Il periculum per i casi di contraffazione non è in re ipsa, essendo necessario che il ricorrente fornisca una prova, sia pure indiziaria, del danno subito e del pericolo derivante dalla reiterazione della condotta che viene ascritta alla controparte, allegando fatti quali, ad esempio, o la perdita (dimostrata) di clienti passati alla concorrente, il drastico calo del fatturato, in collegamento con l'aumento del fatturato della resistente, il rischio concreto di destabilizzazione economica; ciò in quanto deve essere pur sempre operato il bilanciamento degli interessi delle parti in causa, alla luce della gravità delle misure invocate. [Nel caso di specie la ricorrente avrebbe dovuto provare il mancato rispetto dei disciplinari sull'uso del marchio di certificazione, i quali stabiliscono i parametri che definiscono un prodotto vegetariano o vegano. In particolare, la ricorrente avrebbe dovuto provare l'esistenza di un concreto periculum quantomeno elencando le caratteristiche necessarie per l'utilizzo del marchio e allegando la prova del mancato rispetto di detti requisiti.]
Una questione di giurisdizione sorta in merito a una contestazione di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598 c.c. deve essere risolta ai sensi del criterio di competenza speciale previsto “in materia di illeciti civili dolosi o colposi” dall’art. 7, n. 2, del Regolamento UE n. 1215/2012, che riconosce come competente “l’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire”, da intendersi sia come il luogo dove si è concretizzato il pregiudizio sia come il luogo dove si è verificato l’evento generatore del danno.
In ipotesi di inadempimento contrattuale, l’art. 4, paragrafo 2, del Regolamento CE n. 593/2008 prevede che, in assenza di una scelta di legge da parte delle parti, alle obbligazioni contrattuali debba essere applicata la legge dello Stato nel quale la parte che deve effettuare la prestazione caratteristica del contratto ha la residenza abituale. Qualora l’illecito lamentato sia qualificato come violazione del principio di leale concorrenza e dunque come extracontrattuale, ma si ritenga che l’illecito presenti comunque uno stretto collegamento con un contratto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 6, paragrafo 2, e 4, paragrafo 3, del Regolamento CE n. 864/2007, trova applicazione la legge che regola il rapporto contrattuale.
La domanda di nullità di un contratto va sempre proposta nei confronti della controparte negoziale. In caso di cessione del credito (anche in blocco, nell’ambito delle operazioni di cartolarizzazione) l’azione deve perciò indirizzarsi verso il soggetto cedente e non verso il cessionario, rimasto estraneo a quel rapporto.
L’onere della prova dell’illecito anticoncorrenziale grava sulla parte che ne assume l’esistenza secondo le regole ordinarie del processo civile, ad eccezione dei casi in cui esso sia stato già oggetto di positivo accertamento da parte dell’autorità amministrativa deputata alla vigilanza sul mercato, potendo in tale caso la parte interessata avvalersi di tale prova privilegiata.
La clausola che stabilisce l’obbligo del garante di pagare “anche in caso di opposizione del debitore”, specie se combinata con la previsione dell’immediatezza del pagamento a fronte di una semplice richiesta scritta da parte del garantito, va intesa in senso analogo all’espressione “senza eccezioni” e deve perciò reputarsi sintomatica della volontà di svincolare la garanzia dal rapporto sottostante, poiché il garante rinuncia in tal modo ad avvalersi della possibilità di sollevare le eccezioni relative al rapporto sottostante.
(nella specie il Tribunale ha respinto la domanda di nullità di fideiussioni omnibus stipulate nel 2012)
La parte che agisce in contraffazione sfruttando la protezione provvisoria conferita dalla domanda di brevetto o di registrazione non può invocare a suo favore alcuna presunzione di validità per un brevetto (nella specie, per modello di utilità) che non è stato ancora concesso, ma è necessario che dimostri la sussistenza dei requisiti di brevettabilità della sua invenzione. In tal caso, infatti, non trova applicazione né la presunzione di validità del titolo (non ancora rilasciato), né la regola generale che pone su colui che impugna (anche in via di eccezione) un titolo di proprietà industriale, l’onere di provare la nullità o la decadenza dello stesso (art. 121, comma 1, c.p.i.). Ne discende che incombe sulla ricorrente nel procedimento cautelare ove ha proposto la domanda di inibitoria per contraffazione l’onere di dimostrare la verosimile sussistenza dei presupposti di brevettabilità del modello di utilità di cui rivendica la tutela. In particolare, se con riferimento al requisito della novità estrinseca dell’invenzione non può esserle chiesta la prova di una circostanza negativa, qual è l’insussistenza di anteriorità opponibili distruttive, nondimeno chi agisce in giudizio ha l’onere di dimostrare, quantomeno nei limiti del fumus boni iuris, la sussistenza dell’originalità (o novità intrinseca) del trovato oggetto della domanda di brevetto per modello di utilità azionata.
