Il codice della crisi di impresa sembra riproporre la questione della configurabilità della responsabilità da direzione e coordinamento, ai sensi dell’art. 2497 c.c., in capo ad un ente pubblico territoriale, che, pur privo di interesse imprenditoriale proprio, persegua l’interesse generale all’erogazione del servizio pubblico avvalendosi dello strumento della partecipazione in una società di diritto comune, risolta dalla norma di interpretazione autentica di cui all’art. 19, co. 6, d.l. 78/2009, laddove esclude, all’art. 2, lett. h), e all’art. 13, d.l. 118/2021, in vigore dal 25 agosto 2021, lo Stato e gli enti pubblici territoriali dal novero dei soggetti destinatari della norma di responsabilità dettata dall’art. 2497 c.c. nell’ambito della disciplina della crisi del gruppo di imprese e torna ad evidenziare la complessità della posizione del socio ente pubblico territoriale, tenuto a perseguire, anche nell’attività di direzione e coordinamento delle società partecipate, l’interesse pubblico primario che può, però, non essere in sintonia con l’interesse imprenditoriale del gruppo e delle singole società.
Ai sensi dell'art. 2497 c.c., l'attività di direzione e coordinamento può assumere i connotati dell'antigiuridicità quando viene esercitata da parte della società controllante nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui e in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società sottoposte ad essa. La responsabilità in questione è di natura extracontrattuale ex articolo 2043 c.c. ed è, quindi, riconducibile alla violazione dei principi di corretta gestione societaria dell'attività di direzione e coordinamento della società controllata da parte della controllante. Gli amministratori della società controllante rispondono in solido - in via aquiliana e successivamente alla violazione dei principi di buona e corretta amministrazione - per la lesione prodotta all'integrità del patrimonio della società controllata e per aver concorso con gli amministratori di quest’ultima al depauperamento del suo patrimonio sociale. Detta ipotesi di responsabilità sarebbe imputabile alla società controllante se e quando si dovesse dimostrare l’esistenza di un’interferenza nei confronti della società controllata, tale da determinare una compromissione della autonomia gestoria di quest'ultima. L'eventuale risarcimento del danno è identificato per i soci della controllata nel pregiudizio alla redditività o nel minor valore della partecipazione sociale e per i suoi creditori nella lesione cagionata all'integrità del patrimonio sociale.
Non può configurarsi una responsabilità della capogruppo per obbligazioni fisiologicamente assunte dalla controllata e rimaste inadempiute nella normale dinamica dello svolgimento dell'attività d'impresa.
La domanda di un fallimento per far valere un credito risarcitorio (nella specie, da abuso di direzione e coordinamento) nei confronti di altro fallimento deve essere dichiarata inammissibile se non è stata proposta avanti al giudice fallimentare nel pieno rispetto del principio generale sancito dal citato art. 52 l.f.
L’art. 2497 c.c. delinea il proprio ambito di applicazione soggettiva individuando, al primo comma, quali destinatari della disciplina ivi contenuta le società o gli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento. La locuzione “società ed altri enti” non comporta alcuna possibilità di escludere, dall’ambito applicativo della normativa, gli enti pubblici. La portata applicativa dell’art. 2497 c.c. in relazione alle società partecipate dagli enti locali ha avuto un chiarimento da una disposizione di interpretaizone autentica, contenuta nell’art. 19, co. 6, d.l. 78/2009, convertito nella l. 102/2009. In base a questo dato legislativo, il primo comma dell’art. 2497 c.c. si interpreta nel senso che per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale, ovvero per finalità di natura economica o finanziaria.
