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Gabriele Azoti

Gabriele Azoti

Laureato in Giurisprudenza all'Università Bocconi con una tesi in diritto societario. Praticante avvocato presso lo studio legale Masotti Cassella.

22 Aprile 2024

Sulla revoca in assenza di giusta causa dell’amministratore

Il rapporto intercorrente tra la società di capitali e il suo amministratore è di immedesimazione organica e a esso non si applicano né l'art. 36 cost., né l'art. 409, co. 1, n. 3, c.p.c. Ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni. La rinuncia al compenso da parte dell'amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto. Le norme di cui agli artt. 2383, co. 3, e 1725, co. 2, c.c., riferite al rapporto societario di amministrazione, sono derogabili, sia perché hanno ad oggetto rapporti puramente patrimoniali, sia perché non hanno riflessi né su diritti di terzi né su aspetti concernenti la struttura corporativa dell’ente. Non sussistono, dunque, motivi per ritenere non disponibile per via statutaria la disciplina delle conseguenze della cessazione del rapporto amministrativo per effetto di revoca. Il diritto al risarcimento dell’amministratore revocato in assenza di giusta causa sorge a seguito di un atto giusto della società amministrata – configurandosi la revoca dell’amministratore quale diritto potestativo, salvo il caso estremo dell’abuso – talché esso è più propriamente qualificabile in termini di diritto a un indennizzo, avendo l'art. 2383, co. 3, c.c. utilizzato il sintagma “risarcimento del danno” per assicurare all’amministratore avente diritto il pieno ristoro del pregiudizio subito piuttosto che per affermarne la derivazione da fatto ingiusto. Sul piano più propriamente organizzativo / corporativo si può riconoscere meritevole di tutela l’interesse della società a estendere al massimo, per via statutaria, il proprio diritto potestativo di revoca, negando accesso, a fronte della decisione di revoca, a valutazioni o pretese di sorta circa il fondamento di quella decisione, nonché alle correlative controversie. Il pregiudizio ai diritti della persona (onore, reputazione, identità personale, ecc.) subito dall’amministratore revocato in assenza di giusta causa è distinto da quello derivante dalla lesione del diritto alla prosecuzione della carica sino a naturale scadenza. Il danno ulteriore ai diritti della persona si può verificare allorché, ad esempio, eventuali dichiarazioni contenute rese in occasione della revoca costituiscano un’attività ingiuriosa o diffamatoria, animata da colpa o da dolo, posta in essere dalla società, lesiva del prestigio professionale dell’amministratore; oppure quando le concrete modalità della cessazione del rapporto, esterne alla deliberazione, si palesino contra ius. Tuttavia, di tali ulteriori e diversi danni l’amministratore deve offrire puntuale allegazione. Tale puntuale allegazione dovrebbe estrinsecarsi, da un lato, nell’individuazione del diritto leso e, dall’altro, nella chiara e specifica allegazione delle dichiarazioni/deliberazioni o comportamenti lesivi di quei diritti. [ Continua ]
22 Aprile 2024

Finanziamenti infragruppo postergati e responsabilità di amministratori e sindaci

Nella situazione in cui la holding, operando già a patrimonio netto negativo e quindi in modo tale da traslare sui propri creditori il rischio delle sue nuove iniziative imprenditoriali, esegue finanziamenti nei confronti di una società controllata operativa a sua volta sull’orlo dell’insolvenza non sono configurabili i cc.dd. vantaggi compensativi che presuppongono l’operatività secondo criteri di economicità di tutte le società del gruppo in modo tale che l’impiego delle risorse a favore di una controllata sia effettivamente compensato nel patrimonio della controllante dal risalire dei proventi dell’attività della controllata operativa in misura tale da assicurare il soddisfacimento anche del suo ceto creditorio. Non valgono, quindi, a configurare vantaggi compensativi per la massa dei creditori della holding che opera a patrimonio netto negativo né la destinazione del finanziamento alla riduzione del passivo della controllata di cui hanno beneficiato solo i suoi creditori, né la liberazione dalle garanzie prestate tramite un’altra società controllata di cui si è avvantaggiata semmai solo la massa dei creditori della controllata garante. L’art. 2467 c.c. si applica anche ai finanziamenti eseguiti dai soci amministratori di società per azioni. [ Continua ]
25 Giugno 2024

