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False attestazioni in verbali assembleari e compromettibilità in arbitrato
L’inserimento di false attestazioni in un verbale assembleare non si pone in contrasto “con le norme dettate a tutela di...

L’inserimento di false attestazioni in un verbale assembleare non si pone in contrasto “con le norme dettate a tutela di interessi generali che trascendono quelli del singolo socio”, cosicché un’eventuale controversia avente ad oggetto l'impugnazione della delibera contenente tali attestazioni non sarebbe sottratta alla competenza arbitrale: ciò sia perché l’impugnazione di delibera assembleare non è certamente svincolata dall’iniziativa di parte e come tale è, quindi, compromettibile in arbitri, sia perché in ordine alla contestazione delle attestazioni contenute in un verbale di assemblea ordinaria di società di capitali, la Suprema Corte ha stabilito che il verbale assembleare sottoscritto dal presidente e dal segretario dell’assemblea ha natura di scrittura privata e, pur essendo dotato di una sua efficacia probatoria, non è tuttavia dotato di fede privilegiata, potendo i soci, pertanto, far valere eventuali sue difformità rispetto alla realtà con qualsiasi mezzo di prova.

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Controllo giudiziale della delibera assembleare che attribuisce il compenso agli amministratori
La deliberazione assembleare che stabilisce il compenso degli amministratori è valida anche se approvata con il voto determinante dell’amministratore stesso,...

La deliberazione assembleare che stabilisce il compenso degli amministratori è valida anche se approvata con il voto determinante dell’amministratore stesso, purchè il compenso non sia irragionevole o sproporzionato o persegua interessi extra-sociali.  Il vaglio giudiziale deve essere diretto dunque ad indagare la pertinenza, la proporzionalità e la congruenza del compenso, in virtù di un “criterio relazionale”, idoneo ad eventualmente identificare l’irragionevolezza della misura del compenso. Solo ove sia rinvenuta tale sproporzione - sintomatica del conflitto di interessi, del perseguimento univoco dell’interesse extra-sociale e del conseguente danno alla società - la relativa delibera può dirsi pertanto viziata.

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Inapplicabilità dell’art. 2429 c.c. alle società a responsabilità limitata
L’art. 2429 c.c. non è applicabile alle società a responsabilità limitata, in quanto, secondo un’interpretazione conservativa del secondo comma dell’art....

L'art. 2429 c.c. non è applicabile alle società a responsabilità limitata, in quanto, secondo un'interpretazione conservativa del secondo comma dell'art. 2478 bis c.c., il richiamo operato dal primo comma del medesimo articolo alle disposizioni di cui alla sezione IX del capo V del libro V del codice civile deve intendersi limitato alle sole disposizioni per la redazione del bilancio, e non già al deposito dei documenti da allegare allo stesso.

L'art. 2478 bis c.c. - rubricato "bilancio e distribuzione degli utili" - prevede infatti che "il bilancio deve essere redatto con l'osservanza delle disposizioni di cui alla sezione IX del capo V del presente libro" e prosegue poi disponendo: "esso è presentato ai soci entro il termine stabilito dall'atto costitutivo e comunque non superiore a centoventi giorni dalla chiusura dell'esercizio sociale, salva la possibilità di un maggior termine nei limiti ed alle condizioni previsti dal secondo comma dell'articolo 2634. Entro trenta giorni dalla decisione dei soci di approvazione del bilancio devono essere depositati presso l'ufficio del registro delle imprese, a norma dell'articolo 2435, copia del bilancio approvato".

L'articolo in esame, quindi, oltre a dettare una disciplina autonoma quanto alla procedura di approvazione, richiama espressamente l'art. 2435 c.c. per estendere alla società a responsabilità limitata l'obbligo di deposito del bilancio approvato presso il registro delle imprese; richiamo che, ritenendo il rinvio operato alle disposizioni di cui alla sezione IX del capo V del libro V del codice civile come omnicomprensivo e riferito anche alle disposizioni in materia di deposito del bilancio, non avrebbe ragion d'essere, essendo l'art. 2435 c.c. già ricompreso nella sezione IX del capo V.

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Validità della clausola compromissoria contenuta nello statuto di società cooperativa
È invalida la clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società cooperativa, che non individua con sufficiente chiarezza e precisione...