Le società detenute dagli enti locali, ai sensi dell’art. 3, co. 27 ss., l. 244/2007, devono unicamente: prestare servizi di interesse generale nei limiti di competenza dell’ente locale socio; svolgere servizi o attività strumentali per il perseguimento dei fini istituzionali dell’ente locale socio, la cui disciplina di riferimento è l’art. 13 d.l. 223/2006, convertito nella l. n. 248/2006. Sulla base di tale distinzione, è possibile ripartire la partecipazioni comunali in due categorie: (a) le società che gestiscono servizi di interesse generale e svolgono attività d’impresa; (b) le società che prestano servizi o attività strumentali per il perseguimento dei fini istituzionali dell’ente locale socio e non svolgono attività d’impresa, ma funzioni amministrative (cc.dd. società semi-amministrazioni). Pertanto, qualora l’ente locale detenga partecipazioni di categoria (a) l’ente locale medesimo e la sua partecipata sono sottoposti alla disciplina degli artt. 2497 ss. c.c. al pari di ogni altro socio “privato” che esercita attività di direzione e coordinamento sulle proprie controllate; qualora, invece, l’ente locale detenga partecipazioni di categoria (b), tali disposizioni non si applicano.
Gli enti soggetti a responsabilità ex art. 2497 c.c. sono quelli che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria. Dalla lettura della norma può affermarsi che l’interesse imprenditoriale, quale criterio per individuare i soggetti attivi dell’attività di direzione e coordinamento di società, è riscontrabile in capo agli enti pubblici (in linea generale chiamati ad agire in vista di finalità di interesse generale, in astratto incompatibili con la funzione di holding di chi dirige e coordina con la sottesa funzione imprenditoriale) che esercitano, per il tramite di una o più società, l’attività di produzione di beni o servizi secondo un criterio di obiettiva economicità: così inteso, l’interesse patrimoniale può addirsi (oltre agli enti pubblici economici) anche agli enti pubblici locali le cui attività (definibili) economiche sono dirette a realizzare pubbliche finalità. Un simile interesse non è invece ravvisabile nei confronti dello Stato, in quanto portatore di un interesse politico attinente al governo dell’economia, né degli altri enti pubblici che agiscono secondo criteri di pura erogazione (cc.dd. enti pubblici di protezione sociale). Più in particolare, tale interesse potrebbe ravvisarsi laddove l’ente pubblico partecipi in società che erogano servizi pubblici di rilevanza economica (quali, a titolo esemplificativo, i servizi di distribuzione di energia elettrica) e non anche qualora l’ente partecipi in società che erogano servizi pubblici privi di rilevanza economica. In maniera sostanzialmente analoga, nell’ambito di applicazione dell’art. 2497 c.c. dovrebbero rientrare gli enti pubblici territoriali detentori di partecipazioni in società che erogano servizi rivolti al pubblico in regime di concorrenza, restandone esclusi gli enti pubblici territoriali esercenti attività amministrativa strumentale a favore degli enti medesimi (cc.dd. società semi-amministrazioni). È, quindi, la natura imprenditoriale dell’attività espletata dalla società controllata che è dirimente ai fini dell’applicazione, all’ente controllante, della responsabilità ex art. 2497 c.c., ma tale natura imprenditoriale non ricorre allorquando la controllata sia una società meramente strumentale.
L’ente in posizione di controllo contro il quale si agisce, per essere ritenuto responsabile, deve essere portatore di un interesse di impresa che va qualificato come detenzione di partecipazione societaria per svolgere attività imprenditoriale, ovvero per finalità economiche o finanziarie, cioè deve perseguire finalità latu sensu lucrative.
L’art. 2497 c.c. si applica nei casi in cui la costituzione della società in house o comunque la partecipazione in società degli enti pubblici – diversi dallo Stato – sono attuate non solo per scopi lucrativi ma anche per la realizzazione di finalità istituzionali che richiedono lo svolgimento di attività economica o finanziaria da realizzare attraverso la società partecipata. La norma di interpretazione autentica dell’art. 2497 c.c. di cui all’art. 19 del d.l. 78/2009, convertito nella l. 102/2009 ha espressamente escluso solo lo Stato azionista dalla nozione di “ente” contemplata dalla norma richiamata.