La domanda implicita di risoluzione del contratto

La domanda di risoluzione del contratto sulla base di una clausola risolutiva espressa è diversa da quella di risoluzione del contratto per grave inadempimento: sia quanto al petitum, perché invocando la risoluzione ai sensi dell'articolo 1453 c.c., si chiede una sentenza costitutiva mentre la domanda di cui all'articolo 1456 c.c. ne postula una dichiarativa; sia relativamente alla causa petendi, perché nella ordinaria domanda di risoluzione, ai sensi dell'articolo 1453 c.c., il fatto costitutivo è l'inadempimento grave e colpevole, nell'altra, viceversa, la violazione della clausola risolutiva espressa. In tema di inadempimento contrattuale, mentre nella proposizione di una domanda di risoluzione di diritto per l'inosservanza di una diffida ad adempiere può ritenersi implicita, in quanto di contenuto minore, anche quella di risoluzione giudiziale di cui all'art. 1453 c.c., non altrettanto può dirsi nell'ipotesi inversa, nella quale sia stata proposta soltanto quest'ultima domanda, restando precluso l'esame di quella di risoluzione di diritto, a meno che i fatti che la sostanziano siano stati allegati in funzione di un proprio effetto risolutivo. La volontà di risolvere un contratto di compravendita per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalle parti in giudizio, ben potendo essere implicitamente contenuta in un'altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che presupponga la domanda di risoluzione. Ciò in quanto il giudice del merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale. [ Continua ]
23 Giugno 2024

Abuso della regola di maggioranza e sindacato del giudice

La società è frutto, ai sensi dell’art. 2247 c.c., di un contratto nell’esecuzione del quale le parti devono attenersi ai principi generali e ai limiti di derivazione negoziale; le determinazioni prese dai soci durante lo svolgimento del rapporto associativo debbono, invero, essere considerate, a tutti gli effetti, come veri e propri atti preordinati alla migliore esecuzione del contratto sociale, donde l’estensione anche alle deliberazioni assembleari del principio di buona fede ex art. 1375 c.c. In applicazione del principio di buona fede in senso oggettivo al quale deve essere improntata l'esecuzione del contratto di società, la cosiddetta regola di maggioranza consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite dell'altrui potenziale danno. L'abuso della regola di maggioranza (altrimenti detto abuso o eccesso di potere) è, quindi, causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell'interesse della società per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale, oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli. L'onere di provare che il socio di maggioranza abbia abusato del proprio diritto di voto grava sul socio di minoranza che assume l'illegittimità della deliberazione. Il sindacato del giudice deve rimanere nei limiti della verifica della legittimità dell’agire della maggioranza, non potendo spingersi nel merito dell’attività gestoria e, quindi, riguardare i motivi che hanno indotto la maggioranza dei soci ad adottare una delibera piuttosto che un’altra, in assenza della prova di un animus nocendi nei termini detti. [ Continua ]
12 Febbraio 2024

Deliberazione assembleare di s.r.l. in difetto di regolare convocazione e onere della prova

L'art. 2479 ter, co. 3, c.c. (che annovera tra le ipotesi di nullità  della delibera assembleare quella in cui essa venga adottata in assenza assoluta di informazione) tutela il diritto inderogabile di partecipazione di ciascun socio alle decisioni sociali e si rivolge sia ai casi in cui i soci non abbiano ricevuto l'avviso di convocazione, sia ai casi in cui l'abbiano ricevuto in difetto dei presupposti minimi di contenuto fissati dalla norma, come quando l'avviso: non risulti proveniente da un componente degli organi sociali o dai soci (ove a ciò legittimati); non sia stato inviato preventivamente a tutti gli aventi diritto; non sia idoneo a consentire a coloro che hanno diritto di intervenire di essere preventivamente avvertiti della convocazione e della data dell'assemblea (fermo rimanendo che in virtù del richiamo all'art. 2379 bis c.c., la partecipazione totalitaria del capitale sociale sana il vizio di omessa convocazione). Nel caso di deliberazione adottata dall'assemblea di una società a responsabilità limitata, in difetto di regolare convocazione, qualora nel relativo verbale sia dato atto della partecipazione di tutti i soci - personalmente, ovvero in quanto rappresentati su delega - incombe su colui il quale impugna la deliberazione l'onere di provare il carattere non totalitario dell'assemblea. In tema di prova dell'assenza all'assemblea dei soci, occorre rilevare che la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà consiste in una dichiarazione di scienza relativa a stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato, destinata a produrre effetti esclusivamente nell'ambito di un procedimento amministrativo per favorirne uno svolgimento più rapido e semplificato così come previsto dal D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa), e quindi ad esaurire la sua efficacia nell'ambito dei rapporti con gli organi della P.A. e dei gestori di pubblici servizi, onde consentire l'adozione di determinati provvedimenti amministrativi in favore dell'interessato stesso. Tale qualificazione della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà preclude in radice la possibilità di una sua automatica utilizzazione all'interno del processo civile, caratterizzato da principi incompatibili con la prospettata equiparazione, a fini probatori, di detta dichiarazione sostitutiva nei due diversi ambiti, ovvero quello amministrativo e quello del processo civile. Ove sia prodotta in giudizio la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, essa non può assumere il valore di prova legale, come invece l’atto notorio, per contrastare il quale sarebbe necessaria la querela di falso, ma il giudice è tenuto soltanto a valutare adeguatamente, anche ai sensi dell'art. 115 c.p.c., in conformità al principio di non contestazione, il comportamento in concreto assunto dalla parte nei cui confronti la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà viene fatta valere, con riferimento alla verifica della contestazione o meno del fatto e, nell'ipotesi affermativa, al grado di specificità di tale contestazione, strettamente correlato e proporzionato al livello di specificità del contenuto della dichiarazione sostitutiva suddetta. L’ordine del giorno può assolvere tale funzione soltanto se ha un sufficiente grado di specificità. A tal fine, non è necessaria l’indicazione particolareggiata delle materie da trattare, ma è sufficiente una indicazione sintetica, purché chiara e non ambigua, specifica e non generica. [ Continua ]
12 Febbraio 2024

