La sospensione dell'esecuzione delle deliberazioni assembleari configura una misura cautelare tipica a natura anticipatoria, i cui presupposti sono la presumibile fondatezza del vizio invalidante dedotto (fumus boni iuris) e l'accertamento, effettuato dal giudice con giudizio di carattere comparatistico, della prevalenza del pregiudizio illegittimamente subito dal ricorrente rispetto a quello che, legittimamente, potrebbe soffrire la società per effetto della sospensione della deliberazione oggetto di controversia (periculum in mora).
Sono impugnabili le deliberazioni assunte con la partecipazione determinante di soci che hanno un interesse in conflitto con quello della società allorché: (i) la deliberazione possa recare un danno alla società; e (ii) la partecipazione del socio in conflitto sia stata determinante per l'adozione della deliberazione. In particolare, il conflitto di interessi consiste in una contrapposizione tra l'interesse particolare di uno dei soci e l'interesse della società, di modo che l'uno non possa essere salvaguardato senza l'altro. Pertanto, per integrare una situazione di conflitto di interessi non è sufficiente che il socio miri a realizzare mediante la deliberazione un proprio interesse personale, occorrendo anche che tale interesse si ponga obiettivamente in contrasto con quello della società e che la deliberazione sia idonea a ledere (anche potenzialmente) quest'ultimo interesse, non potendosi ravvisare incompatibilità di posizioni per il sol fatto che i soci abbiano un interesse in un'operazione parallela a quella oggetto della deliberazione.
L'abuso della maggioranza, causa di annullabilità di una deliberazione, deve interpretarsi nel senso che è consentito al socio di esercitare liberamente e legittimamente il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse personale fino al limite dell'altrui potenziale danno. L'abuso della maggioranza legittima l'annullamento di una delibera allorquando la delibera medesima non trovi alcuna giustificazione nell'interesse della società, essendo il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse antitetico rispetto a quello sociale, ovvero sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari a danno dei soci di minoranza "uti singuli". L'onere di provare l'abuso della maggioranza grava sul socio di minoranza che assume l'illegittimità della delibera.
L’art. 2476 comma 3 c.c. richiede, perché sia adottato, su richiesta anche del singolo socio, provvedimento cautelare di revoca dell’amministratore, che questi si sia reso responsabile di “gravi irregolarità nella gestione” (fumus boni iuris) e che l’attualità o la permanenza di tali comportamenti determini il rischio di un pregiudizio imminente ed irreparabile per l’interesse sociale (periculum in mora). Le gravi irregolarità possono essere costituite da violazioni di legge o di statuto anche solo potenzialmente foriere di danno per la società. Inoltre, sebbene la norma parli di irregolarità “di gestione”, non è dubbio che tale termine debba ritenersi comprensivo dell’inadempimento di tutti gli obblighi amministrativi che fanno capo all’amministratore per legge o per statuto, dunque non solo quelli strettamente gestionali, ma anche quelli relativi al funzionamento dell’organizzazione societaria, cioè gli adempimenti o atti di impulso concernenti i rapporti con i soci o con gli altri organi sociali, che gli amministratori sono tenuti a compiere per legge o per obbligo statutario [nel caso di specie, il Tribunale ha rilevato una grave irregolarità comportante la revoca dell’amministratore nella delega totale dei compiti gestori ad un terzo per un lungo periodo di tempo senza alcuna valida giustificazione e in violazione degli oneri di minima diligenza incombenti sull’amministratore].
La domanda di responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali per danno indiretto, derivante dal depauperamento per mala gestio del patrimonio sociale, oggi prevista espressamente per le s.r.l. dall’art 2476, comma 6, c.c., è una azione di carattere extracontrattuale, nella quale dunque incombe all’attore l’intero onere probatorio, esteso anche alla sussistenza dell’elemento della colpa o dolo dell’autore dell’illecito.
Il creditore della s.r.l. è legittimato ad esperire azione ex art. 2476, 6° comma, c.c. , pur in costanza di procedura di liquidazione controllata ai sensi del CCII, dal momento che non è prevista l’estensione a tale procedura del disposto dell’art. 255 C.C.I.I. e, dunque, il liquidatore nominato dal Tribunale non può esercitare le azioni previste dall’articolo in questione, fra le quali quella di cui all’art. 2476 comma 6 c.c.. Il disposto dell’art. 274 C.C.I.I., invece, riguarda le azioni recuperatorie, da esercitare in nome della società, relative ai beni e diritti della società, e non le azioni spettanti ai creditori.
