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Nullità del decreto ingiuntivo opposto in presenza di clausola compromissoria
L’esistenza di una clausola compromissoria nello statuto di una s.p.a. per tutte le controversie tra soci e società non esclude...

L’esistenza di una clausola compromissoria nello statuto di una s.p.a. per tutte le controversie tra soci e società non esclude la competenza del giudice ordinario ad emettere un decreto ingiuntivo, atteso che la disciplina del procedimento arbitrale non contempla l’emissione di provvedimenti inaudita altera parte, ma impone a quest’ultimo, in caso di successiva opposizione fondata sull’esistenza della detta clausola, la declaratoria di nullità del decreto opposto e la contestuale remissione della controversia al giudizio degli arbitri.

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Sostituzione di delibera assembleare e cessazione della materia del contendere
La disponibilità del diritto rappresenta un limite alla compromettibilità in arbitri di controversie di qualsiasi natura. Con specifico riferimento alla...

La disponibilità del diritto rappresenta un limite alla compromettibilità in arbitri di controversie di qualsiasi natura. Con specifico riferimento alla materia societaria non può essere deferita alla decisione arbitrale l’impugnativa di delibera di approvazione del bilancio che verta sulla veridicità, completezza e chiarezza del bilancio stesso. Ciò in quanto le norme dirette a garantire tali principi non solo hanno natura imperativa, ma attengono pure a diritti indisponibili, essendo poste, oltre che a tutela dell’interesse di ciascun socio, anche dell’affidamento di tutti i soggetti terzi che con la società entrano in rapporto.

La delibera di approvazione del bilancio che sia revocata e sostituita da successiva delibera conforme alla legge con la quale sia approvato un nuovo progetto di bilancio per il medesimo esercizio, determina che non possa più pronunziarsi l’annullamento della delibera adottata anteriormente e che debba essere dichiarata la cessazione della materia del contendere. In ogni caso, la fondatezza delle doglianze mosse contro la delibera di approvazione del bilancio di cui si lamenta l’illegittimità, successivamente revocata e sostituita da altra delibera conforme alla legge, giustifica la condanna della convenuta al pagamento delle spese di lite.

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Abuso di maggioranza
I canoni di buona fede e correttezza nell’esecuzione dei contratti assurgono a parametri della verifica sostanziale a legge delle delibere...

I canoni di buona fede e correttezza nell’esecuzione dei contratti assurgono a parametri della verifica sostanziale a legge delle delibere assembleari delle società, delineando, correlativamente, la figura dell’abuso o dell’eccesso di potere a danno dei soci di minoranza. La loro applicazione consente di invalidare delibere che, se ad una valutazione formale e scansionata dei singoli passaggi, appaiono perfettamente legittime, disvelano, ove valutate invece in termini sostanziali ed unitari, la volontà fraudolenta della maggioranza di ledere gli interessi dei soci di minoranza o di perseguire interessi extrasociali. I presupposti identificativi di tale vizio sono stati codificati dalla giurisprudenza che li ravvisa, alternativamente, nell’assenza di giustificazione della delibera medesima in un interesse della società, ovvero nella ricorrenza di un’intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza di ledere gli interessi dei soci di minoranza (si veda in particolare, in parte motivata, Trib. Roma sez. Imprese, 5/10/15, alla cui stregua: "l'abuso di potere è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari quando la deliberazione: a) non trovi alcuna giustificazione nell'interesse della società; deve pertanto trattarsi di una deviazione dell'atto dallo scopo economico - pratico del contratto di società per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale; b) sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli poiché è rivolta al conseguimento di interessi extrasociali. I due requisiti testé evidenziati non sono richiesti congiuntamente, ma in alternativa").

È configurabile l’abuso della (regola della) maggioranza relativamente alla determina con cui siano modificati i quorum deliberativi previsti dallo statuto per le modificazioni dell’atto costitutivo e l’approvazione di decisioni che comportino una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale, quando la relativa delibera sia approvata col voto determinante del soggetto che così verrebbe a detenere il potere di modificare da solo la struttura organizzativa dell’impresa societaria.