I soci di s.r.l. titolari di un terzo del capitale sono legittimati a convocare l’assemblea

Con riferimento alla tempestività della convocazione dell’assemblea di s.r.l., salvo che l'atto costitutivo non contenga una disciplina diversa, deve presumersi che l'assemblea sia validamente costituita ogni qual volta i relativi avvisi di convocazione siano stati spediti agli aventi diritto almeno otto giorni prima dell'adunanza (o nel diverso termine eventualmente in proposito indicato dall'atto costitutivo), ma tale presunzione può essere vinta nel caso in cui il destinatario dimostri che, per causa a lui non imputabile, egli non abbia affatto ricevuto l'avviso di convocazione o lo abbia ricevuto così tardi da non consentirgli di prendere parte all'adunanza, in base a circostanze di fatto il cui accertamento e la cui valutazione in concreto sono riservati alla cognizione del giudice di merito. Nelle società a responsabilità limitata, il potere di convocare l'assemblea, in caso di inerzia dell'organo di gestione, deve riconoscersi, nel silenzio della legge e dell'atto costitutivo, ai soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale, stante, da un lato, il mancato richiamo, nella disciplina di tali società, dell'art. 2367 c.c., dettato per le società per azioni e non applicabile in via analogica, attesa la forte differenza tra i due tipi societari, e, dall'altro, l'inutilizzabilità dell'art. 2487 c.c., in quanto relativo alla nomina e revoca non degli amministratori ma dei liquidatori. Tale legittimazione dei soci non può, tuttavia, dirsi esente da limiti: il potere del socio (o dei soci) è, infatti, condizionato, trovando il proprio presupposto legittimante nella inerzia degli amministratori. L'inapplicabilità alle s.r.l. dell'art. 2367 c.c. si spiega non per il fatto che per tali società non sia necessario il requisito dell'inerzia dell'organo gestorio, ma per il fatto che non è prevista, in caso di inerzia dell’organo gestorio, la facoltà dei soci di ricorrere al presidente del tribunale. Resta, dunque, imprescindibile, anche per le s.r.l., l'inerzia dell'organo gestorio quale presupposto per la legittimazione alla convocazione assembleare da parte dei soci che rappresentano il terzo del capitale sociale, a nulla rilevando che, in tema di delibera di revoca dell'amministratore, tale inerzia sia presumibile. Nel giudizio di impugnazione di una deliberazione assembleare si verifica la cessazione della materia del contendere e non si può procedere alla dichiarazione di nullità o all’annullamento della deliberazione impugnata, quando risulti che l’assemblea dei soci, regolarmente riconvocata, abbia validamente deliberato sugli stessi argomenti della deliberazione impugnata. La nuova deliberazione, emessa dall’assemblea nuovamente convocata e regolarmente costituita, deve avere lo stesso oggetto della prima e dalla stessa deve risultare, quanto meno implicitamente, la volontà dell’assemblea di sostituire la deliberazione invalida, ponendo in tal modo in essere un atto sostitutivo ovvero ratificante di quello invalido ed una rinnovazione sanante con effetti retroattivi. [ Continua ]
12 Febbraio 2024

Atti posti in essere in esecuzione della delibera di aumento di capitale annullabile