Con riguardo alla prescrizione, l’emersione all’esterno (e quindi ai creditori sociali) della insufficienza del patrimonio alla soddisfazione dei debiti sociali, è presupposto indispensabile per il decorso della prescrizione secondo la regola generale dell’art. 2935 c.c.
La violazione dei doveri informativi verso il socio integranti di cui all’art. 2476 comma 1 c.c. riguarda solo l’interesse del socio, e non quello della società a beneficio della quale sola il socio è abilitato ad esercitare l’azione di revoca.
Ai fini dell'azione di revoca dell'amministratore di s.r.l. di cui all'art. 2476 c.c., le scelte dell’assemblea sono scelte proprie di essa e non esiste norma speculare all'art. 2476, ult. comma c.c. che permetta di addebitare all’amministratore le scelte assembleari, sol perché l’amministratore le abbia poste in discussione con l’indizione dell’assemblea.
Si configura una delibera assembleare inesistente esclusivamente allorquando lo scostamento della realtà dal modello legale risulti così marcato da impedire di ricondurre l'atto alla categoria stessa di deliberazione assembleare, e cioè in relazione alle situazioni nelle quali l'evento storico al quale si vorrebbe attribuire la qualifica di deliberazione assembleare si è realizzato con modalità non semplicemente difformi da quelle imposte dalla legge o dallo statuto sociale, ma tali da far sì che la carenza di elementi o di fasi essenziali non permetta di scorgere in esso i lineamenti tipici dai quali una deliberazione siffatta dovrebbe esser connotata nella sua materialità. Sotto il diverso profilo dell’annullabilità, non ogni incompletezza o inesattezza del verbale inficia la validità della delibera assembleare, ma a tal è necessario che i vizi siano tali da impedire l’accertamento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione. La trascrizione del verbale assembleare nel libro delle decisioni dei soci, prescritta dall’art. 2478 n. 2 c.c., non costituisce una condizione di validità o di esistenza della delibera, con la conseguenza che la sua omissione costituisce una mera irregolarità. L’omessa regolare tenuta del libro delle decisioni dei soci non è scevra di conseguenze: da un lato, il socio può impugnare la delibera senza limiti di tempo, atteso che i termini dettati per le impugnazioni dall’art. 2479 ter c.c. non iniziano a decorrere poiché non vi è una data certa in relazione al momento in cui è intervenuta la trascrizione; dall’altro, la società che non tiene regolarmente il libro delle decisioni dei soci, con la vidimazione e la numerazione progressiva delle pagine, si trova nell’impossibilità di provare con certezza la data in cui la delibera è stata trascritta.
La domanda giudiziale di accertamento dell'invalidità di una delibera assembleare che autorizza la conclusione di un contratto preliminare di alienazione immobiliare non è trascrivibile ai sensi degli artt. 2643, 2652 e 2653 c.c. poiché non produce alcuno degli effetti previsti da tali norme e non rientra nelle ipotesi di trascrivibilità previste dalla legge.
Non deve essere nominato un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. in un'azione di responsabilità verso gli ex amministratori ex art. 2476 c.c. qualora non vi sia un contrasto tra la posizione dell'attuale amministratore (il quale può stare in giudizio anche personalmente, nella sua qualità di socio, ove del caso) e quella della società, potendo la società validamente stare in giudizio per mezzo del proprio rappresentante ordinario senza che l’omissione determini improcedibilità o nullità dell’azione. La nullità, in ogni caso, non si trasmette al momento sostanziale della legittimazione, ma riguarda solo la regolarità della rappresentanza processuale; di conseguenza, in difetto di conflitto la pretesa attorea rimane scrutinabile nel merito.
Le memorie integrative di cui all’art. 183, co. VI, n. 1, consentono la modificazione della domanda originaria sia quanto al petitum sia quanto alla causa petendi, purché la pretesa nuova si ponga in rapporto di sostituzione e continuità logico-giuridica con la vicenda sostanziale dedotta fin dall’inizio. La nuova allegazione non deve quindi costituire domanda aggiuntiva o autonoma, ma deve mantenere un nesso di connessione essenziale con i fatti storici introdotti, in modo da non pregiudicare il contraddittorio né allungare in modo irragionevole i tempi del processo. Non è ammissibile l’ampliamento che introduca per la prima volta fatti generatori del tutto differenti oppure pretese risarcitorie fondate su condotte estranee al nucleo originario, perché tale intervento si tradurrebbe in un indebito mutamento dell’oggetto del contendere, vietato dal sistema.