Nel contesto di un contratto di affiliazione, il patto di non concorrenza post-contrattuale è valido, in quanto non restrittivo della concorrenza, soltanto a condizione che (tra le altre) “sia indispensabile per proteggere il «know-how» trasferito dal fornitore all’acquirente” (art. 5, par. 3, lett. c) Reg. UE n. 330/2010) e che “la durata di quest’obbligo di non concorrenza sia limitata ad un periodo di un anno a decorrere dalla scadenza dell’accordo” (lett. d) dello stesso articolo). Qualora l’affiliante non fornisca alcuna valida indicazione su quale sia il patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate “segreto”, “sostanziale” ed “individuato” trasferito , e in particolare se esso abbia ad oggetto conoscenze segrete, anziché nozioni tecniche generalmente note nell’ambiente, né se tali conoscenze, ove effettivamente segrete, siano significative e utili per l’attività svolta dall’ex affiliata dopo l’avvenuta risoluzione del contratto, deve presumersi la nullità di un patto di non concorrenza post-contrattuale della durata di due anni successivi alla cessazione dello stesso per qualsiasi motivo, trattandosi di pattuizione restrittiva della concorrenza ai sensi dell’art. 101, par. 1, TFUE e dell’art. 2 L. n. 287/1990.
È illecita sotto plurimi profili la condotta consistente nell’utilizzo di una denominazione sociale identica tanto al nome breve di un’associazione attrice precedentemente costituita e operante nello stesso settore imprenditoriale, quanto al marchio denominativo registrato su domanda anteriore. Essa, infatti, viola sia l’art. 2563 c.c. a tutela della ditta dell’imprenditore, sia gli artt. 2569 c.c. e 20 e 22 del c.p.i. a tutela del marchio registrato, sia infine l’art. 2958 n. 1, c.c. in materia di concorrenza sleale confusoria. In mancanza, tuttavia, di allegazione e prova da parte dell’attrice della sussistenza di un qualsiasi pregiudizio risarcibile riconducibile alla adozione, da parte della società convenuta, di una denominazione sociale identica al proprio marchio registrato e alla propria ditta/nome in forma abbreviata, non è possibile addivenire ad una liquidazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. e la relativa domanda dev'essere rigettata.
Nell’ambito di un procedimento cautelare, promosso per la tutela dei diritti di un produttore fonografico, la prova principale dell’esistenza del fumus bonis iuris, con riferimento alla qualifica di “produttore titolare dei fonogrammi”, ossia alla titolarità dei diritti connessi, può consistere nell’indicazione, riportata sulla copertina del CD, del nome della società produttrice dell’album, elemento valevole come presunzione semplice, ex art. 99-bis l.d.a., che può essere superata soltanto da prova contraria.
Non trova applicazione l’art. 35 del Regolamento (UE) n. 1215/2012 e pertanto non sussiste la giurisdizione italiana c.d. esorbitante in relazione a una domanda cautelare di ripristino o riattivazione di una pagina Instagram proposta nei confronti della società proprietaria della piattaforma con sede in Irlanda, che aveva provveduto a disattivare tale pagina, in un caso in cui la società ricorrente, che non può qualificarsi consumatore, abbia validamente sottoscritto la clausola di deroga della giurisdizione contenuta nelle condizioni d’uso della piattaforma e la misura cautelare non possa o non debba essere eseguita in Italia. Il provvedimento richiesto, infatti, avente ad oggetto un obbligo di fare, non può che essere eseguito dove le scelte vengono adottate e l'autonomia negoziale viene esercitata, ossia presso la sede irlandese della società resistente, mentre non assume rilievo ed è inconferente rispetto all’ordine di ripristino del profilo Instagram ogni riferimento alla localizzazione degli effetti di quest’ultimo.
Deve essere inibita, ai sensi dell’art. 131 c.p.i., la condotta della società che si è posta in violazione sia della disposizione negoziale che la obbligava a non utilizzare un marchio figurativo registrato a seguito della risoluzione per inadempimento di un contratto di affiliazione commerciale, sia dell’art. 20 del c.p.i., il quale attribuisce al titolare di un marchio registrato il diritto di vietare a terzi, tra le altre condotte, quella di usare nell’attività economica un segno identico al marchio per prodotto o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato (lett. a). Ricorrono, infatti, tanto il requisito del fumus boni iuris, in quanto l’utilizzo del marchio quando sia revocato il consenso del titolare è privo di un titolo giustificativo, nonché in relazione alla apparente identità dei servizi commercializzati dalla resistente con quelli per cui il marchio è stato registrato, ed esso si presenta dunque idoneo a generare nel pubblico il rischio di confusione, quanto il requisito del periculum in mora, in considerazione dell’attualità del fenomeno contraffattorio, e della potenzialità espansiva del danno, poiché suscettibile di provocare effetti pregiudizievoli nei rapporti economici di mercato non integralmente riparabili per equivalente monetario, oltre che difficilmente quantificabili all’esito del giudizio di merito.