La società in house è istituto di derivazione comunitaria, prima enunciato in sentenze della Corte di Giustizia e poi modellato nelle Direttive UE del 2014, nn. 23, 24 e 25, con il preciso scopo di limitare le ipotesi che consentono di derogare alle regole della concorrenza del mercato mediante il ricorso a forme di affidamenti diretti di compiti relativi alla realizzazione di opere pubbliche o alla gestione di servizi pubblici. L’affidamento diretto non comporta alcuna lesione del principio di concorrenza se ed in quanto, in osservanza al principio di libera amministrazione delle pubbliche autorità, esso non rappresenta una esternalizzazione ma una autoproduzione di servizi tramite un soggetto che, sostanzialmente – atteso che l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello operato sui propri servizi – non è diverso dell’ente pubblico.
Sussiste una società in house qualora vi siano i seguenti presupposti: (i) il capitale sociale è integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieta la cessione delle partecipazioni ai soggetti privati; (ii) la società esplica statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo tale che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; (iii) la gestione è per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile. Tali requisiti devono sussistere contemporaneamente e risultare da precise disposizioni statutarie in vigore all’epoca cui risale la condotta illecita.
L’espressione “interesse imprenditoriale proprio o altrui” porta a escludere dall’ambito di responsabilità ex art. 2497 c.c. solo le ipotesi nelle quali sia perseguito un interesse meramente privato (quale l’interesse personale degli amministratori/cariche pubbliche della società/ente controllante) e a ricomprendervi tutte le altre ipotesi in cui è stato perseguito un interesse extrasociale rispetto a quello della società eterodiretta. Con l’art. 19 del d.l. 78/2009, convertito nella l. 102/2009, il legislatore ha chiarito che “l’art. 2497, primo comma del codice civile si interpreta nel senso che per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria”; l’ampiezza dell’espressione “finalità di natura economica o finanziaria” è tale da ricomprendere gli obiettivi che l’ente pubblico territoriale persegue attraverso la costituzione di società in house o comunque delle società cui partecipa.
La titolarità del pacchetto di maggioranza è elemento sufficiente per integrare la presunzione di cui all’art. 2497 sexies c.c.
La sospensione necessaria del processo civile ai sensi degli artt. 295 c.p.c., 654 c.p.p. e 211 disp. att. c.p.p., in attesa del giudicato penale, può essere disposta solo se una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile e a condizione che la sentenza penale possa avere, nel caso concreto, valore di giudicato nel processo civile. Perché si verifichi tale condizione di dipendenza tecnica della decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto in ambito civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto dell’imputazione penale.
Il consulente tecnico d’ufficio può acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori, rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e costituenti il presupposto necessario per rispondere ai quesiti formulati, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse.
L’art. 2497 c.c. disciplina la responsabilità delle società o enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di altre società. È in quest’ambito, dunque, che si colloca la previsione di cui al secondo comma secondo il quale “risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio”. Ne discende, dunque, che la norma è da ascrivere al fenomeno dei gruppi societari, presupponendo l’esistenza di un’attività di direzione e coordinamento quale attività di fatto, giuridicamente rilevante, che si esplica come influenza dominante sulle scelte e determinazioni gestorie degli amministratori della società eterodiretta che ne sono i naturali referenti e destinatari. Il fatto lesivo cui fa riferimento il secondo comma, infatti, non è qualunque evento dannoso per la società, ma esclusivamente quello individuato dal primo comma e cioè il danno cagionato dalle “società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime”.
L’art. 2475-ter c.c. introduce, all’interno del diritto delle società, una norma rispondente al principio generale sancito dall’art. 1394 c.c. in materia contrattuale. In tema di conflitto di interessi degli amministratori di s.r.l. il legislatore non ha ritenuto opportuno introdurre una disciplina generale in ordine agli obblighi degli amministratori in conflitto di informazione preventiva o di astensione e ciò a differenza non solo del regime previgente alla riforma del diritto societario, ma anche della disciplina dettata per le società per azioni. Affinché possa discorrersi di conflitto di interessi del rappresentante rispetto a quello del rappresentato, deve essere provata l’esistenza di un rapporto di incompatibilità tra i due centri di interessi, da dimostrare in modo non astratto o ipotetico, ma tenendo conto dell’idoneità del singolo atto o negozio alla creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro.
