Deve ritenersi inefficace la risoluzione intimata da una parte nei confronti dell'altra avvalendosi di una clausola risolutiva espressa che, pur facendo riferimento a tutte le obbligazioni contrattualmente previste, finisca per configurare una clausola di stile, non essendo specificamente identificati gli inadempimenti ai quali consegua l'effetto risolutivo. Deve considerarsi contraria a buona fede la risoluzione intimata da una parte nei confronti dell'altra senza alcuna preavviso e con immediata interruzione della fornitura previta.
Conformemente al disposto di cui all’art. 4 b) i) del Reg.n°330/2010, le limitazioni imposte dal concedente ai suoi acquirenti per proteggere l’esclusiva del concessionario in un dato territorio sono compatibili con i principi della libera concorrenza solo a condizione che riguardino le vendite “attive”, non essendo consentito porre alcuna limitazione alle vendite passive. Viceversa, quando le parti pattuiscono limitazioni territoriali alla rivendita dei prodotti al di fuori del territorio esclusivo, le “vendite passive” non possono essere impedite. A tale fine, sono considerate vendite “attive” ai sensi del § 51 degli “Orientamenti sulle restrizioni verticali” della Commissione Europea (2010/C 130/01):
- il contatto attivo con singoli clienti ad esempio per posta, compreso mediante l’invio di messaggi di posta elettronica non sollecitati;
- la visita diretta di questi ultimi;
- il contatto attivo con uno specifico gruppo di clienti, o con clienti situati in uno specifico territorio attraverso inserzioni pubblicitarie sui media o via Internet o altre promozioni specificamente indirizzate a quel gruppo di clienti o a clienti in quel territorio.
Sono invece “vendite passive”:
-la risposta ad ordini non sollecitati di singoli clienti, incluse la consegna di beni o la prestazione di servizi a tali clienti;
- le azioni pubblicitarie o promozioni di portata generale che raggiungano clienti all’interno dei territori (esclusivi) o dei gruppi di clienti (esclusivi) di altri distributori, ma che costituiscano un modo ragionevole per raggiungere clienti al di fuori di tali territori o gruppi di clienti, ad esempio per raggiungere clienti all’interno del proprio territorio.
Nel giudizio afferente al pagamento delle royalties di cui a un rapporto di (sub)licenza d’uso di marchio, spetta alla convenuta provare che il rapporto fosse regolato in ragione degli obblighi imposti alla licenziante e che la licenziataria assume essere stati inadempiuti.
In tema di contratti di rivendita di prodotti nonché di utilizzo del marchio con durata pluriennale, con previsione di un utile minimo annuale garantito al concedente, in caso di mancato rinnovo del contratto da parte del rivenditore prima dello scadere del dodicesimo mese, è riconosciuto al concedente, anche nel rispetto del principio di conservazione del contratto ai sensi dell’art. 1367 c.c., il diritto a percepire l’utile per l’annualità nella quale il fornitore ha comunicato il mancato rinnovo con riduzione proporzionale dell’importo garantito in ragione del più breve periodo di vigenza del contratto nell’ultima annualità.
Con riferimento al contratto di licenza d'uso del marchio, l’art. 23, comma 2, c.p.i., prevede espressamente che il marchio possa essere oggetto di licenza. Tale disposizione non prescrive, tuttavia, una forma a pena di nullità per tale tipo di contratto, il quale è, quindi, un contratto a forma libera, non essendo richiesta la forma scritta ad substantiam. Il contratto di licenza di marchio è libero nelle forme è può essere stipulato tanto verbalmente, quanto per facta concludentia. Si tratta, pertanto, di un contratto che ben potrebbe essere concluso per comportamenti concludenti, i quali devono essere intesi come comportamenti inequivocabilmente diretti ad accettare una determinata proposta: tale contegno costituisce una manifestazione tacita del consenso da parte dell'accettante. Per “facta concludentia” deve intendersi un comportamento di per sé non dichiarativo della volontà del soggetto, ma alla luce delle circostanze d'insieme, idoneo a manifestarla in modo univoco e sicuro.