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Responsabilità degli amministratori e insindacabilità nel merito delle scelte gestorie
Dal carattere unitario dell’azione esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l.f., che compendia in sé le azioni ex artt....

Dal carattere unitario dell’azione esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l.f., che compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c., discende che il curatore, potendosi avvalere delle agevolazioni probatorie proprie delle azioni contrattuali, ha esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombendo per converso sui convenuti l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.

In forza del principio della insindacabilità nel merito delle scelte di gestione, il giudice investito di un’azione di responsabilità per condotta negligente degli amministratori non può apprezzare il merito dei singoli atti di gestione. Se fosse possibile compiere una valutazione sull’opportunità e convenienza delle scelte di gestione, si legittimerebbe un’indebita ingerenza dell’autorità negli affari sociali, in pregiudizio all’autonomia ed indipendenza dell’organo amministrativo e con probabile paralisi del normale svolgimento dell’attività d’impresa. Ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice, dunque, non può essere l’atto in sé considerato e il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì, esclusivamente, le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi agli amministratori. Alla luce del principio di insindacabilità del merito gestorio, non ogni atto dannoso per il patrimonio sociale è dunque idoneo a fondare la responsabilità dell’amministratore che lo abbia compiuto.

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Placet degli amministratori nella cessione di quote di cooperativa a r.l.
Nel giudizio di accertamento dell’insussistenza della qualità di socio in capo al cedente di quota sociale, il fatto che la...

Nel giudizio di accertamento dell’insussistenza della qualità di socio in capo al cedente di quota sociale, il fatto che la comunicazione al c.d.a. contenente la manifestazione di volontà del cedente risulti priva di data certa non vale ad inficiare la validità della cessione perfezionata nel rispetto dell’iter delineato dall’art. 2530 c.c.

Qualora la delibera di autorizzazione della cessione sia stata dapprima revocata e poi invece ratificata, ai fini del suddetto accertamento negativo non assume rilievo la partecipazione del cedente alle assemblee intercorse tra la revoca del placet e la successiva ratifica.

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Diritto agli utili del socio accomandante e mancata presentazione del rendiconto da parte dell’accomandatario
Nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, nel quale l’opposto riveste la qualità sostanziale di attore e l’opponente la qualità...

Nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, nel quale l’opposto riveste la qualità sostanziale di attore e l’opponente la qualità sostanziale di convenuto, benchè formalmente attore, il thema decidendum risulta determinato dall’oggetto della domanda proposta dall’opposto nella fase monitoria, sicchè parte opponente è legittimata a proporre una domanda riconvenzionale mentre l’opposto può formulare riconvenzionali nei limiti della reconventio reconventionis. Se la domanda monitoria non investe la competenza della Sezione Specializzata per le Imprese, prevista dall’art. 3 d.lgs. 168/2003 per i rapporti relativi alle società di capitali, tuttavia la proposizione, in via riconvenzionale, dell’azione di responsabilità verso il socio accomandatario determina la competenza collegiale a norma dell’art. 50 bis c.p.c., pur se deve dichiararsene l’inammissibilità.

In materia di notificazione del decreto ingiuntivo, vige il principio della scissione degli effetti della notifica, secondo cui il termine si considera osservato per il notificante alla data in cui lo stesso effettua gli adempimenti a sua cura, ma il termine di impugnazione dell’atto decorre per il destinatario dalla data della ricezione della notifica stessa.

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Esclusione del socio di cooperativa per condotta diffamatoria: presupposto, ambito applicativo e sindacato giurisdizionale
Il giudice, adito in sede di opposizione avverso la deliberazione di esclusione del socio di cooperativa, è tenuto a riscontrare...

Il giudice, adito in sede di opposizione avverso la deliberazione di esclusione del socio di cooperativa, è tenuto a riscontrare l’effettiva sussistenza della causa di esclusione posta a fondamento di tale deliberazione e la sua inclusione fra quelle previste dalla legge o dallo statuto.