È invalida la clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società cooperativa, che non individua con sufficiente chiarezza e precisione quale sia l’organismo cui è affidata la nomina degli arbitri. Infatti, una clausola di uno statuto caratterizzata da eccessiva genericità, tale da richiedere una lettura integrativa, risulta incompatibile con la natura propria delle clausole statutarie di società, le quali sono destinate a dettare regole cogenti per coloro che fanno parte della compagine sociale e non sono perciò passibili di interpretazioni integrative qualora il loro oggetto non risulti sufficientemente determinato. Questi principi sono, a maggior ragione, validi in tema di clausole compromissorie, le quali prevedono una deroga alla generale azionabilità delle posizioni di diritto soggettive davanti alla giurisdizione statuale.

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Competenza della sezione specializzata in materia di impresa
È competente la Sezione Specializzata in materia di impresa, ai sensi dell’art. 3, co. 2, lett. a) e co. 3,...

È competente la Sezione Specializzata in materia di impresa, ai sensi dell’art. 3, co. 2, lett. a) e co. 3, d.lgs. n. 168/2003, a decidere sulla controversia avente ad oggetto il rapporto tra la cooperativa di abitazione ed il socio, relativa all’estinzione del rapporto societario (per effetto della delibera di esclusione) e alle questioni ad essa connesse (rilascio dell’immobile e pagamento dei canoni insoluti).

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Diritto del socio ad impugnare la delibera di approvazione del bilancio
Il socio legittimato ad impugnare il bilancio è portatore di un diritto verso la società a ricevere con il documento...

Il socio legittimato ad impugnare il bilancio è portatore di un diritto verso la società a ricevere con il documento contabile informazioni veritiere e corrette e questo diritto è tutelato con la facoltà del socio di insorgere contro le delibere che ritiene illegittime.

Il giudizio di impugnazione, se si conclude in senso positivo per il socio impugnante, comporta la caducazione endosocietaria della delibera invalida con efficacia verso tutti i soci ex art. 2377, co. 7 c.c e il socio, in ipotesi di mancata ottemperanza da parte dell’organo amministrativo alla sua obbligazione di adeguare gli atti interni alla decisione sull’impugnazione della delibera, gode solamente di una tutela risarcitoria (non sempre di facile dimostrazione) che non comporta in sé la caducazione delle delibere c.d. intermedie se non oggetto di tempestiva impugnazione.

L’art. 2434-bis c.c. è finalizzato ad attuare il generale principio di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), poiché – secondo la valutazione data dallo stesso legislatore letta alla luce del principio di continuità dei bilanci – una volta approvato il bilancio successivo, la rappresentazione della situazione economico patrimoniale della società data con il bilancio precedente ai soci ed ai terzi ha esaurito le sue potenzialità informative ed organizzative, e dunque anche le sue potenzialità decettive, dovendo invece i destinatari dell’informazione, per ogni valutazione e decisione organizzativa conseguente, far riferimento all’ultimo bilancio approvato.

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Responsabilità degli amministratori e insindacabilità nel merito delle scelte gestorie
Dal carattere unitario dell’azione esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l.f., che compendia in sé le azioni ex artt....

Dal carattere unitario dell’azione esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l.f., che compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c., discende che il curatore, potendosi avvalere delle agevolazioni probatorie proprie delle azioni contrattuali, ha esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombendo per converso sui convenuti l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.

In forza del principio della insindacabilità nel merito delle scelte di gestione, il giudice investito di un’azione di responsabilità per condotta negligente degli amministratori non può apprezzare il merito dei singoli atti di gestione. Se fosse possibile compiere una valutazione sull’opportunità e convenienza delle scelte di gestione, si legittimerebbe un’indebita ingerenza dell’autorità negli affari sociali, in pregiudizio all’autonomia ed indipendenza dell’organo amministrativo e con probabile paralisi del normale svolgimento dell’attività d’impresa. Ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice, dunque, non può essere l’atto in sé considerato e il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì, esclusivamente, le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi agli amministratori. Alla luce del principio di insindacabilità del merito gestorio, non ogni atto dannoso per il patrimonio sociale è dunque idoneo a fondare la responsabilità dell’amministratore che lo abbia compiuto.

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Compensi degli amministratori di s.p.a. investiti di particolari cariche e prescrizione del relativo diritto
La disposizione dell’art. 2389, primo comma, cod. civ., nella parte in cui dispone che il compenso dei componenti dell’organo di...

