione o controversia che possa insorgere durante lo svolgimento dell’offerta, comprese quelle relative alla determinazione del prezzo. Tale intervento, in quanto necessariamente preventivo, è destinato ad avere efficacia nei confronti non solo dei soci che vi hanno fatto ricorso, ma anche di tutti gli altri soci. Diversamente ragionando, le decisioni del panel relative alla determinazione del prezzo avrebbero efficacia di mera raccomandazione nei confronti dei soli soci hanno attivato l’intervento degli arbitri, sicché in tal modo verrebbe vanificata la funzione di regolamentazione preventiva dello svolgimento dell’offerta che il sistema riconosce agli arbitri. Considerato che la normativa di settore demanda al panel, ovvero a un collegio di probiviri, e non a Consob, il potere di dirimere tutte le controversie relative all’interpretazione ed esecuzione delle clausole statutarie che disciplinano l’offerta pubblica di acquisto, l’origine dei poteri decisori del collegio dei probiviri è volontaria (negoziale), con la conseguenza che, nel caso di società emittenti AIM Italia, eventuali richiami al potere autoritativo di Consob appaiono inconferenti. In base a quanto previsto nella Scheda Sei allegata al Regolamento Emittenti AIM, le determinazioni del panel sulle controversie relative all’interpretazione ed esecuzione della clausola in materia di offerta pubblica di acquisto sono rese secondo diritto, con rispetto del principio del contraddittorio. Il ricorso agli arbitri, dotati di effettiva terzietà, assume la stessa valenza di un arbitrato rituale, da cui consegue la vincolatività/obbligatorietà delle decisioni assunte nei confronti della società e dei soci. Conseguentemente, salvo che vi siano contestazioni circa la manifesta infondatezza o iniquità delle conclusioni cui è giunto il panel, il tribunale non può entrare nel merito dei criteri applicati per giungere a tale determinazione, ma solo accertare e dichiarare la vincolatività per tutte le parti (società e azionisti) di tale decisione. La ratio giustificatrice del foro speciale di cui all’art. 23 c.p.c. va ricercata nella considerazione che il giudice del luogo in cui si trova la sede della società è quello più idoneo a conoscere della controversia avente ad oggetto il “rapporto sociale”, mentre le controversie che riguardano le vicende traslative delle partecipazioni sociali, a cui può naturalmente accedere il mutamento soggettivo della compagine sociale come effetto del passaggio di proprietà delle quote, non vale a trasformare la lite in una controversia avente ad oggetto il rapporto sociale. D’altro canto, l’art. 3, co. 2, lett. a, d.lgs. 168/2003 individua l’esistenza della competenza per materia delle sezioni specializzate in materia di impresa, riferendola alle cause e ai procedimenti relativi a rapporti societari, ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario; ancora, la successiva lett. b specifica che rientrano al pari nella competenza del giudice specializzato anche le cause e i procedimenti relativi ai trasferimenti delle partecipazioni sociali o ogni altro negozio avente ad oggetto partecipazioni sociali o i diritti inerenti, vicende traslative ritenute non assimilabili a (o comunque non ricomprese in) quelle inerenti “ai rapporti societari”, tanto da giustificare una separata e autonoma menzione. Ne deriva che una controversia relativa alla corretta determinazione del prezzo di cessione di partecipazioni sociali è inidonea a incidere sulla “vita” della società, che resta del tutto estranea alla soluzione della questione. [ Continua ]