La deliberazione assembleare autorizzativa dell’azione di responsabilità, contenente l'individuazione degli elementi costitutivi dell'azione, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, costituisce un presupposto che attiene alla legittimazione processuale della parte attrice ed è suscettibile di regolarizzazione "ex tunc”, con la conseguenza che la produzione della deliberazione successiva ed entro il termine assegnato consente la prosecuzione del giudizio ed il rigetto della eccezione di inammissibilità della domanda.
La costituzione di parte civile nel processo penale spiega un effetto interruttivo permanente del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno scaturito dal reato; termine che riprende a decorrere dal momento in cui diviene irrevocabile la sentenza che definisce il processo penale. In tal senso il termine decorre non dalla verificazione dell'evento, ma dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di estinzione del reato, riponendo il danneggiato fino a tale momento un legittimo affidamento sul permanere dell'effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione conseguente all'esercizio dell'azione civile.
La responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati nella gestione della società ha natura contrattuale. Pertanto, la società (o il curatore nel caso di fallimento) deve provare le violazioni compiute dagli amministratori e il nesso di causalità tra queste e il danno. Viceversa, gli amministratori sono onerati della prova della corretta osservanza dei doveri previsti dalla legge o dallo statuto.
L’art. 2382 c.c. prevede lo stato di interdizione o inabilitazione come cause di ineleggibilità e di decadenza degli amministratori. Ciò non vale anche per la nomina dell'amministratore di sostegno data la peculiarità di tale istituto, caratterizzato dalla modularità in funzione di supporto all’amministrato e non già dalla sottrazione generalizzata di capacità. La decadenza potrebbe predicarsi solo ove il giudice tutelare nel nominare un amministratore di sostegno avesse espressamente disposto, ex art. 411 comma 4 c.c., l'estensione alla fattispecie della specifica decadenza di cui all’art. 2382 c.c..
L’omessa o incompleta tenuta delle scritture contabili della società non comporta di per sé un danno per la società stessa o per i creditori sociali, in quanto l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avuto riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento. In particolare, la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno da risarcire sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso a esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo. In altri termini, postulare che l’amministratore debba rispondere dello sbilancio patrimoniale della società accertato in sede fallimentare solo perché non ha tenuto o non ha correttamente tenuto la contabilità sociale e, dunque, non ha consentito alla Curatela la ricostruzione completa delle vicende societarie, significherebbe attribuire al risarcimento del danno una funzione prettamente sanzionatoria, in quanto si prescinderebbe dall’accertamento del nesso eziologico tra l’inadempimento contestatogli e il danno sofferto dal patrimonio della società. Invero, la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, senza però determinarli; è da quegli accadimenti che deriva il danno patrimoniale, non dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità.
Nel caso di irregolare tenuta della contabilità sociale, integrante indubbiamente una grave violazione dei doveri gravanti sull’amministratore, l’intero deficit fallimentare non può essere essere automaticamente attribuito ad atti di mala gestio, a prescindere dall’identificazione di tali atti e della loro finanche solo presunta idoneità pregiudizievole, in quanto la contabilità registra gli accadimenti economici, ma non li determina. Il criterio del deficit fallimentare resta sì applicabile, ma soltanto come criterio equitativo per l’ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente il danno in conseguenza dell’affermazione di esistenza della prova almeno presuntiva di condotte di tal genere. Sul piano del nesso causale, infatti, il risultato negativo di esercizio non è conseguenza immediata e diretta della mancata o dell’irregolare tenuta delle scritture contabili ma del compimento da parte dell’amministratore di un atto di gestione contrario ai doveri di diligenza, prudenza, ragionevolezza e corretta gestione. L’amministratore deve sì dare conto di tale atto di gestione nelle scritture contabili, ma laddove ometta tale rilevazione non è necessariamente detto che sussista una perdita di gestione né che quest’ultima, laddove esistente, dipenda dall’irregolarità della tenuta dei registri contabili e della documentazione che l’impresa ha l’obbligo di conservare. In quest’ottica, è onere di colui che afferma l’esistenza di una responsabilità dell’amministratore allegare specificamente l’atto o gli atti contrari ai doveri gravanti sull’amministratore, dimostrare l’esistenza di tale atto e del danno al patrimonio sociale. Soltanto una volta soddisfatti tali oneri, la mancanza delle scritture contabili rileverà quale presupposto per l’utilizzo dei criteri equitativi “differenziali”. Sul piano dei principi generali, d’altronde, il potere del giudice di liquidare equitativamente il danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. presuppone pur sempre che vi sia la prova dell’esistenza del medesimo e del nesso di causalità ma che la quantificazione del danno non sia agevole; il potere, invece, non può essere esercitato né invocato dal danneggiato quale modalità per aggirare l’onere della prova relativamente agli elementi costitutivi.