La locatrice del marchio è legittimata a pretendere, sulla base di un titolo contrattuale di cui non è stata contestata la validità, il pagamento dei canoni anche per il periodo successivo alla risoluzione del contratto principale, a nulla rilevando che il marchio non sia stato registrato. Il rapporto di locazione del marchio è pertanto svincolato da ogni altro rapporto in essere fra i contraenti ed in assenza di comunicazione di formale recesso dal contratto di locazione del marchio, il canone previsto resta dovuto anche per il periodo successivo alla risoluzione del contratto principale di agenzia.
L'accoglimento della domanda di risarcimento del danno da lucro cessante o da perdita di "chance" esige la prova, anche presuntiva, dell'esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile.
L'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia dimostrata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo preciso ammontare, ciò che non esime, però, la parte interessata - per consentire al giudice il concreto esercizio di tale potere, la cui sola funzione è di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso - dall'onere di dimostrare non solo l'"an debeatur" del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi "in re ipsa", ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui, nonostante la riconosciuta difficoltà, possa ragionevolmente disporre.
Integra un’ipotesi di contraffazione del marchio il suo impiego dopo la scadenza del rapporto di licenza, secondo la previsione dell’art. 23 c.p.i. L’impiego del logo precedentemente concesso in licenza da parte dell’ex licenziataria dopo la scadenza del contratto di licenza mediante un suo utilizzo in funzione pubblicitaria e promozionale sul proprio sito è una condotta illecita che, in quanto non consentita dalla titolare del segno, va altresì ritenuta dannosa, cagionando pregiudizio alla licenziante, sia rispetto alla eventuale ricollocazione sul mercato del segno litigioso mediante nuove licenze, sia rispetto al suo sfruttamento diretto. E ciò in quanto tale condotta crea incertezza presso il pubblico circa la legittimazione ad utilizzare il segno e circa l’esclusiva in capo alla titolare.
In caso di mancato rinnovo del contratto di licenza, preceduto da trattative per la sua rinegoziazione, non è invocabile, da parte dell’ex licenziatario, la responsabilità precontrattuale del concedente; tale fattispecie sussiste infatti solo nel caso in cui l’affidamento sulla positiva conclusione del contratto sia ingenerato da una condotta contraria a correttezza e buona fede e non dalla mancata corrispondenza delle manifestate diverse condizioni contrattuali. Laddove l’ex licenziatario abbia commercializzato le giacenze dei prodotti nel periodo successivo alla vigenza del contratto a cavallo del sell off, senza il pagamento dei canoni di licenza, e non abbia rendicontato tali giacenze né abbia dimostrato la distruzione dei prodotti successivamente al periodo contrattuale di smaltimento, il parametro di riferimento per la liquidazione dei danni - che resta comunque equitativa - va commisurato alla percentuale delle royalties convenute dalle parti.
Non è revocabile in dubbio l'ammissibilità di una proroga tacita di un contratto, atteso che, secondo costante orientamento giurisprudenziale di legittimità, il contratto, pur a fronte di una clausola di rinnovo espresso, può proseguire di fatto a condizione che tale volontà di prorogare tacitamente il contratto risulti inequivoca.
In ossequio all’art. 115 c.p.c., perché un fatto allegato in causa sia controverso e, quindi, bisognoso di prova, è necessario che controparte svolga una contestazione specifica e puntuale. Il requisito di specificità è da ritenersi soddisfatto esclusivamente laddove la contestazione sia circostanziata, ovvero introduca elementi fattuali idonei a contrastare nel merito quanto asserito da controparte, dovendosi equiparare la contestazione generica ad una mancata contestazione. Sul tema, la giurisprudenza ha costantemente affermato che il giudice, in materia di diritti disponibili, debba ritenere sussistente, senza alcun bisogno di prova, il fatto costitutivo non contestato; tale principio risulta ben sintetizzato dall’attribuzione al fatto non contestato del carattere di “fatto pacifico”, pur in mancanza di un’ammissione esplicita o implicita (sul punto, ex plurimis, Cass. SS.UU. n. 261/02).