La disposizione dell'art. 2389, primo comma, cod. civ., nella parte in cui dispone che il compenso dei componenti dell'organo di amministrazione di una S.p.a. è stabilito dallo statuto ovvero dall'assemblea, ha natura imperativa e inderogabile da parte dell'autonomia privata. Non ha, quindi, alcuna efficacia l'eventuale esistenza di accordi interni tra amministratori e soci che non siano stati sottoposti a una deliberazione assembleare, né  l'organo amministrativo ha facoltà di autodeterminare il proprio compenso. La deroga contenuta nel successivo terzo comma dell'art. 2389 cod. civ., a norma del quale la remunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale e, se lo statuto lo prevede, l'assemblea può determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche, impone in ogni caso all'organo amministrativo la necessità di rispettare i limiti inderogabili dettati dalla legge e dallo statuto in materia, non potendosi per tale via eludere la disciplina che attribuisce inderogabilmente all'assemblea o allo statuto il potere di determinare il compenso degli amministratori. In particolare, qualora lo statuto preveda che l'assemblea determini un ammontare complessivo per la remunerazione dei compensi degli amministratori, compresi quelli che esercitano particolari cariche, l'organo amministrativo non potrà deliberare compensi ulteriori.

La prescrizione quinquennale di cui all'art. 2949, primo comma, cod. civ. opera con riguardo ai diritti che scaturiscono dal rapporto societario, e cioè dalle relazioni che si istituiscono fra i soggetti dell'organizzazione sociale in dipendenza diretta del contratto di società o che derivano dalle situazioni determinate dallo svolgimento della vita in società. E', quindi,  assoggettato a tale termine breve anche il diritto dell'amministratore a percepire il compenso che scaturisce dal rapporto societario che costituisce la fonte del suo incarico.

 

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Responsabilità del notaio e mancata dimostrazione dell’esistenza del danno
Al nostro ordinamento è estranea la configurazione della responsabilità civile con funzione semplicemente sanzionatoria della violazione delle norme che sanciscono...

Al nostro ordinamento è estranea la configurazione della responsabilità civile con funzione semplicemente sanzionatoria della violazione delle norme che sanciscono specifici doveri diretti ad evitare la lesione della sfera giuridica altrui ed è, di conseguenza, ad esso sconosciuta la categoria dei c.d. danni punitivi.

L’attribuzione alla responsabilità civile dell’imprescindibile funzione di rimedio all’effettiva lesione della sfera del danneggiato impone alla vittima, nella formulazione della sua domanda risarcitoria, di descrivere compiutamente il pregiudizio effettivamente subito a causa della condotta illecita attribuita al convenuto, essendo in mancanza la domanda priva di fondamento giuridico. Sicché, è dirimente, ai fini della decisione della controversia, la questione della mancata prospettazione da parte dell’attore di un danno causalmente connesso al fatto illecito addebitato al convenuto.

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Responsabilità degli amministratori di società controllante e controllata per atti di mala gestio e indebita prosecuzione dell’attività sociale
È ammissibile la domanda di condanna al risarcimento dei danni pur in assenza di una espressa e tempestiva domanda preliminare...

È ammissibile la domanda di condanna al risarcimento dei danni pur in assenza di una espressa e tempestiva domanda preliminare di accertamento della responsabilità, in quanto la domanda di condanna presuppone logicamente ed implicitamente la domanda di accertamento della responsabilità. La domanda di condanna, infatti, presuppone logicamente in modo necessario l’accertamento di tutti gli elementi costitutivi del o degli illeciti civili (contrattuali o extracontrattuali) sulla cui base essa è stata formulata, accertamento che, pertanto, si deve considerare in essa sempre contenuto, anche implicitamente ove l’attore non formuli in modo espresso anche la domanda relativa. L’autonomia della domanda di accertamento rispetto a quella di condanna rileva quando l’attore ritenga di proporre solo la prima e non anche la seconda, nell’ambito di una legittima valutazione del proprio interesse ad egli esclusivamente rimessa, non certo per anche solo ipotizzare che la domanda di accertamento non possa essere considerata sempre e comunque implicitamente contenuta nella domanda di condanna che la presuppone necessariamente. 

L’azione di responsabilità promossa nei confronti dell’amministratore della controllante ex art. 2497 c.c. è ammissibile anche in assenza della partecipazione al giudizio della società controllante stessa; la norma prevede, infatti, un’ipotesi corresponsabilità solidale con la società, con la conseguenza che, in applicazione delle ordinarie disposizioni dettate in materia di solidarietà nelle obbligazioni, il creditore è libero di agire in giudizio contro qualunque debitore in solido.