In tema di azione di responsabilità ex art. 2497, co. 2, c.c. nei confronti degli organi della società controllante ed esercente attività di direzione e coordinamento, la norma in questione prevede un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale riconducibile alla violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale dell’attività di direzione e coordinamento della società controllata da parte della controllante, con il corollario, da un punto di vista processuale, dell’onere della prova a carico della parte attrice in merito all’esistenza dei requisiti del fatto illecito disciplinato dall’art. 2497 c.c., da ricondurre nello schema aquiliano di cui all’art. 2043 c.c.
L’esercizio di un’attività di direzione e coordinamento rappresenta un fatto naturale e fisiologico, di per sé legittimo, che, tuttavia, al contempo richiede siano prefissati i limiti, oltrepassati i quali una tale attività diviene illegittima e fa sorgere la responsabilità di colui che, per tal modo, ne abusa: la direzione e coordinamento deve essere caratterizzata, ex art. 2497 c.c., dall’osservanza di principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società controllate, nel senso che l’unitarietà della direzione non può giustificare l’utilizzo delle gestione delle imprese controllate ad esclusivo beneficio dell’interesse delle società controllanti, bensì per il coordinamento degli interessi delle due; l’inosservanza dei principi di corretta gestione predetti espone a responsabilità le società controllanti, insieme con i propri amministratori.
L’azione ex art. 2497 c.c. è soggetta al termine quinquennale di prescrizione che decorre dal momento del fatto illecito, anche se esercitata dal curatore fallimentare in luogo dei creditori della società eterodiretta, secondo la previsione dell’art. 2497, ult. co., c.c., senza che egli possa invocare il decorso del termine dalla data della dichiarazione di fallimento, dalla quale deriva solo la sostituzione della legittimazione del curatore a quella dei creditori, senza che però l’azione muti carattere.
L’art. 2497, co. 3, c.c., nel sancire che il socio e il creditore possano agire nei confronti della società che esercita attività di direzione e coordinamento solo nel caso non siano stati soddisfatti dalla società eterodiretta non prevede una condizione di procedibilità dell’azione di responsabilità, consistente nell’infruttuosa escussione del patrimonio della controllata o nella previa formale richiesta risarcitoria ad essa rivolta, avendo il legislatore posto unicamente in capo alla società capogruppo l’obbligo di risarcire i soci e i creditori sociali danneggiati dall’abuso dell’attività di direzione e coordinamento. Dunque, il socio (o il creditore sociale) che intende promuovere un’azione di risarcimento del danno nei confronti di una società che ha esercitato abusivamente attività di direzione e coordinamento non è tenuto, ai sensi dell’art. 2497, co. 3, c.c., ad escutere preventivamente il patrimonio della controllata, poiché tale norma non pone una condizione di procedibilità dell’azione di responsabilità, ma si limita a prevedere un’ulteriore ipotesi, meramente fattuale, per la quale l’obbligo risarcitorio in capo alla società dominante viene meno.
Il termine di prescrizione dell’azione nei confronti della società controllante e degli organi della stessa non può decorrere dal fallimento o, comunque, dall’insolvenza della società eterodiretta, ma dalla data di compimento del fatto illecito, ossia dall’inadempimento agli obblighi gravanti sugli stessi, che abbia concorso alla produzione del danno ai soci o ai creditori sociali della controllata.
L’erogazione di somme dai soci alle società da loro partecipate può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento destinato a confluire in apposita riserva “in conto capitale”; in quest’ultimo caso non nasce un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione, connotato dalla postergazione della sua restituzione rispetto al soddisfacimento dei creditori sociali e dalla posizione del socio quale residual claimant.
