È priva di fondamento la querela di falso proposta dalla società avverso una firma che il pubblico ufficiale non ha mai specificamente attribuito al suo legale rappresentante. La questione relativa alla mancata indicazione nella relata di notifica dell’identità e qualità della persona che ha ricevuto l’atto è estranea al giudizio di falso, potendo al più integrare una causa di nullità della notificazione, che è compito del giudice della causa di merito accertare.
La previsione statutaria della cessazione dell’intero consiglio di amministratore per effetto delle dimissioni di taluno dei suoi membri (simul stabunt simul cadent) attribuisce all’esercizio da parte del singolo componente dell’organo amministrativo della facoltà di recedere liberamente dal mandato, l’ulteriore effetto di determinare la decadenza immediata dell’organo gestorio con la funzione, non solo di conservare gli equilibri interni di composizione del consiglio originariamente voluti e cristallizzati nella delibera assembleare di nomina evitando in particolare l’alterazione che potrebbe derivare a danno della compagine di minoranza dall’applicazione del meccanismo della cooptazione, ma anche di fungere da stimolo alla coesione dell’organo gestorio.
La decadenza immediata dell’organo amministrativo conseguente alla legittima applicazione della clausola statutaria simul stabunt simul cadent non comporta a favore del componente non dimissionario alcun effetto indennitario o risarcitorio dal momento che la previsione conforma specificamente il mandato gestorio assunto da ciascun membro del consiglio di amministrazione con l’accettazione della carica.
Quando in presenza della clausola statutaria simul stabunt simul cadent le dimissioni di taluni membri del consiglio di amministrazione siano preordinate esclusivamente a consentire poi all’assemblea dei soci di rinnovare l’organo amministrativo con l’esclusione del solo componente sgradito per sottrare la società all’obbligo di indennizzo connesso all’adozione diretta di una deliberazione assembleare di revoca senza giusta causa, può configurarsi l’abuso nell’esercizio delle facoltà spettanti ai componenti degli organi sociali coinvolti, fonte dell’obbligo della società di risarcire il danno subito dal componente non dimissionario illegittimamente privato della prestazione indennitaria.
Il complesso onere probatorio gravante sull’amministratore che deduce l’uso distorto del meccanismo decadenziale concerne, quindi, un vero e proprio procedimento elusivo costituito dalla concatenazione concertata di atti negoziali e comportamenti riferibili a componenti di organi sociali diversi volti a convergere sull’unico scopo della realizzazione di un effetto equivalente alla revoca ingiustificata senza indennizzo dell’amministratore.
La configurabilità della fattispecie procedimentale dell’abuso in questione presuppone: (i) l’esercizio strumentale della facoltà di dimissioni da parte di taluni componenti del consiglio di amministrazione con il solo scopo di provocare la decadenza immediata dell’organo in vista della programmata esclusione da parte dell’assemblea convocata per il rinnovo dell’organo del solo componente sgradito; (ii) la rinnovazione da parte dell’assemblea dei soci dell’incarico a tutti gli altri membri del consiglio con esclusione del solo componente non dimissionario; (iii) il collegamento oggettivo e soggettivo tra le dimissioni dei consiglieri che hanno perfezionato la fattispecie statutaria della decadenza dell’intero consiglio di amministrazione e la successiva immediata nomina da parte dell’assemblea del nuovo consiglio di amministrazione composto da tutti i membri precedenti escluso quello non più gradito, connotato dall’esclusivo intento di ottenere la sua estromissione senza indennizzo dall’organo gestorio.
L’azione di responsabilità precontrattuale proposta da chi, ai sensi dell’art. 1337 c.c., lamenta la violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase delle trattative che hanno preceduto la conclusione del contratto di cessione di quote sociali, per mancata informazione di circostanze rilevanti ai fini della valutazione della convenienza dell’affare, è priva di fondamento qualora l'acquirente non sia un soggetto terzo estraneo alla società target, ma il socio di maggioranza, nonché componente dell'organo gestorio, di quest'ultima. In una simile ipotesi, la situazione di compartecipazione di entrambe le parti nella gestione dell’attività sociale della società target esclude la stessa configurabilità a carico di uno dei contraenti di obblighi informativi nei confronti dell’altro.
