Un illecito contraffattivo imputato a più a soggetti per aver asseritamente violato una precedente inibitoria proseguendo nella commercializzazione di un prodotto registrato come modello comunitario ha natura extracontrattuale e può dar luogo a responsabilità solidale tra i concorrenti nell'illecito.
A tal fine, l’attore è onerato sia della prova della contraffazione che della prova del concorso fattivo di più soggetti nella sua realizzazione in base ai principi di diritto comune.
Gli atti interruttivi della prescrizione compiuti nei riguardi di un condebitore solidale - nella specie un ricorso cautelare e un successivo atto di citazione - interrompono la prescrizione anche nei confronti degli altri condebitori, con effetti regolati, per tutti i condebitori, dall'art. 2945 comma 2 c.c..
Nel caso in cui venga allegato il concorso della società controllante nella contraffazione posta in essere dalle società controllate, in mancanza di prova di condotte o decisioni concrete e rilevanti ai fini dell’attuazione dell’illecito contraffattivo, non è possibile trasferire sic et simpliciter la responsabilità dell’illecito dalle controllate alla controllante. Del resto, il controllo societario e anche la stessa presunzione di direzione e coordinamento ex artt. 2359 e 2497 sexies c.c. non elidono la distinzione soggettiva fra i vari soggetti giuridici e le individualità delle rispettive responsabilità. Allo stesso modo, il legale rappresentante della controllante non può ritenersi responsabile dell’illecito ex art. 2395 c.c., in concorso con la sua società e le altre società del gruppo, in mancanza di prova di un suo fattivo contributo alla violazione dell’inibitoria.
L’insegna è segno distintivo del luogo in cui l’imprenditore svolge la sua attività ed acquisisce particolare importanza nelle imprese in cui lo stabilimento costituisce il punto di incontro tra imprenditore e clientela, assumendo, quindi, rilevanza eminentemente locale, come rilevanza eminentemente locale assume il conflitto tra insegne, in quanto idoneo a creare confusione in ambito locale, ovvero ove si produce l’incontro tra imprenditore e cliente che possa essere sviato.
In tema di conflitto tra insegne confondibili, non può avere rilevanza la questione della legittima coesistenza tra segno preusato in ambito meramente locale e segno registrato in ambito nazionale o la cui notorietà qualificata sia stata acquisita nel medesimo ampio contesto territoriale in ragione dell’uso continuativo e significativo di esso, questione rilevante, invece, nel caso di conflitto tra marchi.
L’insegna deve reputarsi privativa industriale non titolata, secondo il disposto dell’art. 1 D.Lgs. n. 30/2005, con il conseguente compendio di tutele, anche cautelari, approntate dal diritto industriale, oltre che dagli artt. 2564 comma 1 cc e 2568 cc. Consegue che il periculum in mora deve essere valutato secondo la disciplina dell’art. 131 D.Lgs. n. 30/2005, essendo rivolta la richiesta a far cessare la condotta illecita confusoria, pur secondo le modalità specificamente previste dall’art. 2564 comma 1 cc, ovvero mediante imposizione di integrazione o modificazione dell’insegna interferente, od anche con la totale eliminazione del cognome confondibile.
In caso di conflitto tra insegne patronimiche, ove il cognome costituisca cuore del segno, il Giudice può anche disporre la totale eliminazione del cognome confondibile dall’insegna usata per seconda.
La competenza funzionale della Sezione Specializzata in materia di impresa si determina avuto riguardo al ‘petitum’ sostanziale e alla ‘causa petendi’, dovendo la controversia essere inerente propriamente ai diritti di proprietà industriale e dunque tale per cui la decisione sia idonea a incidere sui medesimi.
La domanda di mero pagamento di corrispettivi contrattuali, pur in tema di licenza d’uso di marchio, in assenza di contestazione alcuna sulla validità del contratto, sul diritto d’uso del marchio, sulla determinazione delle royalties e, comunque, su aspetti propriamente inerenti alla materia di diritti di proprietà industriale, esula dalla competenza funzionale della Sezione specializzata in materia di impresa.
Nel caso in cui una domanda è proposta in più giudizi pendenti, il fatto che non vi sia coincidenza della parte che ha proposto la domanda comporta l’esclusione in radice dell’ipotesi della litispendenza.
La sentenza che accoglie la domanda di nullità ha efficacia erga omnes, mentre la sentenza di rigetto ha efficacia esclusivamente tra le parti.
Nonostante parte convenuta abbia avanzato domanda risarcitoria e domanda per lite temeraria ex art. 96 c.p.i., parte attrice soccombente può essere condannata al pagamento integrale delle spese di lite, qualora la domanda di risarcimento avanzato dalla convenuta vittoriosa abbia un peso istruttorio nullo e considerando altresì che la domanda ex art. 96 c.p.c. costituisce mera domanda accessoria.