La qualificazione, nell’uno o nell’altro senso, dipende dall’esame della volontà negoziale delle parti, dovendo trarsi la relativa prova, di cui è onerato il socio che richieda la restituzione, non tanto dalla denominazione dell’erogazione contenuta nelle scritture contabili della società, quanto dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi.
La ratio della norma dell’art. 2467 c.c. è di conservare l’apporto economico dei soci a servizio dell’attività svolta dall’impresa sociale, al fine di evitare che il rischio correlato all’impresa priva di adeguati mezzi propri sia posto a carico dei creditori esterni alla società.
I versamenti, variamente denominati, la cui comune caratteristica consiste nell’essere destinati a incrementare il patrimonio della società senza riflettersi sul capitale nominale, vanno a costituire una riserva di capitale (e non di utili) con conseguente esclusione di qualsivoglia pretesa restitutoria per tutta la durata della società. In caso di versamento del socio in conto aumento capitale, il diritto alla restituzione (prima e al di fuori del procedimento di liquidazione) sussiste soltanto nell’ipotesi in cui il conferimento sia stato risolutivamente condizionato alla successiva delibera di aumento di capitale e tale delibera non sia intervenuta entro il termine stabilito dalle parti o fissato dal giudice.
L’art 2467 c.c. non opera solo in caso di fallimento, ma già durante la vita dell’impresa, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento sino a quando non sarà superata la situazione di difficoltà economica. Ne consegue che la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento ove tale situazione di squilibrio sia esistente al momento della concessione del finanziamento ed a quello della richiesta di rimborso, che è compito dell’organo gestorio riscontrare mediante la previa adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, in grado di rilevare la situazione di crisi.
La situazione di squilibrio rilevante ai fini dell’operatività della postergazione non si identifica con lo stato di insolvenza, ma nella sproporzione tra indebitamento e patrimonio netto o, comunque, in una situazione di squilibrio finanziario che avrebbe ragionevolmente richiesto un conferimento piuttosto che un finanziamento.
La violazione della regola di cui all’art 2467 c.c. può dar luogo a plurime forme di tutela, quali una tutela di natura risarcitoria per il creditore pregiudicato, un’azione di responsabilità verso l’organo amministrativo che abbia deciso il rimborso o, in sede concorsuale, l’inefficacia dell’atto di rimborso al socio della somma a favore della società. Pertanto, sono responsabili, ai sensi degli artt. 2394 c.c. e 146 l. fall., gli amministratori di una società fallita che abbiano restituito somme ai soci in violazione dell’art. 2467 c.c.
In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto dannoso imputabile a più persone, fonte di responsabilità solidale ex art. 2055 c.c., la natura del titolo di responsabilità, che fonda la pretesa risarcitoria azionata, condiziona l’individuazione del termine di durata della prescrizione per il quale, in caso di coincidenza tra fatto costituente reato e fatto determinativo dell’illecito civile, si applica la più lunga durata stabilita per il primo, in base all’art. 2947, ult. co., c.c.; la diversità dei titoli di responsabilità, invece, non incide sulla interruzione del termine di prescrizione di volta in volta rilevante, essendo in tal caso applicabile la regola di cui all’art. 1310, co. 1, c.c., il quale rende l’atto interruttivo compiuto dal creditore contro uno dei debitori in solido efficace anche nei confronti degli altri debitori solidali. In tema di obbligazioni derivanti da una pluralità di illeciti ascrivibili a differenti soggetti, qualora soltanto il fatto di un obbligato sia anche reato, mentre quelli degli altri costituiscano illeciti civili, la possibilità di invocare utilmente il più lungo termine di prescrizione stabilito dall’art. 2947, co. 3, c.c. per le azioni di risarcimento del danno se il fatto è previsto dalla legge come reato, è limitata all’obbligazione nascente dal reato.
In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito costituente reato, la previsione dell’art. 2947, co. 3, c.c. si riferisce, senza alcuna discriminazione, a tutti i possibili soggetti passivi della conseguente pretesa risarcitoria, sicchè è invocabile non solo per l’azione civile esperibile contro la persona penalmente imputabile (quale un amministratore), ma anche per quella esercitabile contro coloro che siano tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta (quale la società, che, ai sensi dell’art. 2049 c.c., risponde civilmente dell’illecito penale commesso dal suo amministratore).