Gli amministratori che non abbiano operato rispondono delle conseguenze dannose delle condotte di altri amministratori (che abbiano operato) qualora siano a conoscenza di necessari dati di fatto tali da sollecitare il loro intervento o abbiano omesso di attivarsi per procurarsi gli elementi necessari ad agire informati. 

Lart. 1304, co. 1, c.c. si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto lintero debito e non la sola quota del debitore con il quale è stipulata, poiché è la comunanza delloggetto della transazione che comporta, in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetti solo tra le parti, la possibilità per il condebitore solidale di avvalersene, pur non avendo partecipato alla sua stipulazione. Se, invece, la transazione tra il creditore ed uno dei condebitori solidali ha avuto ad oggetto esclusivamente la quota del condebitore che lha conclusa, occorre distinguere: qualora il condebitore che ha transatto abbia versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente allimporto pagato; ove il pagamento sia stato inferiore, il debito residuo degli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto. 

La consulenza tecnica di ufficio, non essendo qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perché volta ad aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito. Questi può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente); in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche. In tema di risarcimento del danno, è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio e alle correlate indagini peritali funzione percipiente quando essa verta su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone.

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Azione sociale di responsabilità e azione dei creditori: natura delle azioni e unitarietà delle stesse quando esercitate dal curatore
L’azione contro amministratori, liquidatori e sindaci, esercitata dal curatore del fallimento ex art. 146 l.f. compendia in sé tanto l’azione...

L’azione contro amministratori, liquidatori e sindaci, esercitata dal curatore del fallimento ex art. 146 l.f. compendia in sé tanto l’azione sociale di responsabilità quanto il rimedio accordato ai creditori a fronte della inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società, visto unitariamente come garanzia sia dei soci che dei creditori sociali. Detta azione ha carattere unitario ed inscindibile, risultando frutto della confluenza in un unico rimedio delle due diverse azioni di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c. Pertanto, proprio in ragione della unitarietà ed inscindibilità dell’azione di responsabilità, il curatore può impostare la domanda di risarcimento contro gli amministratori e i sindaci avvalendosi del regime che, in relazione alla fattispecie concreta, si palesi più favorevole. Così, potrà giovarsi delle più favorevoli regole che governano il riparto dell’onere della prova nelle azioni di responsabilità contrattuale (quale è, indubbiamente, l’azione sociale di responsabilità) e, del pari, potrà avvalersi del regime della prescrizione che, in relazione alla fattispecie concreta, risulti più favorevole.

La maturazione del termine prescrizionale – in entrambi i casi di durata quinquennale – deve essere valutata in riferimento allo specifico dies a quo relativo a ciascuna delle due azioni. Quanto all’azione sociale di responsabilità, l’art. 2393, co. 4, c.c. prevede che la predetta azione “può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica”. Tuttavia, un’analoga disposizione non si rinviene nell’art. 2476 c.c., con la conseguenza che in riferimento all’azione sociale di responsabilità nei confronti di amministratori di s.r.l. rimane operante il termine prescrizionale breve di cinque anni previsto in via generale dall’art. 2949 c.c. per i diritti derivanti dai rapporti sociali. Sicché, in virtù del principio di cui all’art. 2935 c.c., detto termine decorre dal giorno in cui il diritto al risarcimento può essere fatto valere e, dunque, dal verificarsi dell’evento dannoso ovvero dalla data di commissione dell’illecito foriero di pregiudizi al patrimonio sociale o, se successivo, dal prodursi dei relativi effetti pregiudizievoli. Con riferimento, invece, all’azione di responsabilità di cui all’art. 2394 c.c., il dies a quo per il computo del termine di prescrizione – pur sempre quinquennale – va rinvenuto nel momento in cui sia divenuta manifesta ed oggettivamente percepibile all’esterno l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei creditori. E tanto sempre in forza del disposto dell’art. 2935 c.c. e alla luce del dettato del secondo comma dell’art. 2394 c.c., il quale dispone che “l’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti”. Ne consegue che il termine di prescrizione quinquennale per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità ai sensi dell’art. 2393 c.c. e dell’azione di responsabilità dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. decorre: (i) per l’azione sociale di responsabilità, dal momento in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno, manifestandosi nella sfera patrimoniale della società (termine il cui decorso rimane sospeso, ex art. 2941, n. 7, c.c. fino alla cessazione dell’amministratore dalla carica) e (ii) per l’azione di responsabilità dei creditori, dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori stessi, dell’insufficienza del patrimonio a soddisfare i crediti che risulti da qualsiasi fatto che possa essere conosciuto. Allorquando le due azioni vengano esercitate congiuntamente dal curatore fallimentare ai sensi dell’art. 146 l.f., sussiste in ogni caso una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sugli amministratori convenuti la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza.