La domanda per una somma dovuta a titolo di royalties maturate sulla base di un contratto di licenza è oggetto di debito di valuta, il cui importo soggiace al principio del valore nominale di cui all’art. 1277 c.c. e, per l’effetto, non può essere oggetto di rivalutazione monetaria. Un debito di valuta, come tale, non è suscettibile di automatica rivalutazione per effetto del processo inflattivo della moneta; pertanto, spetta al creditore di allegare e dimostrare il maggior danno derivato dalla mancata disponibilità della somma durante il periodo di mora e non compensato dalla corresponsione degli interessi legali ex art. 1224, comma 2, c.c.
Con la promessa del fatto del terzo, il promittente assume una prima obbligazione di facere, consistente nell'adoperarsi affinché il terzo tenga il comportamento promesso, onde soddisfare l'interesse del promissario, ed una seconda obbligazione di dare, cioè di corrispondere l'indennizzo nel caso in cui, nonostante si sia adoperato, il terzo si rifiuti di impegnarsi. Ne consegue che, qualora l'obbligazione di facere non venga adempiuta e la mancata esecuzione sia imputabile al promittente, ovvero venga eseguita in violazione dei doveri di correttezza e buona fede, il promissario avrà a disposizione gli ordinari rimedi contro l'inadempimento, quali la risoluzione del contratto, l'eccezione di inadempimento, l'azione di adempimento e, qualora sussista il nesso di causalità tra inadempimento ed evento dannoso, il risarcimento del danno; qualora, invece, il promittente abbia adempiuto a tale obbligazione di facere e, ciononostante, il promissario non ottenga il risultato sperato a causa del rifiuto del terzo, diverrà attuale l'altra obbligazione di dare, in virtù della quale il promittente sarà tenuto a corrispondere l'indennizzo.
In tema di domanda ex art. 96 c.p.c.: come noto, la condanna per risarcimento dei danni per lite temeraria può essere pronunciata, a condizione che l’iniziativa giudiziaria avversaria, oltre che infondata, sia tale da dimostrare la consapevolezza della sua infondatezza da parte dei ricorrenti e, contemporaneamente, un'ignoranza, gravemente colpevole, della sua inammissibilità.
La condanna del soccombente per lite temeraria postula, cioè, che l'istante deduca e dimostri la concreta ed effettiva esistenza di un pregiudizio in conseguenza del comportamento processuale della controparte. L'istante, peraltro, è tenuto, altresì, a dimostrare la ricorrenza in detto comportamento, del dolo o della colpa grave, cioè della consapevolezza o dell'ignoranza derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell'infondatezza delle proprie tesi, ovvero del carattere irrituale o fraudolento dei mezzi adoperati per agire o resistere in giudizio.
Il presupposto per l'applicabilità della norma di cui all'art. 96 c.p.c. - nel rispetto del principio secondo cui la responsabilità processuale aggravata si sostanzia in una forma di danno punitivo teso a scoraggiare l'abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia con la censura di iniziative giudiziarie avventate o meramente dilatorie - è la presenza, in capo al destinatario della condanna, della mala fede o della colpa grave previsti per la lite temeraria di cui al c. 1 di detta norma.
Va disattesa e non accolta la “domanda di risoluzione per inadempimento … ove gli obblighi della licenziante [nella specie di messa a disposizione per la licenziataria di canali di vendita o di attività di supporto] non siano previsti contrattualmente e non emergano dal chiaro tenore letterale delle disposizioni pattizie”.
Va disattesa e non accolta la “domanda di annullamento del contratto per dolo … ove la … prova dei fatti costitutivi della domanda azionata …. non comprovi il ricorrere di …. circostanze false, o l’omissione di elementi rilevanti e idonei a carpire, con artifici e raggiri, il consenso della controparte”. Se un “elemento” si rivela “di per sé particolarmente fragile” non è “idoneo, neppure a livello indiziario, a fondare il dolo richiesto dall’art. 1427 c.c., [posto che rifluisce su scelte imprenditoriali non sindacabili, in quanto non irragionevoli]”.