Il socio che abbia intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società risponde in concorso con gli amministratori dei danni arrecati alla società medesima; l’amministratore di diritto risponde delle condotte criminose poste in essere da chi si sia di fatto ingerito nella gestione dell’impresa, allo stesso invece spettante, e su cui non abbia vigilato.
La sottoposizione della società eterodiretta a procedura concorsuale non fa venir meno la legittimazione dei soci di minoranza di quest’ultima all’esercizio dell’azione di responsabilità per abusivo esercizio dell’attività di direzione e coordinamento.
Il quarto comma dell’art. 2497 c.c., infatti, attribuisce al curatore la legittimazione all’esercizio della sola azione spettante ai creditori sociali; tale previsione non può essere estesa all’azione spettante ai soci, essendo finalizzata a tutelare la par condicio creditorum, mentre la posizione del socio è differente rispetto a quella assunta dai creditori sociali, dal momento che lo stesso non partecipa al concorso.
Il diritto al risarcimento del danno da esercizio abusivo dell’attività di direzione e coordinamento è soggetto alla prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2949 c.c., trattandosi di un diritto derivante da un rapporto sociale.
Il dies a quo del termine di prescrizione va individuato nel momento in cui il pregiudizio agli interessi sociali risulta conoscibile da parte dei soci della società eterodiretta.
La responsabilità per abusivo esercizio dell’attività di direzione e coordinamento ha natura extra-contrattuale.
Pertanto, il socio danneggiato – pur potendo usufruire del regime agevolativo delle presunzioni di cui all’art. 2497-sexies c.c. – ha l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, che consistono (i) nell’esercizio di un’attività di direzione e coordinamento da parte di una società sulle altre, (ii) nello svolgimento dell’attività nell’interesse proprio o altrui, estraneo a quello della società eterodiretta, (iii) nel danno arrecato al valore o alla redditività della partecipazione e (iv) nel nesso di causalità tra condotta ed evento (nel caso di specie, il Tribunale – dopo aver rigettato per intervenuta prescrizione le domande di condanna relative alla maggior parte degli addebiti mossi con l’azione di responsabilità – ha dichiarato infondato l’addebito consistente nel pagamento di indennità in favore di dipendenti non più appartenenti alla controllante, ma confluiti nella controllata, trattandosi di una retribuzione corrisposta in favore di soggetti appartenenti alla società eterodiretta, che non può ritenersi estranea agli interessi sociali).
L’art. 2497 c.c. attribuisce l’azione di accertamento dell’abuso della direzione e coordinamento e di conseguente risarcimento del danno nei confronti della società che eserciti detta direzione, ai soci (e, sotto diverso profilo, ai creditori) della società eterodiretta ed abusata “per il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale”, vale a dire per il danno riflesso altrimenti normativamente non risarcibile.
La legittimazione è stata estesa in via interpretativa, oltre che – dal lato passivo – agli amministratori della società dominante e di quella dominata, anche – da quello attivo – a quest’ultima, ritenendola a sua volta titolata ad agire direttamente nei confronti della società esercitante la direzione abusiva (e dei suoi amministratori) per la lesione cagionata all’integrità del proprio patrimonio.
I soci della società eterodiretta sono certamente sprovvisti del potere di agire nei confronti della società esercitante abusivamente la direzione per il risarcimento dei danni direttamente patiti dalla società ‘abusata’: in relazione ai quali è quest’ultima che deve attivarsi, e sussiste semmai la diversa azione prevista dall’art. 2476 co. 3° e 8° c.c., che consente al socio di domandare in via di sostituzione straordinaria il risarcimento dei danni che la mala gestio degli amministratori (e i soci con essi intenzionalmente compartecipi) abbiano appunto arrecato alla società.