Il costo di acquisto o di costituzione di una partecipazione è costituito dal prezzo pagato, al quale sono aggiunti i costi accessori direttamente imputabili all’operazione di acquisto o di costituzione. Tale costo, tuttavia, non può essere mantenuto, in conformità a quanto dispone l’articolo 2426, co. 1, n. 3, c.c., se la partecipazione alla data di chiusura dell’esercizio risulta durevolmente di valore inferiore rispetto al valore di costo. Onde verificare se si tratti di perdita durevole è necessario operare un confronto tra il valore di iscrizione in bilancio della partecipazione con il suo valore recuperabile, determinato in base ai benefici futuri che si prevede affluiranno all’economia della partecipante. Il bilancio nel quale le partecipazioni sono valutate non tenendo conto di tale regola non è redatto con chiarezza e non rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale della società.
Poiché le norme codicistiche in tema di corretta redazione del bilancio di esercizio sono poste a tutela di interessi generali che trascendono i limiti della compagine sociale e riguardano anche i terzi, destinatari delle informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società, la loro eventuale violazione comporta la nullità del bilancio e della delibera di sua approvazione. Il bilancio di esercizio di una società di capitali, che violi i precetti di chiarezza e precisione dettati dall'art. 2423, co. 2, c.c. è illecito, sicché la deliberazione assembleare con cui esso è stato approvato è nulla non soltanto se la violazione determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell'esercizio, o la rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società, e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati, ivi compresa la relazione, non sia possibile desumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte.
La consulenza tecnica d'ufficio è un atto compiuto nell'interesse generale di giustizia e, dunque, nell'interesse comune delle parti, trattandosi di un ausilio fornito al giudice da un collaboratore esterno e non di un mezzo di prova in senso proprio. Le relative spese rientrano pertanto tra i costi processuali suscettibili di regolamento ex artt. 91 e 92 c.p.c., sicché possono essere compensate anche in presenza di una parte totalmente vittoriosa, senza violare in tal modo il divieto di condanna di quest'ultima alle spese di lite, atteso che la compensazione non implica una condanna, ma solo l'esclusione del rimborso.
Le norme che disciplinano la responsabilità degli amministratori delle società di capitali sono applicabili anche a coloro i quali, come amministratori di fatto, si siano ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura da parte della società, presupponendo la correlativa figura che le funzioni gestorie svolte abbiano avuto carattere di sistematicità e completezza.
In tema di società, la persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall'esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza.
Anche nelle società di persone, pur in assenza di apposita disposizione, è configurabile una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci, oltre che verso la società, in termini sostanzialmente analoghi a quanto prevede, in materia di società per azioni, l’art. 2395 c.c. Tuttavia, essendo la natura extracontrattuale e individuale dell'azione del socio fondata sull'art. 2043 c.c., l’applicazione dell'art. 2395 c.c. deve essere letta in combinato disposto alla sopracitata norma generale in tema di responsabilità extracontrattuale. Ciò implica che il pregiudizio recato non deve essere il mero riflesso dei danni eventualmente prodotti al patrimonio sociale, ma i danni devono essere stati direttamente causati al socio come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori.
Per rendiconto deve intendersi la situazione contabile che equivale, quanto ai criteri fondamentali di valutazione, a quella di un bilancio, che è la sintesi contabile della situazione patrimoniale della società.
Il provvedimento 55/2005 della Banca d’Italia costituisce una prova privilegiata dell’illecito antitrust nel giudizio di nullità ex art. 33 l. 287/1990 per le fideiussioni omnibus che si collocano nel periodo (ottobre 2002 - maggio 2005) esaminato dal provvedimento stesso, includendo anche i contratti a valle, che costituiscano l'applicazione delle intese illecite concluse a monte, stipulati anteriormente all'accertamento dell'intesa distorsiva della concorrenza da parte della Banca d'Italia.
La nullità, discendente dall’intesa illecita oggetto della pronuncia n. 55/2005 della Banca d’Italia, è limitata alle sole clausole de quibus e non estesa all’intero contratto. La nullità solo parziale dei contratti di fideiussione è rilevabile anche d’ufficio, solo ove vi sia la scelta della parte di chiedere l’accertamento della nullità dell’intero contratto e non anche, in via eventualmente subordinata, delle sole clausole espressione dell’intesa illecita, non essendo consentita, in tale ultima ipotesi, l’esame della questione relativa alla nullità parziale del contratto.