L’azione sociale, anche se esercitata dal curatore fallimentare, ha natura contrattuale. Ne consegue che, mentre sull’attore (società o procedura fallimentare) grava esclusivamente l’onere di dedurre le violazioni agli obblighi gravanti sugli amministratori e provare il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, sugli amministratori l’onere di riscontrare la non ascrivibilità del fatto dannoso, fornendo l’evidenza, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. L’inadempimento si presumerà colposo e, quindi, non spetterà al fallimento attore fornire la prova della colpa degli amministratori, mentre spetterà al convenuto amministratore evidenziare di avere adempiuto il proprio “munus” con diligenza ed in assenza di conflitto di interessi con la società, ovvero che l’inadempimento è stato determinato da causa a lui non imputabile ex art. 1218 c.c., ovvero, ancora, che il danno è dipeso dal caso fortuito o dal fatto di un terzo. Il soggetto che agisce con l’azione in argomento è, però, onerato della allegazione e della prova, sia pure mediante presunzioni, dell’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale, di cui chiede il risarcimento, e della riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico. In ciò, infatti, consiste il danno risarcibile, il quale è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente. In difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria difetterebbe, infatti, di oggetto.

Di contro, l’azione spettante ai creditori sociali ai sensi dell’art. 2394 c.c. costituisce conseguenza dell’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale e presuppone l’assenza di un preesistente vincolo obbligatorio tra le parti e un comportamento dell’amministratore funzionale a una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da rendere lo stesso inidoneo per difetto ad assolvere la sua funzione di garanzia generica (art. 2740 c.c.), con conseguente diritto del creditore sociale di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere. Condizione indefettibile per l’utile esercizio dell’azione di cui all’art. 2394 c.c. è che il patrimonio della società risulti insufficiente a soddisfare il credito. A tal proposito, l’insufficienza patrimoniale dovrà essere individuata nell’eccedenza delle passività sulle attività del patrimonio netto dell’impresa, ovverosia in una situazione in cui l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, risulti insufficiente al soddisfacimento di questi ultimi. Essa va distinta, dunque, dall’eventualità della perdita integrale del capitale sociale, dal momento che quest’ultima evenienza può verificarsi anche quando vi sia un pareggio tra attivo e passivo perché tutti i beni sono assorbiti dall’importo dei debiti e, quindi, tutti i creditori potrebbero trovare di che soddisfarsi nel patrimonio della società. L’insufficienza patrimoniale, del resto, è una condizione più grave e definitiva della mera insolvenza, indicata dall’art. 5 l.f. come incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, potendosi una società trovare nell’impossibilità di far fronte ai propri debiti ancorché il patrimonio sia integro, così come potrebbe accadere l’opposto, vale a dire che l’impresa presenti una eccedenza del passivo sull’attivo, pur permanendo nelle condizioni di liquidità e di credito richieste (per esempio ricorrendo ad ulteriore indebitamento). Quanto agli altri elementi costitutivi dell’azione sociale in esame, essi vanno individuati nell’ascrivibilità, agli amministratori, di una condotta illegittima e la sussistenza di un rapporto di causalità tra tale condotta ed il pregiudizio subito dal patrimonio della persona giuridica.

La responsabilità risarcitoria dell’amministratore va riconnessa non ad una qualunque condotta illecita od omissione delle cautele ed iniziative dovute per legge e per statuto, ma solo a quelle condotte di mala gestio che, oltre ad integrare violazione degli obblighi gravanti sull’amministratore in forza della carica rivestita, risultino, altresì, foriere di danni per il patrimonio sociale. In altri termini, la parte che agisca per far valere la responsabilità dell’amministratore ha l’onere di dedurre specifici inadempimenti o inosservanze, non potendo limitarsi ad una generica deduzione dell’illegittimità dell’intera condotta ovvero alla mera doglianza afferente “i risultati negativi” delle scelte gestorie.

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Valutazione equitativa del danno da prosecuzione illegittima dell’attività
Per ricorrere al criterio equitativo per la determinazione del danno è necessaria l’allegazione e la prova delle ragioni impeditive di...

Per ricorrere al criterio equitativo per la determinazione del danno è necessaria l'allegazione e la prova delle ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta. Pertanto, è possibile ricorrere al criterio equitativo soltanto se non sia possibile una ricostruzione analitica del danno lamentato.

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