La responsabilità dell’ente dominante ai sensi dell’art. 2497 c.c. può dipendere da comportamenti tenuti “nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui”; è dunque indifferente che i pagamenti, eseguiti in forza della etero-direzione asseritamente esercitata da una società del gruppo, siano andati a vantaggio di altra società del gruppo poi fallita. La configurabilità di un'ipotesi di controllo c.d. esterno (art. 2359 c.1 n.3 c.c., richiamato dall'art. 2497 sexies c.c.) “postula l'esistenza di determinati rapporti contrattuali la cui costituzione ed il cui perdurare rappresentino la condizione di esistenza e di sopravvivenza della capacità di impresa della società controllata” (così Cass. civ. n. 12094 del 27.09.2001). A tal fine è necessario un rapporto derivante dai suddetti vincoli contrattuali di subordinazione tra le due società, tale da ridurre l’una ad una vera e propria società satellite dell’altra, anche per il tempo successivo alla scadenza dell’accordo, vuoi in virtù di accordi stabili nella loro durata, vuoi perché garantiti da una forte penale. Si è anche sostenuto che “i particolari vincoli contrattuali, idonei a configurare l’influenza dominante esterna, devono rappresentare non già la mera occasione, bensì una vera e propria condizione di esistenza e di sopravvivenza, a loro volta, non della società in sé, intesa come semplice dato di realtà, bensì della capacità di impresa, ovvero delle risorse economico-produttive strutturalmente orientate rispetto ai vincoli contrattuali che la legano alla controllante e da questi, pertanto, funzionalmente dipendenti” (così Trib. Monza 26.08.2004). Tale situazione non sussiste quando “la società che si assume controllata possa sciogliersi dai vincoli contrattuali che la legano alla controllante ed instaurare identici rapporti contrattuali con altre società” (così Corte App. Milano 28.04.1994). La possibilità di configurare l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento su base contrattuale implica invece la necessità di individuare clausole che attribuiscano ad uno dei contraenti la facoltà di imporre all’altro una determinata struttura finanziaria o una determinata politica di mercato, nonché il potere di interferire sulle decisioni rilevanti per l’esercizio dell’impresa dell’altro contraente.
Relativamente al controllo societario esercitato ex art. 2359 c.c., non si configura l'esistenza e l'operatività di una holding di fatto preposta al controllo e alla gestione di una società poi fallita se non sussistono specifici requisiti: una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo, idonei ad incidere sulle decisioni gestorie dell’impresa; il comune intento sociale perseguito; l’esteriorizzazione del vincolo societario, tramite la spendita del nome e/o il compimento di attività negoziale nell’interesse della holding; l’organizzazione imprenditoriale autonoma della holding rispetto a quella delle società controllate, volta al coordinamento dei fattori produttivi relativi al gruppo di imprese; l’economicità aggiuntiva ovvero la produzione di un plusvalore dovuto all’attività di direzione e coordinamento (così anche Cass. civ. 20.05.2016, n. 10507; Cass. civ. 18.11.2010, n. 2334). Peraltro, nelle società di fatto tra consanguinei, la prova dell’esteriorizzazione del vincolo societario deve essere rigorosa, dovendosi basare “su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla "affectio familiaris" e deporre, invece, nel senso di una sua compartecipazione all’attività commerciale” (a proposito Cass. civ. n. 33230 del 16.12.2019; nello stesso senso, Cass. civ. n. 15543 del 20.06.2013).
Nella quantificazione del danno subito dalla società e dai creditori, il CTU deve utilizzare il criterio della differenza dei netti patrimoniali, effettivamente utilizzabile in presenza di situazioni di prosecuzione dell’attività d’impresa per un periodo di tempo considerevole: tale criterio consente infatti di accertare, in modo attendibile, l’effettiva diminuzione patrimoniale della società, in ipotesi di ingiustificata prosecuzione della liquidazione, quando risulta più problematico ricostruire ex post le singole operazioni non conservative e collegare ad esse un danno al netto dell’eventuale ricavo.