In materia di violazione di segni distintivi non registrati e concorrenza sleale, la presenza di due marchi diversi, ben visibili, inconfondibili e che non lasciano dubbi sulla diversa identità dei produttori, è sufficiente a differenziare il prodotto e ad escludere l’imitazione servile ex art. 2598, co. 1, n. 1 c.c..
Ai fini dell'accertamento dell’imitazione servile, la comparazione tra prodotti dev'essere compiuta non attraverso un esame analitico dei singoli elementi caratterizzanti, ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore, con la conseguenza che quanto minore è l’importanza merceologica del prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni immediate e sollecitazioni sensoriali.
L'imitazione servile va distinta dalla condotta di appropriazione dei pregi altrui, contemplata all'art. 2598, co. 1, n. 2, c.c., la quale è integrata dal vanto operato da un imprenditore circa le caratteristiche della propria impresa, non realmente possedute bensì indebitamente mutuate da quelle di un altro imprenditore, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.
In tema di accertamento dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dall’art. 2 della l. n. 287/90, e con particolare riguardo alle clausole relative a contratti di fideiussione da parte delle banche, il provvedimento della Banca di Italia di accertamento dell’infrazione, adottato prima delle modifiche apportate dall’art. 19, co. 11, della l. n. 262 del 2005, possiede, al pari di quelli emessi dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un’elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale. Pertanto, l’accertamento effettuato dalla Banca d’Italia con il provvedimento amministrativo n. 55 del 2005 riferibile al periodo temporale ottobre 2022 - maggio 2005 esplica elevata attitudine probatoria in ordine all’esistenza dell’intesa anticoncorrenziale rispetto alle fideiussioni omnibus stipulate nel corso della finestra temporale oggetto dell’accertamento.
Quel che assume rilievo, ai fini della nullità delle clausole del contratto di fideiussione omnibus riproducenti lo schema ABI, è che esse costituiscono lo sbocco dell’intesa vietata e cioè che attraverso dette disposizioni si siano attuati gli effetti di quella condotta illecita nei confronti di tutti gli operatori del mercato; ciò che va accertato, pertanto, è la coincidenza delle condizioni contrattuali col testo di uno schema contrattuale che possa ritenersi espressivo della vietata intesa restrittiva, per cui il giudice deve valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva.
Con riferimento alle fideiussioni omnibus, laddove sia accertato che le clausole del contratto siano il frutto o, meglio, l’estrinsecazione di un’intesa illecita ex art. 2 l. n. 287/1990, può configurarsi, oltre al rimedio del risarcimento del danno, anche quello civilistico della nullità speciale, posta – attraverso le previsioni di cui agli artt. 101 del TFUE e all’art. 2, co. 2, della l. 287/90 – a presidio di un interesse pubblico e, in specie, dell’ordine pubblico economico; dunque, nullità ulteriore a quella che il sistema già conosceva. In tal senso depone la considerazione che siffatta forma di nullità ha una portata più ampia della nullità codicistica (art. 1418 c.c.) e delle altre nullità conosciute dall’ordinamento – come la nullità di protezione nei contratti del consumatore (c.d. secondo contratto), e la nullità nei rapporti tra imprese (c.d. terzo contratto) –, in quanto colpisce anche atti, o combinazione di atti avvinti da un nesso funzionale, non tutti riconducibili alle suindicate fattispecie di natura contrattuale. La ratio di tale speciale regime è tale da ravvisarsi nell’esigenza di salvaguardia dell’ordine pubblico economico, a presidio del quale sono state dettate le norme imperative nazionali ed europee antitrust. Il contratto tra imprenditore e utente finale costituisce il compimento stesso dell’intesa anticompetitiva tra imprenditori, la sua realizzazione finale, il suo senso pregnante, mentre ragionando diversamente si giungerebbe a negare l’intero assetto, comunitario e nazionale, della normativa antitrust, la quale è posta a tutela non solo dell’imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato.
Le clausole del contratto di fideiussione omnibus conformi a quelle di cui allo schema ABI illecito, devono essere dichiarate nulle in virtù al principio di conservazione degli atti negoziali, costituente la regola nell’ordinamento, a meno che non risulti comprovata agli atti una diversa volontà delle parti, nel senso dell’essenzialità, per l’assetto degli interessi divisato, dalla parte del contratto colpita da nullità. Va, per contro, esclusa la nullità totale del contratto a valle, con specifico riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio. Ed invero, anche a prescindere dalle critiche mosse a siffatta impostazione – sotto i diversi profili dell’inconfigurabilità di un collegamento negoziale tra intesa e fideiussione, della non ravvisabilità di un vizio della causa o dell’oggetto, ecc.) –, è proprio la finalità perseguita dalla normativa antitrust ad escludere l’adeguatezza del rimedio in questione.