Quando la parte avversa contesta l’autenticità di una scrittura privata prodotta in copia semplice deducendone la contraffazione, chi intende utilizzarla processualmente deve depositarne l’originale o dimostrarne circostanziatamente la mancata disponibilità. Solo la disponibilità dell’originale consente, infatti, di attivare utilmente il giudizio di falso e di garantire il diritto di difesa della controparte. La mancata esibizione, non giustificata, dell’originale priva la copia di qualunque efficacia probatoria, con la conseguenza che l’attore in querela non può essere gravato dell’onere di proporre l’azione di falso su un documento mai messo a sua disposizione. In tale evenienza, la scrittura resta inidonea a fondare decisioni di merito, mentre resta impregiudicato il potere del giudice di trarre argomenti di prova dalla scelta processuale della parte che non produce il documento in forma originale.
L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale, poiché deriva dal rapporto di mandato che lega l’amministratore alla società. Ne consegue che l’attore ha l’onere di allegare e dimostrare la violazione di specifici doveri gestori, nonché il nesso causale tra l’inadempimento e il pregiudizio patito dal patrimonio sociale; il danno, quale elemento costitutivo, deve essere provato in termini di effettiva diminuzione patrimoniale. L’amministratore convenuto, invece, può andare esente da responsabilità solo provando la non imputabilità dell’evento lesivo, fornendo la prova positiva di avere diligentemente adempiuto agli obblighi imposti, ovvero dimostrando che il danno si sarebbe comunque prodotto per cause a lui non riferibili.
La determinazione dei compensi spettanti agli amministratori non può ritenersi implicitamente contenuta nella delibera di approvazione del bilancio, giacché, in assenza di previsione statutaria, l’art. 2389, co. 1 c.c. impone un’espressa decisione assembleare sul punto. La natura imperativa della norma, finalizzata a tutelare la corretta governance e a prevenire erogazioni indebite (come attestato dall’obbligo di delibera e dalle sanzioni penali oggi abrogate), rende invalida qualunque attribuzione economica. Pertanto, l’annotazione del compenso nel bilancio, pur approvato dai soci, non produce sanatoria né esonera l’amministratore da responsabilità, salvo che l’adunanza, convocata allo scopo, abbia effettivamente discusso e deliberato sui compensi, circostanza che deve risultare dal verbale assembleare.
Se è vero che l’art. 35 co. 5 del d. lgs. 5/03, qualora applicabile ratione temporis, prevede che “se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera”, è però altrettanto vero che secondo la prima parte della medesima disposizione normativa “la devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell’art. 669 quinquies cpc” . Inoltre, il tenore letterale dell’art. 669 quater cpc – secondo il quale, “quando vi è causa pendente per il merito la domanda deve essere proposta al giudice della stessa”, vale a dire davanti al giudice avanti al quale pende la causa per il merito – impone di radicare la competenza a decidere sull’istanza cautelare dinanzi al Tribunale investito della causa di merito, fino a quando lo stesso non si spogli della competenza ritenendo fondata l’eccezione di compromesso. Ne consegue che, ove pure fosse fondata l’eccezione di incompetenza in favore degli arbitri – che nel caso di specie postula la fondatezza di quella di giudicato sulla validità della clausola compromissoria – il giudice ordinario adito sarebbe comunque competente a decidere sul ricorso cautelare in corso di causa fino a quando non intervenisse la pronuncia declinatoria della competenza nel giudizio di merito. Pertanto, in caso di provvedimento cautelare in corso di causa pendente per il merito, per il quale l'art. 669 quater c.p.c. stabilisce che "la domanda deve essere proposta al giudice stessa", la competenza, a differenza di quanto avviene per il provvedimento ante causam (art. 669 ter), viene determinata sulla base della pendenza in quanto tale.
Sono da ritenersi amministratori di fatto di una società coloro che detengono l’effettivo controllo degli organi sociali e che dispongono del patrimonio a proprio piacimento [nel caso di specie, per attuare lo schema fraudolento volto a drenare le somme confluite nella società dal commercio dei certificati bianchi in altre società a loro stessi riconducibili, principalmente per il tramite di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti]. Di conseguenza, essendo pienamente equiparati, quali amministratori di fatto, agli amministratori di diritto (anche sul piano penale: ex art. 2639 c.c.), rispondono delle proprie condotte distrattive in danno della società.