Il termine di prescrizione è quinquennale e decorre, nell’azione sociale di responsabilità, dal momento in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno (termine che rimane sospeso, ex art. 2941 n. 7 c.c., fino alla cessazione dalla carica dell’amministratore o del liquidatore, cui si applicano ex art. 2489 co. 2 c.c. le norme in tema di responsabilità degli amministratori), mentre nell’azione a tutela dei creditori sociali il termine di prescrizione decorre da quando è oggettivamente percepibile l’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti, dal momento che - in mancanza di prova contraria, offerta dall’amministratore o dal liquidatore, con riferimento ad una data diversa e anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale - si presume coincidente con la dichiarazione di fallimento (così Cass. civ. n. 24715 del 4.12.2015; Cass. civ. n. 13378 del 12.06.2014).
In ragione dell’eccezionalità e della non estensibilità delle condizioni di procedibilità in senso stretto, nel silenzio del legislatore, il mancato soddisfacimento del credito del socio da parte della società partecipata ed etero diretta (che va quindi ad escludere il mancato avveramento della condizione a cui il legislatore – ex art.2497 comma 3 c.c. – subordina la possibilità di agire verso la società controllante), non integra un’eccezione di improcedibilità assoluta dell’azione di responsabilità verso la controllante (ex art.2497 c.c.), bensì può costituire una condizione di procedibilità in ambito esecutivo, operando essa come un sorta di beneficium excussionis, di per sé, non ostativo alla formazione di un titolo giudiziale (di merito) nel quale consacrare e cristallizzare il diritto di credito.
Si deve ritenere che il giudicato formatosi copra il decisum della sentenza di primo grado non soltanto nei limiti delle deliberazioni e statuizioni espressamente contenute nella sentenza d’appello afferenti i petita e le causae petendi esplicitamente esaminati, ma anche quelli che, ancorché non deliberati, avevano comunque formato oggetto di motivi d’appello, e la cui omessa valutazione e decisione da parte della Corte d’Appello avrebbe dovuto essere, per ciò, impugnata dalla parte soccombente con ricorso per Cassazione al fine di prevenire il passaggio in giudicato anche di siffatti ultimi temi.
Va esclusa una effettiva soggezione di una società all’asserita influenza dominante di un’altra società, qualora i benefici concessi a quest’ultima [nomina di un membro del CdA e di un sindaco effettivo; diritto di veto su deliberazioni aventi ad oggetto, tra le altre, modifica dello statuto, del capitale sociale, riorganizzazione societaria; prelazione su quote preferenziali della operatività della società con il sistema banca], ancorché “significanti e incidenti”, trovino adeguato bilanciamento in altre disposizioni [diritto degli altri soci di nominare il Presidente, l’amministratore delegato, il vice presidente ed un membro del Cda, l’alternanza della carica di Presidente tra gruppi di soci, la necessità che le condizioni bancarie praticate dall’istituto di credito fossero effettuate a “parità di costi e condizioni di mercato”].
La costituzione di parte civile nel processo penale avente ad oggetto la contestazione di una condotta distrattiva da parte di un amministratore della società concerne, sotto il profilo civilistico, sia gli inadempimenti ai doveri di amministratore della società considerata “uti singula” sia gli inadempimenti di quei medesimi doveri eventualmente commessi quale partecipe all’attività di direzione e coordinamento svolta dalla holding, essendo la condotta inadempiente sempre la stessa, così come i doveri violati e i soggetti danneggiati. Conseguentemente, poiché la coincidenza di petitum, causa petendi e parti delle azioni promosse in sede civile e penale determina l’applicazione dell’effetto estintivo previsto implicitamente dall’art. 75, primo comma, c.p.p., l’azione di responsabilità ex art. 2497, secondo comma, c.c. proposta in sede civile nei confronti del medesimo amministratore in ragione della sua partecipazione all’attività di direzione e coordinamento abusivamente svolta dalla holding dovrà essere dichiarata estinta d’ufficio.