Il provvedimento n. 55 del 2005, quale prova privilegiata relativa alla sussistenza dell’intesa anticoncorrenziale, non si estende né alla prova dell’esistenza del nesso di causalità tra il fatto illecito e il danno patito, né alla prova del danno conseguenza, che resta rimessa all’onere probatorio di parte istante. Se il legislatore avesse voluto estendere l’efficacia della decisione dell’Autorità Garante anche alla prova del nesso di causalità e del danno lo avrebbe fatto espressamente.
Ai sensi dell'art. 110-septies l.d.a. (in attuazione dell'art. 22 Dir. (UE) 2019/790) l'autore o artista interprete o esecutore che ha concesso in licenza o trasferito in esclusiva i propri diritti relativi ad un’opera, ha il diritto di poter agire per la risoluzione, anche parziale, del contratto ovvero di revocare l’esclusiva del contratto, in caso di mancato sfruttamento dell’opera nel termine stabilito convenzionalmente, comunque non superiore ai termini di legge. La ratio della disciplina è quella di introdurre, a favore del cedente, uno strumento rimediale per l’ipotesi in cui le opere non siano sfruttate dal cessionario per un lasso di tempo ragionevole, così da consentirgli, dopo lo scioglimento del contratto, di rivolgersi ad altri soggetti affinché i diritti aventi ad oggetto le opere vengano effettivamente utilizzati.
Tale diritto tuttavia non spetta agli autori, artisti interpreti e esecutori in relazione ai contratti conclusi prima del 6 giugno 2021.
In difetto di una previsione contrattuale specifica, il mancato esercizio dei diritti di utilizzazione economica di opere musicali, oggetto di cessione contrattuale, non può configurare inadempimento rilevante ai fini della risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c.
La confondibilità tra due marchi va valutata alla luce di un esame globale, visivo, fonetico e concettuale, che, quindi, non deve essere “analitico”, bensì basarsi sull’impressione complessiva prodotta dai marchi a confronto in considerazione dei loro elementi distintivi e dominanti, tenuto conto della normale diligenza ed avvedutezza dei consumatori.
La contraffazione rileva in relazione agli elementi essenziali del marchio; l’interprete deve preventivamente individuare il “cuore”, ossia l’idea fondamentale che è alla base e connota il marchio di cui si chiede la tutela ed in cui si riassume la sua attitudine individualizzante, sicché devono ritenersi inidonee ad escludere l’illecito tutte le variazioni e modificazioni, anche rilevanti e originali, che lasciano sussistere la confondibilità del nucleo ideologico-espressivo.
[Nel caso in esame il Tribunale di Napoli ha ritenuto che, sotto il profilo visivo e fonetico, i marchi delle parti in causa fossero, quanto al loro nucleo essenziale, del tutto identici, “in particolare per l’identità dei caratteri utilizzati, del colore, del motivo e dello sfondo; il fatto che il segno di parte convenuta presenti una lettera diversa non scongiura la somiglianza dei segni a confronto, atteso che il marchio rimane sostanzialmente inalterato”].
In materia di opposizione all’ordinanza-ingiunzione del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali per violazione delle disposizioni sulle denominazioni protette di cui al d.lgs. n. 297 del 2004 non sono competenti le Sezioni Specializzate in materia d’impresa in quanto il procedimento prescinde dalla lesione di un diritto di proprietà industriale, essendo deputato ad accertare la sussistenza delle condizioni di legge per l’irrogazione della sanzione amministrativa e non venendo in rilievo il diritto attinente all'utilizzazione della denominazione protetta.
La natura dell’accertamento cui è chiamato il tribunale nelle controversie antitrust si fonda sulla verifica dell’esistenza di un’intesa illecita a monte, da cui discende la nullità dei contratti a valle.
Il contratto costituente una fideiussione specifica non rientra nell’ambito di applicazione del provvedimento n. 55 del 2005 della Banca d’Italia, che ha dichiarato la contrarietà alla l. n. 287/90 degli artt. 2, 6, 8 dello schema ABI del 2002, riferito esclusivamente alle fideiussioni omnibus perfezionate sulla scorta di tale modello contrattuale.
