La figura del c.d. “amministratore di fatto” presuppone che la persona abbia in concreto svolto attività di gestione (e non anche meramente esecutive) della società e che tale attività abbia carattere sistematico e non si esaurisca nel compimento di taluni atti di natura eterogenea ed occasionale. La corretta individuazione della figura richiede l’accertamento dell’avvenuto inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società, che si verifica quando le funzioni gestorie, svolte appunto in via di fatto, non si siano esaurite nel compimento di atti di natura eterogenea e occasionale, essendo la sistematicità sintomatica dell’assunzione di quelle funzioni; l’influenza dell’amministratore di fatto si deve tradurre, per essere rilevante, nell’ingerenza concreta nella gestione sociale che abbia il carattere della sistematicità.
Incombe sulla società convenuta l’onere probatorio relativo all’effettività e legittimità della convocazione assembleare nei confronti del socio che deduce di non averla ricevuta e quindi l’inadempimento della società. Ne discende, in difetto della relativa prova da parte della società convenuta, la declaratoria di nullità della relativa delibera.
L’art. 146 l. fall. va interpretato nel senso che il curatore può esperire tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di qualsiasi società, anche di persone, dovendosi così ritenere ammissibili le domande promosse dalla curatela nei confronti di amministratori di s.n.c., individuando quale norma di riferimento l’art. 2260 c.c. in tema di responsabilità degli amministratori di società di persone per i danni dai medesimi arrecati alla società, espressamente richiamato dall’art. 2293 c.c.
In tema di prescrizione dell’azione di responsabilità, il termine di prescrizione quinquennale non può che iniziare a decorrere dalla cessazione della carica in virtù di quanto disposto dall’art. 2941, n. 7, c.c., a nulla rilevando che gli illeciti denunciati possano risalire anche ad epoca antecedente. Circa la sicura applicazione di detta disposizione alle società di persone, giova ricordare che la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità del predetto articolo nella parte in cui non prevede l’equiparazione tra tutte le società commerciali ai fini della sospensione della prescrizione per le azioni di responsabilità da parte della società nei confronti degli amministratori finché sono in carica.
Il giudice competente a decidere della domanda di impugnativa del lodo irrituale, per i motivi di cui all’art. 808 ter c.p.c., è il tribunale del luogo di pronuncia del lodo. Oltre ai casi di impugnabilità del lodo irrituale previsti dall’art. 808 ter c.p.c., il lodo irrituale è soggetto al regime delle impugnative negoziali, in ragione della sua natura di negozio di accertamento.
Quanto al perimetro del sindacato del giudice ordinario con riferimento all’errore, si osserva che nell’arbitrato irrituale, il lodo può essere impugnato per errore essenziale esclusivamente quando la formazione della volontà degli arbitri sia stata deviata da un’alterata percezione o da una falsa rappresentazione della realtà e degli elementi di fatto sottoposti al loro esame (c.d. errore di fatto), e non anche quando la deviazione attenga alla valutazione di una realtà i cui elementi siano stati esattamente percepiti (c.d. errore di giudizio). Ne consegue che il lodo irrituale non è impugnabile per errores in iudicando, neppure ove questi consistano in una erronea interpretazione dello stesso contratto stipulato dalle parti, che ha dato origine al mandato agli arbitri; né, più in generale, il lodo irrituale è annullabile per erronea applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale o, a maggior ragione, per un apprezzamento delle risultanze negoziali diverso da quello ritenuto dagli arbitri e non conforme alle aspettative della parte impugnante. Di conseguenza, il lodo arbitrale irrituale non è impugnabile per errori di diritto, ma solo per i vizi che possono vulnerare ogni manifestazione di volontà negoziale, come l’errore, la violenza, il dolo o l’incapacità delle parti che hanno conferito l’incarico e dell’arbitro stesso.
L’art. 2476 c.c. prevede che l’azione di responsabilità contro gli amministratori possa essere promossa dal singolo socio. Il socio, però, è investito di una legittimazione straordinaria, in quanto il titolare del diritto dedotto in giudizio è la società, che pertanto assume la qualità di litisconsorte necessario non dei convenuti bensì del socio, che agisce non uti singulus, ma in qualità di sostituto processuale della società. Tale conclusione trova conforto nella circostanza che l’interesse protetto è quello sociale, in quanto la società è soggetto creditore dell’obbligo inadempiuto e titolare del diritto al risarcimento dei danni, cui è riconosciuto il potere di rinunciare e transigere ex art. 2476, co. 5, c.c. La società, inoltre, in caso di accoglimento della domanda, è tenuta ex lege a rimborsare al socio che ha agito le spese legali. La necessaria partecipazione della società discende, quindi, dal principio generale in forza del quale ogni volta che il giudizio sia promosso da un soggetto investito di legittimazione straordinaria, è considerato litisconsorte necessario anche il soggetto titolare del diritto dedotto in giudizio dal sostituto, per garantire il rispetto del diritto al contraddittorio e alla difesa in giudizio, considerato che la sentenza produce effetti anche nei suoi confronti.