Anche gli amministratori di fatto - proprio in ragione dell'equiparazione con quelli di diritto - devono adempiere ai doveri di corretta gestione della società ex art. 2392 c.c. e tra questi doveri si annovera anche l’adempimento delle obbligazioni fiscali e contributive della società.
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 L.F. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali.
Nelle azioni di responsabilità ex art. 146 L.F. spetta alla Curatela allegare l’inadempimento, ovvero indicare il singolo atto gestorio che si pone in violazione dei doveri degli amministratori posti dalla legge o dallo statuto, e il danno derivante da tale inadempimento, mentre è onere degli amministratori contrastare lo specifico addebito, fornendo la prova dell’esatto adempimento.
Dei danni provocati dalla società è chiamato a rispondere l’amministratore di fatto, ovvero colui che in assenza di una formale investitura esercita in modo continuativo e significativo i potere tipici inerenti alla qualifica e alla funzione di amministratore [nel caso di specie il soggetto ritenuto amministratore era rimasto l’unico autorizzato ad operare sui conto della società a poter disporre dei denari della società]. Parimenti dei danni al patrimonio sociale risponde il liquidatore che ai sensi dell’art. 2489 c.c. ha il potere-dovere positivo di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società in modo da evitare la dispersione del patrimonio sociale, e ciò a condizione che sia provata la riconducibilità causale del danno alla condotta omissiva del liquidatore [nel caso di specie ritenuto responsabile in quanto non ha posto in essere alcuna attività, accettando passivamente che la società venisse gestita dall’amministratore di fatto].
Grava in capo all’amministratore di diritto il dovere di conservare il patrimonio sociale ex art. 2476 c.c. anche laddove vi sia la sussistenza di un amministratore di fatto, posto che, pure in questo caso, l’amministratore di diritto deve impedire il compimento di atti di mala gestio da parte dell’effettivo dominus o, perlomeno, eliminarne o attenuarne gli effetti dannosi.
La società [nel caso di specie il Fallimento] che domandi la restituzione del finanziamento concesso dal socio ex art. 2467 c.c. è onerata di provare i fatti costitutivi su cui si fonda tale disposizione e, in particolar modo, l’esistenza di un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto e quindi di una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento tanto al momento in cui il socio ha chiesto il finanziamento, quanto in quello in cui il socio ha chiesto il rimborso dello stesso.
Il diritto del socio ex art 2476 co 2 c.c. non è subordinato ad alcuna dimostrazione di specifico interesse perché l’interesse sotteso è il controllo sulla gestione in sé; il potere è esteso e si esplica in due direzioni: (i) nel diritto di avere informazione attraverso l’acquisizione di notizie dall’amministratore sullo svolgimento degli affari sociali; e (ii) nel diritto di consultazione diretta della documentazione sociale.
L’oggetto del controllo - sia con riferimento alle informazioni, sia con riferimento alla documentazione sociale - ha uno spettro ampio, il perimetro del potere di indagine conoscitiva del socio che non partecipa alla gestione nella srl si può dire che abbia ad oggetto i documenti e/o le informazioni di cui l’organo amministrativo dispone per una corretta gestione della società, tra cui rientrano certamente gli estratti conto bancari, non ravvisandosi nella norma alcuna limitazione se non che l’esercizio del diritto deve uniformarsi al rispetto dei principi di buona fede e correttezza; consegue che possono riconoscersi restrizioni al contenuto di tale potere del socio nelle ipotesi in cui sorgano esigenze di riservatezza della società che possono trovare fondamento, per esempio, in particolari rapporti di concorrenza con il socio o nell’assunzione in determinati contesti di posizioni contrapposte tra società e socio o nell’esigenza di tutela di segreti industriali.
Quanto alle modalità di esercizio del diritto che il socio ha facoltà (i) di consultare la documentazione sociale presso la sede sociale o dove la medesima è custodita secondo le indicazioni che riceverà dall’amministratore, anche tramite professionisti di sua fiducia, previo appuntamento e (ii) di estrarre copia a sue spese. Sono tenuti al rispetto della buona fede e della correttezza nello svolgimento dello specifico rapporto il socio e la società.