Ai fini della verifica della lesività della condotta diffamatoria nei confronti della società – qualora tale condotta sia stata il presupposto dell’esclusione del socio – non è necessario un previo accertamento in sede penale di tale condotta diffamatoria.

Nessun rilievo può assumere, ai fini dell’esclusione del socio, il tenore di dichiarazioni eventualmente lesive della reputazione o dell’onore della persona dell’amministratore della società.

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Operatività della postergazione dei finanziamenti soci durante societate e prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c.
La ratio del principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci posto dall’art. 2467 c.c. per le società a...

La ratio del principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci posto dall’art. 2467 c.c. per le società a responsabilità limitata consiste nel contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale in società chiuse, determinati dalla convenienza per i soci di ridurre l’esposizione al rischio d’impresa, ponendo i capitali a disposizione dell’ente collettivo nella forma del finanziamento anziché in quella del conferimento.

Il credito del socio, in presenza di un finanziamento concesso nelle condizioni di eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto o laddove sarebbe stato ragionevole un conferimento, subisce una postergazione legale, la quale non opera una riqualificazione del prestito da finanziamento a conferimento con esclusione del diritto al rimborso, ma incide sull’ordine di soddisfazione dei crediti.

La postergazione opera come una condizione legale integrativa del regolamento negoziale circa il rimborso, la quale statuisce l’inesigibilità del credito in presenza di una delle situazioni previste dal secondo comma dell’art. 2467 c.c., con un impedimento (temporaneo) alla restituzione della somma mutuata sino a quando non sia superata la situazione descritta dalla norma.

La postergazione disposta dall’artt. 2467 c.c. opera già durante la vita della società e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento, sino a quando non sia superata la situazione prevista dalla norma.

La società e, per essa, l’organo amministrativo può, ed anzi deve, rifiutare il rimborso del prestito sino a quando non siano venute meno le condizioni di cui all’art. 2467 c.c. Pertanto, il rimborso dei crediti in violazione dell’obbligo di postergazione integra la responsabilità degli amministratori che lo abbiano posto in essere.

Per verificare la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2467, co. 2, c.c., si può far riferimento ai parametri previsti dall’art. 2412 c.c. in tema di limiti all’emissione di obbligazioni (ove si prevede il divieto di emissione di obbligazioni per importo superiore al doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato), considerato che, ai fini della verifica da compiere, assume rilievo anche il tipo di indebitamento, che è un indebitamento a breve termine, dunque destinato non già a finanziare investimenti, ma a pagare spese correnti.

L’azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l. fall. compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c., con conseguente possibilità per il curatore di cumulare i vantaggi di entrambe le azioni sul piano del riparto dell’onere della prova, del regime della prescrizione (artt. 2393, co. 4; 2941, n. 7; 2949; 2394, co. 2, c.c.) e dei limiti al risarcimento (art. 1225 c.c.) ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, patrimonio visto unitariamente come garanzia sia per i soci che per i creditori sociali. In tema di prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c., se è vero che il momento in cui si esteriorizza l’insufficienza del patrimonio non coincide (necessariamente) con il determinarsi dello stato d’insolvenza – rispetto al quale può essere anteriore, perché, ad esempio, emergente da un bilancio depositato, ovvero posteriore, perché, ad esempio, accertato dagli organi fallimentari nel corso delle operazioni di valutazione dell’eventuale attivo o all’esito delle rettifiche delle voci bilancio risultate false –, vi è però una presunzione iuris tantum di coincidenza tra i due momenti e sarà onere dell’amministratore convenuto provare l’anteriorità del primo rispetto al secondo.