Il rapporto tra gli artt. 2379 e 2379 ter c.c. è di genere a specie, nel senso che alla regola generale enunciata dall’art. 2379 c.c., l’art. 2379 ter c.c. deroga, introducendo il ben più ridotto termine per l’esercizio dell’azione, ove si tratti della specifica deliberazione di aumento di capitale (oltre che delle altre due tipologie di delibere richiamate nel primo comma e della regolamentazione ulteriormente specifica per le deliberazioni di aumento di capitale delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio). La ratio della norma è pertanto nel senso di fissare i limiti temporali di proponibilità dell’impugnazione delle delibere indicate, per rispondere all’esigenza di stabilizzazione degli effetti delle stesse. Se una delibera di aumento del capitale sociale, ancorché annullabile, non è stata sospesa, e dunque è stata legittimante eseguita, il nuovo assetto delle partecipazioni risultante dalla sottoscrizione dell'aumento è a sua volta legittimo (come legittime sono le successive deliberazioni assunte con la nuova maggioranza, in quanto, di effetto “a catena” sulla legittimità delle delibere in sequenza non può parlarsi). In questo ambito, la tempestiva impugnazione da parte del socio danneggiato dalla delibera di aumento di capitale asseritamente illegittima e, soprattutto, la sua tempestiva sospensione - che paralizzerebbe, altresì, l’efficacia del nuovo assetto delle partecipazioni risultante dalla sottoscrizione dell'aumento di capitale - eviterebbe il prodursi del danno patrimoniale derivante dalla svalutazione della propria partecipazione, interrompendosi, in tal modo, il nesso di causalità tra l’allegato fatto lesivo e il pregiudizio consequenziale. [ Continua ]
27 Novembre 2023

La prescrizione del diritto alla restituzione di un finanziamento infragruppo effettuato in regime di cash pooling

L’applicazione dell’art. 2949, co. 1, c.c., che fissa un termine prescrizionale breve per i diritti aventi origine da rapporti sociali, non ha portata smisurata, bensì ristretta, riguardando unicamente i diritti che derivano da rapporti inerenti all’organizzazione sociale in dipendenza diretta con il contratto sociale, nonché da rapporti relativi alle situazioni propriamente organizzative determinate dal successivo svolgimento della vita sociale. Tuttavia, non tutte le vicende che intercorrono fra socio e società possono essere indistintamente ricondotte al rapporto sociale, o all’organizzazione sociale. Infatti, il socio può erogare somme di denaro in favore della società a vario titolo, sicché, per ritenere esistente il diritto alla restituzione e verificare l’eventuale intervento della prescrizione, occorre qualificare giuridicamente i versamenti effettuati, previa interpretazione della volontà delle parti, tenendo conto che la prescrizione breve, prevista dall’art. 2949 c.c., riguarda solo quei diritti derivanti da relazioni fra i soggetti dell’organizzazione sociale che dipendono dal contratto sociale o da deliberazioni societarie, esclusi tutti gli altri diritti fondati su ordinari rapporti giuridici che la società può instaurare al pari di qualsiasi altro soggetto, anche, ovviamente, con un socio, senza che tale qualità muti la natura del rapporto. Il rapporto contrattuale c.d. di tesoreria accentrata non può essere certo ricondotto ai rapporti che si generano come effetto automatico dell’appartenenza a uno stesso gruppo societario, assumendo invece la natura di vero e proprio modulo organizzativo infragruppo, che traduce in concreto lo specifico interesse comune delle società del gruppo a gestire i reciproci rapporti finanziari. Tale contratto atipico, che solitamente viene stipulato fra le società appartenenti a uno stesso gruppo e che prevede che una delle società parte dell’accordo (di solito la holding) funga da centro di tesoreria al fine di semplificare i flussi di cassa, è un servizio di cui le società del gruppo possono scegliere di avvalersi. La relazione tra l’accordo con il quale si aderisce al servizio di tesoreria accentrata e il contratto sociale è occasionale, non necessaria, e tantomeno è conseguente alla costituzione dell’ente. Dovendo l’interprete ricercare la disciplina che più si attaglia a tale negozio, considerata la funzione e l’operatività dello stesso, esso deve essere ricondotto – per la funzione che svolge – al genere dei contratti di finanziamento. In tema di rapporti di finanziamento intercorrenti fra socio e società, non si applica l’art. 2949 c.c. Infatti, l’interesse del socio ad erogare un finanziamento alla società è collegato al rapporto sociale solo in via di fatto poiché opera soltanto sul piano dei motivi ed è connesso alla soddisfazione delle esigenze finanziarie della società, salvo che non rinvenga la sua fonte in un obbligo giuridico derivante da una deliberazione o dal contratto sociale. Ne consegue che il diritto del socio a ottenere la restituzione del finanziamento erogato si prescrive nel termine ordinario e non in quello breve, quinquennale, di cui all’art. 2949, co. 1, c.c., la cui portata riguarda le sole relazioni tra i soggetti dell’organizzazione sociale, sorte in dipendenza diretta del contratto di società o di deliberazioni sociali. Il credito fondato sul contratto di c.d. cash pooling può essere provato dagli estratti di conto corrente e dalle schede contabili dei movimenti infragruppo. Se a queste ultime annotazioni non può essere attribuita la forza probatoria di vero e proprio riconoscimento di debito, neppure, per vero, possono essere ignorate, in considerazione del generale principio di cui all’art. 2710 c.c., qualora fossero indice dei pacifici rapporti intercorsi fra le società e del sistema di cash pooling pacificamente operante con reciproci vantaggi. [ Continua ]