In caso di accertata violazione dell’art. 2486 c.c., il danno va misurato secondo i criteri oggi cristallizzati da detta norma (c.d. differenza fra patrimoni netti), quale modificata nel 2019, ma applicabili anche alle condotte anteriori in quanto già precedentemente elaborati e applicati dalla giurisprudenza tutte le volte in cui il danno per deterioramento del patrimonio sociale derivante dalla gestione non liquidatoria non era il frutto di singoli ed individuabili atti gestori, ma della miriade delle condotte di impresa, proprie dell’operare della società nel mercato.
Nel caso in cui l’amministratore della società conceda al creditore sociale un’ipoteca di maggiore valore rispetto al debito effettivo, il danno all'integrità del capitale sociale deriva non tanto dalla costituzione della garanzia reale, ma dal riconoscimento del maggior debito da parte dell’amministratore. L’amministratore che erroneamente riconosca un maggior debito rispetto a quello effettivo a favore del creditore sociale non risponde ai sensi dell’art. 2476 c.c. se il creditore sociale ha poi rinunciato al maggior credito riconosciutogli, atteso che detta rinuncia è idonea a interrompere il nesso causale tra il riconoscimento del maggior debito e il danno all’integrità del capitale sociale.
Risponde dei danni all'integrità del capitale sociale l’amministratore in carica che, in presenza di una rinuncia parziale del credito da parte del creditore sociale, non si opponga al pagamento della maggior somma anteriormente riconosciutagli dall’amministratore cessato.
In materia di fallimento, l’amministratore non risponde nel caso in cui la società estingua il mutuo erogato a suo favore prima della scadenza contrattuale: infatti, non può ritenersi che tale operazione abbia natura distrattiva (ove non vi siano elementi circa lo stato di insolvenza della società), trattandosi dell'estinzione di un debito effettivamente contratto dalla società e, dunque, del versamento di una somma effettivamente dovuta.
Il contratto di compravendita concluso dall’amministratore nominato con delibera viziata è da ritenersi inefficace, ma la causa di invalidità della nomina dell’amministratore non è opponibile ai terzi dopo la pubblicità, salvo che la società non dimostri che il terzo ne era a conoscenza.
Non sussiste un conflitto immanente d'interessi, tale da condurre in ogni caso alla nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., nei giudizi di impugnazione delle deliberazioni assembleari di società, tenuto conto che, in tali giudizi, il legislatore prevede la legittimazione passiva esclusivamente in capo alla società in persona di chi ne ha la rappresentanza legale, né è fondata una valutazione del menzionato conflitto in capo all'amministratore che rappresenti in giudizio detta società, solo in ragione del fatto che la deliberazione impugnata ha ad oggetto profili di pertinenza di quest'ultimo (come avviene per l'approvazione del bilancio, redatto dall'organo gestorio, o per la determinazione del compenso spettante ex art. 2389 c.c. o per l'autorizzazione al compimento di un atto gestorio ex art. 2364, comma 1, n. 5, c.c.), poiché ravvisare in tali ipotesi una situazione di conflitto di interessi indurrebbe alla nomina di un curatore speciale in tutte (o quasi tutte) le cause di impugnazione delle deliberazioni assembleari (o consiliari), con l'effetto distorsivo, non voluto dal legislatore processuale, per cui il socio impugnante tenterebbe sempre di ottenere, mediante il surrettizio ricorso al procedimento di nomina di un curatore speciale, l'esautoramento dell'organo amministrativo dalla decisione delle strategie di tutela a nome della stessa.
La circostanza che l’amministratore abbia redatto la situazione patrimoniale oggetto di impugnativa non è certamente idonea ad integrare un confitto di interessi con la società convenuta; diversamente opinando, sussisterebbe tale conflitto tutte le volte in cui sia impugnato un bilancio redatto dall’amministratore in carica al momento in cui viene proposta l’impugnazione. Del pari, la circostanza che l'amministratore sia il socio di maggioranza non integra, di per sé sola, la sussistenza di un conflitto di interessi con la società.
Il conflitto di interessi di cui all’art. 78 cpv. c.p.c. sussiste in tutti e soli i casi in cui vi sia un contrasto fra la società e il suo legale rappresentante, per essere quest’ultimo giuridicamente (e non solo in via di fatto) e direttamente interessato ad un esito della lite diverso da quello che possa invece avvantaggiare l’ente; tale giuridico conflitto non sussiste, invece, quando gli interessi confliggenti appartengano in realtà ai soci o a gruppi di essi, dei quali alcuni, fisiologicamente dissenzienti ma minoritari e altri, maggioritari, che abbiano concorso con il loro voto all’adozione di determinate decisioni assembleari o ad esprimere l’organo amministrativo.