La circostanza che la documentazione conservata agli atti di una società non sia conforme alle prescrizioni di legge, per un verso, può costituire essa stessa un motivo di responsabilità per gli amministratori a carico dei quali sono posti gli obblighi legali di tenuta di dette scritture (sempre che ne sia derivato un danno per la società medesima, per i creditori sociali o per i terzi); per altro verso, non implica certo che i dati ivi riportati siano, necessariamente e a priori, da considerare inutilizzabili al fine di ricostruire, nei limiti del possibile, l’andamento degli affari sociali: specie quando ciò occorra proprio per valutare i concreti effetti dell’operato di quei medesimi amministratori cui sia imputata non solo la scorretta tenuta della contabilità e dei libri sociali, ma anche di aver compiuto operazioni illegittime in danno della società.

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La determinazione del danno da mancata nomina alla carica di presidente del CdA
Con riferimento agli interessi pretensivi, l’ingiustizia del danno si configura in relazione alla consistenza della protezione che l’ordinamento riserva all’istanza...

Con riferimento agli interessi pretensivi, l’ingiustizia del danno si configura in relazione alla consistenza della protezione che l’ordinamento riserva all’istanza di ampliamento della sfera giuridica del pretendente, essendo necessario che egli sia titolare non già di una mera aspettativa, bensì di una situazione suscettibile di determinare un oggettivo affidamento circa la consecuzione, secondo la disciplina applicabile ed un criterio di normalità, di un esito favorevole.

Il danno patrimoniale da mancato guadagno, concretandosi nell’accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l'obbligazione fosse stata adempiuta, esclusi i mancati guadagni meramente ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte, sicché la sua liquidazione richiede un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità), che può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l'entità del danno subito.

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L’impugnazione di delibere assembleari approvative di bilanci privi dei necessari requisiti di chiarezza, correttezza e veridicità
La delibera assembleare di una società di capitali è nulla per illiceità dell’oggetto, a norma dell’art. 2379 c.c., quando è...

La delibera assembleare di una società di capitali è nulla per illiceità dell’oggetto, a norma dell’art. 2379 c.c., quando è contraria a norme dettate a tutela dell’interesse generale, che trascende quello dei singoli soci, e che siano dirette ad impedire una deviazione dello scopo essenziale economico-pratico del contratto e del rapporto di società. Pertanto, qualora, in relazione alla deliberazione del bilancio sociale, siano dedotte violazioni del principio di chiarezza e precisione del bilancio, la nullità della deliberazione ben può concretamente configurarsi se i fatti asseritamente contrari a quel principio si rivelino idonei ad ingenerare, per tutti gli interessati, incertezze ovvero erronee convinzioni circa la situazione economico-patrimoniale essendo posta la verità e la chiarezza di questo a tutela non soltanto del o dei singoli soci, bensì di tutti i terzi e dei creditori in particolare.

L’interesse ad impugnare può attenere anche soltanto alla corretta informazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa; interesse che è ravvisabile in tutti i casi in cui dal bilancio e dai relativi allegati non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte; ed anche l’esistenza di alcune soltanto delle poste redatte in violazione di disposizioni inderogabili di legge è già da sola sufficiente a far dichiarare tale nullità.

Il socio, infatti, ha diritto a ottenere l’intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte in bilancio ed è altresì indubbio che la pronuncia giudiziale con cui venga dichiarata la nullità della delibera assembleare impugnata dal socio obbliga i competenti organi sociali ad approvare un nuovo bilancio, esente dai vizi riscontrati nel precedente.

Il bilancio di esercizio di una società di capitali, che violi i precetti di chiarezza e precisione dettati dall'art. 2423, comma 2, c.c., è illecito, sicché la deliberazione assembleare con cui esso è stato approvato è nulla non soltanto se la violazione determini una divaricazione tra il risultato effettivo dell'esercizio, o la rappresentazione complessiva del valore patrimoniale della società, e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati, ivi compresa la relazione, non sia possibile desumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole siano fornite per ciascuna delle singole poste iscritte.

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Dichiarazione di fallimento del debitore intervenuta nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, nell’ipotesi di dichiarazione di fallimento intervenuta nelle more del giudizio di opposizione a...

Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, nell’ipotesi di dichiarazione di fallimento intervenuta nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo proposto dal debitore ingiunto poi fallito, il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori previa domanda di ammissione al passivo, attesa la inopponibilità, al fallimento, di un decreto non ancora definitivo e, pertanto, privo della indispensabile natura di sentenza impugnabile, esplicitamente richiesta dall’art. 95, co. 3, l.fall. [secondo il testo in vigore prima della modifica introdotta con il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5], norma di carattere eccezionale, insuscettibile di qualsivoglia applicazione analogica. Infatti, qualora una domanda sia diretta a far valere, nelle forme ordinarie, una pretesa creditoria soggetta al regime del concorso, il giudice adito è tenuto a dichiarare secondo i casi, l’inammissibilità, l’improcedibilità o l’improponibilità della domanda, siccome proposta secondo un rito diverso da quello previsto come necessario dalla legge, quindi inidonea a conseguire una pronuncia di merito. Tale improcedibilità va rilevata d’ufficio anche nel giudizio di cassazione, discendendo da norme inderogabilmente dettate a tutela del principio della par condicio creditorum.

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Esclusione del socio di cooperativa ed onere probatorio nel successivo giudizio
Nel giudizio di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio di una società cooperativa a responsabilità limitata, incombe sulla...

Nel giudizio di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio di una società cooperativa a responsabilità limitata, incombe sulla società – che, pur se formalmente convenuta, ha sostanziale veste di attore – l’onere di provare i fatti posti a fondamento dell'atto impugnato. Ad ogni modo, tale redistribuzione dell’onere della prova sui fatti costitutivi della fattispecie non porta alla svalutazione della rilevanza dei motivi posti dal socio a sostegno della propria opposizione, quasi che questa si risolva in una mera sollecitazione al controllo giurisdizionale dell’esclusione indipendentemente dagli argomenti addotti dall’interessato per contestarne la legittimità. L’onere della prova è pur sempre circoscritto a quel che forma oggetto della controversia, i cui confini non possono che essere desunti dal contenuto dell’atto introduttivo del giudizio, senza che il giudice possa, ex officio, ricercare ulteriori ragioni di illegittimità della delibera di esclusione, onerando la società di provarne la conformità a legge e statuto oltre i motivi allegati dal socio.

Compete al giudice di merito la valutazione in concreto dalla riconducibilità dei comportamenti del socio escluso alla previsione statutaria che giustifica il provvedimento di esclusione. E nel fare ciò, quando la previsione statutaria si riferisca a comportamenti solo genericamente o sinteticamente indicati come contrari all'interesse sociale, senza enunciare una casistica specifica, il giudice deve tener conto della rilevanza dalla lesione eventualmente inferta dal socio all'interesse della società, potendosi ragionevolmente ritenere che la regola negoziale contenuta nello statuto sottintenda un elementare criterio di proporzionalità tra gli effetti del comportamento addebitato al socio e la risoluzione del rapporto sociale a lui facente capo. Sarebbe dal resto contrario al fondamentale principio di buona fede l'ammettere che un pregiudizio di scarsa rilevanza, in applicazione di una previsione statutaria di carattere generico, possa provocare una reazione a tal punto radicale. Pertanto, il giudice di merito deve dare conto con adeguata e logica motivazione della valutazione in proposito operata, valutazione che egli è tenuto a compiere non perdendo di vista il principio di buona fede, cui ovviamente non soltanto il comportamento della società cooperativa, ma anche quello del socio, dev'esser improntato. Né deve il giudicante trascurare, in un simile contesto, la rilevanza centrale che ha l'elemento personale nella società cooperativa, essendo questa fondata su un principio solidaristico che necessariamente postula – in misura ancora maggiore di quanto accade in società di altro tipo – il reciproco affidamento dei soci, il venir meno del quale costituisce il sostrato logico necessario di qualsiasi anche più specifica previsione statutaria di comportamenti implicanti l'esclusione.

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