La produzione in giudizio del provvedimento n. 55 del 2005 della Banca d’Italia è sufficiente a provare la sussistenza dell’intesa restrittiva della concorrenza e, di conseguenza, la nullità parziale di una fideiussione stipulata nell'anno 2000, costituendo le conclusioni assunte dall’AGCM, se non impugnate o passate in giudicato a seguito del relativo contenzioso dinanzi al giudice amministrativo, “prova privilegiata” in relazione alla sussistenza del comportamento accertato, anche se ciò non esclude la possibilità che le parti possano offrire prove a sostegno di tale accertamento o ad esso contrarie.
L’accertamento della Banca d’Italia si riferisce allo schema contrattuale elaborato dall’associazione di categoria per le fideiussioni omnibus, senza investire il settore delle fideiussioni rilasciate a garanzia delle obbligazioni derivanti da specifiche operazioni bancarie. Infatti, il punto 2 e il punto 9 del provvedimento n. 55 del 2005 precisano che “l’istruttoria riguarda lo schema contrattuale relativo alla fideiussione a garanzia delle obbligazioni bancarie, che disciplina la prestazione della garanzia fornita da un soggetto (fideiussore) a beneficio di qualunque obbligazione, presente e futura, del debitore di una banca”.
La mancata dimostrazione di un’intesa relativa alle fideiussioni specifiche volte a falsare la libera concorrenza e la carenza di strumenti probatori utili a dimostrarne la sussistenza, anche solo a livello indiziario, comportano il rigetto della domanda di declaratoria della nullità parziale.
Il requisito del carattere individuale di un disegno consiste nel possesso di un aspetto che desta nell'utilizzatore informato un'impressione generale significativamente diversa da quella di qualsiasi modello o disegno già divulgato al pubblico alla data del deposito del modello. Il concetto di utilizzatore informato non va inteso nel senso di utilizzatore occasionale del prodotto che incorpora il disegno in questione, bensì di quello che per ragioni di passione od occupazione utilizza tale prodotto e quindi si informa su quanto è presente sul mercato.
La divulgazione di un disegno fa sorgere una presunzione relativa circa la sua conoscenza negli ambienti specializzati del settore interessato. Tale presunzione può essere contrastata dimostrando le circostanze del caso che possono "ragionevolmente impedire" che i fatti oggetto di pubblicazione fossero conosciuti nel corso della "normale attività commerciale" degli "ambienti specializzati" del settore interessato. In relazione all'accertamento della divulgazione di un disegno e alla conseguente carenza di novità dello stesso, per "ambienti specializzati" devono intendersi quelli che trattano commercialmente, per professione o collezionismo, prodotti di quel tipo. Qualora si tratti di un disegno incorporato in un prodotto di largo uso, una notevole diffusione in ambienti anche non specializzati da parte degli operatori di settore può ammontare ad una "conoscibilità ragionevole" tale da privare di novità il disegno in questione.
La valutazione circa il c.d. valore artistico di un disegno industriale va effettuata in relazione a criteri di valutazione quali "il riconoscimento, da parte degli ambienti culturali ed istituzionali, circa la sussistenza di qualità estetiche ed artistiche; l'esposizione in mostre o musei; la pubblicazione su riviste specializzate; l'attribuzione di premi; l'acquisto di un valore di mercato così elevato da trascendere quello legato soltanto alla sua funzionalità ovvero la creazione da parte di un noto artista".
La mera circostanza che il prodotto in relazione al quale si invoca la tutela autorale quale opera del disegno industriale sia in vendita nei negozi dei musei attesta che si tratta di un prodotto bello e interessante, ma non ne dimostra la sussistenza di "valore artistico" in assenza di altri supporti più autorevoli.
È debole il marchio caratterizzato da elementi che presentino aderenza concettuale alla natura dell’attività svolta dal suo titolare.
La debolezza di un marchio non incide sull’attitudine alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, atteso che sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modifiche o aggiunte. In presenza di un marchio debole registrato, l’inserimento di piccole varianti o di ulteriori componenti all’interno di un altro segno in comparazione vale dunque a scongiurare o attenuare significativamente il pericolo di confusione e di indebita associazione tra di essi.