In caso di domanda di nullità di una fideiussione omnibus stipulata in data posteriore al 2005, l’azione va qualificata come stand alone. Tale inquadramento comporta l’onere per parte attrice di allegazione e di dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, tra i quali rientra quello della perdurante esistenza, all’epoca della sottoscrizione dei contratti in discussione, dell’intesa illecita, pur essendo tale onere probatorio attenuato nel giudizio antitrust in considerazione della frequente asimmetria informativa esistente tra il soggetto che subisce l’illecito e l’autore dello stesso.
In ipotesi di nullità dei contratti a valle delle fideiussioni omnibus, non potendosi maturare preclusioni o giudicati impliciti in materia di nullità rilevabili d’ufficio, il potere di rilievo officioso della nullità del contratto per violazione delle norme sulla concorrenza spetta al giudice investito del gravame relativo a una controversia sul riconoscimento di una pretesa che suppone la validità ed efficacia del rapporto contrattuale oggetto di allegazione, sempre che sia stata decisa dal giudice di primo grado senza che questi abbia prospettato ed esaminato, né le parti abbiano discusso, di tale validità ed efficacia, trattandosi di questione afferente ai fatti costitutivi della domanda ed integrante, perciò, un’eccezione in senso lato, rilevabile d’ufficio anche in appello, ex art. 345 c.p.c.
La fideiussione, anche se stipulata con un istituto di credito, non è propriamente riconducibile a un contratto bancario ai sensi del testo unico bancario e dunque non rientra nell’alveo delle materie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell’art. 5, co. 1 bis, d.lgs 28/2010. Inoltre, in materia di illecito sottoposto alla disciplina antitrust, nessuna norma prevede l’esperimento della procedura di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda.
Il provvedimento Banca d’Italia n. 55 del 2005 prende in considerazione le sole fideiussioni omnibus, non la fideiussione specifica che accede a un contratto di leasing.
Il fenomeno del boicottaggio consiste in un comportamento contrario ai principi di correttezza professionale di interferenza nelle altrui relazioni commerciali, tramite comportamenti volti all’induzione alla violazione di relazioni commerciali già esistenti o all’impedimento di future relazioni e realizzato attraverso il rifiuto a contrarre (boicottaggio primario), oppure esercitando pressioni su altri imprenditori affinché si astengono da rapporti commerciali con un certo imprenditore, onde estrometterlo dal mercato o ostacolarne l’attività e la permanenza (boicottaggio secondario).
Il contratto di concessione di vendita costituisce un contratto atipico, non inquadrabile tra quelli di scambio con prestazioni periodiche, avente natura di contratto normativo, dal quale deriva per il concessionario/distributore il duplice obbligo di promuovere la formazione di singoli contratti di compravendita e di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti che gli vengono forniti alle condizioni fissate nell'accordo iniziale.
Il concessionario, per adempiere ai propri obblighi contrattuali, è tenuto ad effettuare specifici investimenti, mirati all'allestimento di una rete distributiva rispondente alle peculiari esigenze del concedente, nonché idonea a soddisfare pienamente criteri da questo prefissati. È, dunque, connaturale alla stessa struttura e funzione del contratto, che si atteggia come un contratto quadro o di tipo normativo, una certa soggezione del concessionario all'ingerenza, operata dal concedente, sfera decisionale ed organizzativa dei singoli rivenditori, che, in caso di scioglimento del rapporto, comporta la difficoltà per il concessionario stesso di conservare - come parte del suo patrimonio - gli investimenti fatti per promuovere e provvedere alla vendita degli altrui prodotti, ciò ragionevolmente in ragione della durata del contratto e della misura degli impegni pattuiti.
L’istituto della disdetta e l’istituto del recesso sono due strumenti giuridici contrattuali diversi. Il primo consente alle parti di impedire il rinnovo automatico di un contratto, ed è normalmente previsto con apposite clausole nei contratti a termine, unitamente, di regola, alla previsione di un termine congruo di preavviso. Il secondo, invece, in deroga al principio generale secondo cui “il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto se non per reciproco consenso tra le parti o per i motivi stabiliti dalla legge” (art. 1372 c.c.), consente alle parti di sottrarsi unilateralmente al vincolo contrattuale, determinandone lo scioglimento: si tratta di una facoltà che opera o nei casi previsti dalla legge o perché previsto espressamente dalle parti, che lo introducono in apposite clausole contrattuali.