In particolare, il provvedimento della Banca d’Italia evidenzia che la fideiussione omnibus presenta una funzione specifica e diversa da quella della fideiussione civile, volta a garantire una particolare tutela alle specificità del credito bancario, in considerazione della rilevanza dell’attività di concessione di finanziamenti in via professionale e sistematica agli operatori economici. È con riguardo a tale fattispecie contrattuale che la Banca d’Italia ha valutato come le clausole dello schema ABI, di per sé lecite se inserite in fideiussioni specifiche, possono determinare effetti anticoncorrenziali, in senso ingiustificatamente sfavorevole alla clientela.
Alla luce della specificità della questione e delle censure rilevate con riguardo alla garanzia bancaria in materia di fideiussioni omnibus, aventi ad oggetto non solo le obbligazioni assunte dal debitore, ma anche quelle da assumere, è da escludere l’ammissibilità dell’applicazione analogica del provvedimento n. 55 del 2005 della Banca d’Italia alle fideiussioni specifiche, per due ordini di ragioni. La prima concerne l’impossibilità di procedere all’interpretazione analogica ex art. 12 delle preleggi del provvedimento, il quale non va qualificato in termini di fonte del diritto in mancanza del requisito dell’innovatività dell’ordinamento giuridico in modo stabile, trattandosi di un provvedimento amministrativo di carattere sanzionatorio circoscritto all’ambito temporale, oggetto dell’accertamento e dell’istruttoria espletata dall’autorità di vigilanza. La seconda afferisce alla vincolatività del suindicato provvedimento sanzionatorio, il cui oggetto incidente soltanto sulle fideiussioni omnibus va interpretato restrittivamente, in ossequio al principio di legalità che informa il sistema sanzionatorio previsto dalla l. n. 287/90.
Con riguardo alle fideiussioni specifiche, non è sufficiente nemmeno l’allegazione di moduli contenenti le clausole censurate, predisposte da vari istituti di credito, al fine della prova dell’illiceità dell’intesa a monte, in quanto la standardizzazione contrattuale non produce necessariamente effetti anticoncorrenziali, né costituisce elemento dirimente per accertare l’accordo illecito tra gli istituti di credit.
La clausola c.d. “a prima richiesta” è stata esclusa dal perimetro sanzionatorio del provvedimento della Banca d’Italia, la quale ne ha riconosciuto la validità, in ragione dell’importante funzione di protezione del credito bancario. Più precisamente, la clausola c.d. “a prima richiesta”, da un lato, permette alla banca di recuperare il proprio credito senza dovere escutere in precedenza il debitore principale, né di dimostrare il verificarsi di una specifica condizione; dall’altro, consente al fideiussore di far valere i suoi diritti nel momento successivo all’adempimento al pari di una lecita clausola solve et repete, in caso di un’eventuale ripetizione dell’indebito oggettivo nei confronti della banca, quale soggetto ragionevolmente solvibile.
Secondo l'ordinario criterio di riparto dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c., l'onere di provare che un determinato marchio è stato registrato in mala fede ricade sul soggetto che ne affermi, per tale motivo, la nullità ai sensi dell'art. 25, lettera b), c.p.i.
L'onere probatorio in questione può ritenersi integrato a fronte della violazione di una legittima aspettativa altrui alla registrazione di quel segno non tutelata da diverse espresse disposizioni, in particolare allorché: a) la registrazione venga effettuata nella consapevolezza del fatto che altri, avendo il merito del valore del segno (ad es. per averlo concepito), fossero in procinto di registrarlo, rilevando al riguardo, sotto il profilo probatorio, i rapporti privilegiati tra il registrante (ad es. lavoratore subordinato o agente) e il danneggiato, qualora il primo abbia approfittato delle conoscenze così acquisite; b) si tratti di segno oggetto di preuso non puramente locale da parte di terzi, la cui notorietà sia in fieri; c) la registrazione venga effettuata al solo scopo di impedire che un terzo entri nel mercato.
La protezione del diritto d'autore riguardante programmi per elaboratori (il "software", che rappresenta la sostanza creativa dei programmi informatici), al pari di quella riguardante qualsiasi altra opera, postula il requisito dell'originalità, occorrendo pertanto stabilire se il programma sia o meno frutto di un'elaborazione creativa originale rispetto ad opere precedenti, fermo restando che la creatività e l'originalità sussistono anche quando l'opera sia composta da idee e nozioni semplici, comprese nel patrimonio intellettuale di persone aventi esperienza nella materia propria dell'opera stessa, purché formulate ed organizzate in modo personale ed autonomo rispetto alle precedenti.
L'adattamento e la trasformazione di un programma al fine della sua utilizzazione in una versione più aggiornata costituisce plagio parziale del programma stesso, ai sensi dell'art. 64-bis l.d.a, e non una sua originale rielaborazione né una sua modificazione essenziale all'uso o utile al conseguimento dell'interoperabilità.