L’omessa nomina del curatore speciale nel caso di conflitto d’interesse costituisce un vizio di costituzione del rapporto processuale a cui consegue la nullità dell’intero giudizio, rilevabile in ogni stato e grado del processo, per violazione del principio del contraddittorio e, più in particolare, della garanzia del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.
Allorquando il giudizio di merito addiviene ad estinzione, a seguito di declaratoria di cessazione della materia del contendere, deve essere pronunciata la revoca/sopravvenuta inefficacia del sequestro conservativo pronunciato in sede cautelare, e, laddove esso abbia ad oggetto quote societarie, deve essere ordinata la cancellazione di ogni e qualsivoglia conseguente iscrizione pregiudizievole nel Registro delle Imprese.
Risulta competente il Tribunale delle Imprese con riferimento alla domanda di nullità della fideiussione, totale e parziale.
L’art. 2497 c.c. disciplina la responsabilità delle società o enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di altre società. È in quest’ambito, dunque, che si colloca la previsione di cui al secondo comma secondo il quale “risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio”. Ne discende, dunque, che la norma è da ascrivere al fenomeno dei gruppi societari, presupponendo l’esistenza di un’attività di direzione e coordinamento quale attività di fatto, giuridicamente rilevante, che si esplica come influenza dominante sulle scelte e determinazioni gestorie degli amministratori della società eterodiretta che ne sono i naturali referenti e destinatari. Il fatto lesivo cui fa riferimento il secondo comma, infatti, non è qualunque evento dannoso per la società, ma esclusivamente quello individuato dal primo comma e cioè il danno cagionato dalle “società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime”.
L’art. 2475-ter c.c. introduce, all’interno del diritto delle società, una norma rispondente al principio generale sancito dall’art. 1394 c.c. in materia contrattuale. In tema di conflitto di interessi degli amministratori di s.r.l. il legislatore non ha ritenuto opportuno introdurre una disciplina generale in ordine agli obblighi degli amministratori in conflitto di informazione preventiva o di astensione e ciò a differenza non solo del regime previgente alla riforma del diritto societario, ma anche della disciplina dettata per le società per azioni. Affinché possa discorrersi di conflitto di interessi del rappresentante rispetto a quello del rappresentato, deve essere provata l’esistenza di un rapporto di incompatibilità tra i due centri di interessi, da dimostrare in modo non astratto o ipotetico, ma tenendo conto dell’idoneità del singolo atto o negozio alla creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro.
Un marchio patronimico anteriore, di norma forte, non può essere inserito in un marchio o in una denominazione sociale altrui successiva, anche se corrispondente al nome del titolare, con riferimento a settori merceologici identici o affini, ovvero per attività economiche o intellettuali parallele a quelle contraddistinte dal marchio anteriore, a meno che tale inserimento sia conforme al principio di correttezza professionale. In particolare l'uso del marchio non è conforme agli usi consueti di lealtà in capo industriale e commerciale quando: avvenga in modo tale da far pensare che esista un legame commerciale fra i terzi e il titolare del marchio; pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà; arrechi discredito o denigrazione a tale marchio; il terzo presenti il suo prodotto come un'imitazione o una contraffazione del prodotto recante il marchio di cui egli non è il titolare.
[nel caso di specie l’utilizzo del patronimico "Sorbillo" da parte della società convenuta non ha alcuna valenza descrittiva né dell’attività né dei prodotti bensì si fonda esclusivamente sul contratto di collaborazione intercorso tra la stessa e il Sig. Sorbillo; pertanto, l’uso è prettamente a fini pubblicitari e conseguente illegittimo ai sensi dell’art. 20 e 22 cpi non essendo conforme al principio di correttezza professionale scriminante ex art. 21 cpi]
La società che intende iscrivere nel libro soci un fatto “nuovo” che modifica l’assetto societario fino a quel momento esistente, costruito intorno ad una legittimazione in precedenza pacificamente riconosciuta, è tenuta a fornire la prova del presupposto formale che legittima una annotazione contraria al diritto del socio.
La prova del presupposto dell’annotazione risale, infatti, in capo a colui che intende farla valere, in applicazione della regola generale di cui è espressione il principio in virtù del quale chi afferma la titolarità di un diritto sulle azioni, per poter ottenere la legittimazione ad agire in società, deve fornire la prova del diritto e la società deve limitarsi ad un controllo di regolarità formale del titolo, da esercitarsi in maniera oggettiva, e procedere alla corrispondente iscrizione nel libro soci.