La perdita della qualità di socio in capo a chi non abbia sottoscritto la propria quota di ricostituzione del capitale sociale non incide sulla legittimazione ad esperire le azioni di annullamento e di nullità della deliberazione assembleare adottata ex art. 2447 o 2482 c.c., che rimane inalterata, in quanto sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con il principio di cui all'art. 24, comma 1, Cost., ritenere come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l'istante assume essere "contra legem" e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti.
Una deliberazione assembleare può essere annullata, sotto il profilo dell'abuso della regola di maggioranza, quando risulti arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci maggioritari al solo fine di perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero di ledere gli interessi degli altri soci. La relativa prova incombe sul socio di minoranza il quale dovrà a tal fine indicare i "sintomi" di illiceità della delibera – deducibili non solo da elementi di fatto esistenti al momento della sua approvazione, ma anche da circostanze verificatesi successivamente – in modo da consentire al giudice di verificarne le reali motivazioni e accertare se effettivamente abuso vi sia stato. Peraltro, all'infuori della ipotesi di un esercizio "ingiustificato" ovvero "fraudolento" del potere di voto ad opera dei soci maggioritari, resta preclusa ogni possibilità di controllo in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla votazione della deliberazione, essendo insindacabili le esigenze relative all'economia individuale del socio che possano averlo indotto a votare per una soluzione dissolutiva.
Nell’ambito della disciplina delle delibere assembleari, la regola della maggioranza, secondo cui i soci dissenzienti di minoranza si trovano vincolati alla decisione adottata, trova il suo limite nel necessario rispetto dei principi di correttezza a buona fede, che trovano espressione anche nell’esecuzione del contratto sociale, posto che, ove la maggioranza abbia espresso il suo voto in modo arbitrario e tale da ledere ingiustificatamente gli interessi della minoranza, la delibera medesima potrà essere legittimamente impugnata. L’abuso di maggioranza costituisce, in estrema sintesi, un vizio che va ad inficiare una delibera il cui profilo di invalidità consiste appunto nell’avere piegato fraudolentemente la maggioranza ad un proprio interesse personale, in danno di un altro socio, senza che l’operazione sia assistita da un interesse sociale. In altre parole, l’elemento di discrimine tra legittima soggezione della minoranza al principio maggioritario ed abuso di detto principio, tale da rendere arbitrario e ingiustificato il voto apparentemente vincolante, è la ricorrenza dell’interesse sociale: ove nel voto espresso dalla maggioranza non si possa individuare alcun interesse sociale, il pregiudizio sopportato dalla minoranza potrà considerarsi arbitrario ed ingiustificato, diversamente dal caso in cui il sacrificio della minoranza sia giustificato dal superiore interesse sociale.
L'abuso di maggioranza costituisce violazione dei doveri contrattuali, che nascono dal contratto di società e, pertanto, la lesione del socio minoritario, per essere rilevante, deve attenere, in via di principio, al suo diritto partecipativo, cioè al medesimo diritto che entra in gioco nel contratto sociale [nella specie il socio di minoranza contestava di non essere stato nominato amministratore, come invece costantemente avvenuto in passato].
L’azione sociale di responsabilità ex art. 146 l. fall. ha natura contrattuale, sicché il curatore può limitarsi a dimostrare la qualità di amministratore del soggetto convenuto e allegare specificamente l’inadempimento agli obblighi di diligenza, mentre grava sull’amministratore l’onere di dimostrare di aver correttamente adempiuto agli obblighi gestori.
Il contrasto tra diritto di estrazione delle copie da parte del socio di s.r.l. ed esigenze di riservatezza della società va risolto alla luce del generale principio di buona fede, la cui applicazione allo specifico rapporto sociale comporta che il diritto alla consultazione della documentazione sociale e alla estrazione di copia possano trovare specifica limitazione laddove alle esigenze di controllo "individuale" della gestione sociale, cui è preordinato il diritto del socio ex art. 2476, co. II, c.c., si contrappongano non pretestuose esigenze di riservatezza fatte valere dalla società.
L’estrazione di copia dei documenti oggetto di ispezione costituisce una facoltà accessoria che deve essere giustificata dal socio e che può essere limitata ovvero esclusa nei casi in cui prevalga l’interesse sociale alla riservatezza dei dati e delle informazioni presenti nella documentazione visionata, onde evitare che il loro contenuto possa essere divulgato o utilizzato impropriamente.
L’esclusione della facoltà di estrazione delle copie non preclude, ad ogni modo, al socio di promuovere un’azione giudiziale, ben potendo questi, nell’ambito del processo esperito acquisire, con un ordine di esibizione ai sensi dell’art. 210 c.p.c., la documentazione in precedenza esaminata in sede di ispezione effettuata ai sensi dell’art. 2476, co. II, c.c..