La posizione di garanzia e l’obbligo di intervento dell’amministratore non delegato che deve “agire informato” postulano la necessaria conoscibilità degli eventi che abbiano una portata pregiudizievole per la società. La responsabilità degli amministratori non operativi potrà essere ravvisata solo nel caso in cui sia configurabile una violazione dell’obbligo di valutazione del generale andamento della gestione, per essersi gli stessi astenuti dal controllare le operazioni compiute dai delegati di cui erano a conoscenza sulla base delle informazioni loro richieste o fornite.
La qualifica di amministratore delegante non consente l’assunzione di un atteggiamento meramente passivo che si pone in contrasto con il dovere di agire in modo informato. Il diritto di matrice individuale di cui al comma sesto dell’art. 2381 c.c. consente a ciascun consigliere di poter svolgere le proprie funzioni in modo consapevole, è direttamente correlato al dovere degli amministratori delegati di rendere in sede consiliare le informazioni richieste, e si configura come “dovere” ogniqualvolta la sua attivazione sia strumentale all’adempimento dell’obbligo di agire in modo informato, obbligo dal cui inadempimento può, inoltre, scaturire un’autonoma e specifica responsabilità.
Ne consegue, con riferimento al ruolo gestorio degli amministratori non operativi, che l’atteggiamento dismissivo e di sostanziale disinteresse alla gestione societaria non può essere addotto a causa esonerativa della responsabilità, ma va censurato come condotta inerte colpevole, di chi si sottrae agli obblighi incombenti per la carica rivestita, primo fra tutti quello di “agire informati”.
Le ipotesi legali di recesso dei soci di s.r.l., previste dall’art. 2473 c.c., sono da considerarsi inderogabili e non sopprimibili dall’autonomia privata.
L’introduzione all’interno dello statuto sociale di una previsione che imponga la gratuità di tutti i finanziamenti concessi dai soci in occasione di un eccessivo squilibrio tra indebitamento e patrimonio netto societario costituisce un’ipotesi di mutamento significativo dell’oggetto e delle norme di funzionamento societario e, pertanto, legittima il recesso ex art. 2473 c.c.
Legittima altresì il recesso ex art. 2473, comma 2, c.c. una modifica statutaria che renda la durata della società superiore alla vita media di un essere umano. Il parametro della vita media deve valutarsi, caso per caso, in considerazione dell’età anagrafica del socio interessato a recedere.
Quanto ai termini e alle modalità per l’esercizio del recesso, l’art. 2473 c.c. non detta regole precise in merito e la relativa regolamentazione deve, pertanto, intendersi rimessa all’autonomia statutaria.
In assenza di una specifica disciplina statutaria, non possono applicarsi in via analogica le disposizioni dettate in materia di società per azioni, poiché la disciplina del recesso nell’ambito delle s.r.l., quanto a presupposti e finalità, non risponde alla medesima ratio del recesso nelle s.p.a.
Di conseguenza, nel caso in cui lo statuto non determini i tempi per l’esercizio del recesso, non si dovrà fare riferimento al termine di 15 giorni indicato dall’art. 2437-bis c.c. in materia di s.p.a., ma ai principi di diritto comune, riguardanti l’interpretazione e l’esecuzione del contratto secondo buona fede ex art. 1375 c.c.
Ne deriva che il termine per l’esercizio del recesso dovrà essere determinato in base al caso concreto. Il giudice di merito dovrà valutare di volta in volta le concrete modalità del suo esercizio e, in particolare, la congruità del termine entro il quale il recesso è stato esercitato, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti [nel caso di specie, è stato ritenuto tempestivo il recesso esercitato entro 30 giorni dalla data in cui il socio è venuto a conoscenza della delibera che legittima il recesso].
Nell’ambito di un’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., è inutilizzabile la c.t.u. contabile nella parte in cui sia finalizzata a svolgere indagini ricostruttive della documentazione copiosa e determinante depositata dalla parte in sede di apertura dei lavori peritali. Invero, essendo la c.t.u. uno strumento di conoscenza di fatti, ne deriva che possa avere ad oggetto solo fatti e documenti già versati in atti nel rispetto dell’art. 2697 c.c. La consulenza tecnica non può infatti diventare uno strumento con il quale le parti possono aggirare le decadenze dagli obblighi di allegazione fattuale e deposito documentale in cui sono eventualmente incorse.
È certamente inadempiente e come tale direttamente responsabile l’amministratore che abbia sistematicamente omesso il versamento di tributi e oneri previdenziali, al quale è tenuto ex art. 2392 c.c., gravando il bilancio della società di sanzioni ed interessi che non vi sarebbero stati in presenza di adempimento.