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Sfruttamento economico da parte del datore di lavoro del software sviluppato dal dipendente
La ratio dell’art. 12 bis l.d.a. è quella di riservare al datore di lavoro il diritto di utilizzazione economica (ovviamente...

La ratio dell’art. 12 bis l.d.a. è quella di riservare al datore di lavoro il diritto di utilizzazione economica (ovviamente fatta salva la paternità) del prodotto dell'ingegno del proprio lavoratore, laddove quest'ultimo sia stato assunto proprio a tale fine. Se il dipendente, al di fuori della riserva prevista dall'art. 12 bis nel caso in cui il prodotto dell'ingegno sia direttamente funzionale alla sua stessa assunzione, mette a disposizione, gratuitamente, la propria invenzione al datore di lavoro, viene meno qualsiasi tipo di illecito. Ciò in virtù del consenso dell'avente diritto su una situazione giuridica disponibile, per tale motivo contrasterebbe con il canone di buona fede contrattuale pretendere successivamente, ed ex post, un risarcimento o un compenso per ciò che era stato liberamente messo a disposizione.

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Illegittimità della delibera di esclusione del socio di società cooperativa
E’ illegittima la delibera di esclusione del socio di società cooperativa per presunta compromissione dell’oggetto sociale e dello scopo mutualistico,...

E’ illegittima la delibera di esclusione del socio di società cooperativa per presunta compromissione dell’oggetto sociale e dello scopo mutualistico, se dall’istruttoria emerge che essi erano già stati ampiamente compromessi da uno stato economico e finanziario deficitario della cooperativa, rispetto al quale le condotte dell’attore ben poco avrebbero potuto causalmente incidere.

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Inadempimento del contratto preliminare di cessione del ramo d’azienda e onere della prova
E’ principio pacifico in giurisprudenza quello in base al quale in tema di prova dell’inadempimento di obbligazioni, opera a favore...

E’ principio pacifico in giurisprudenza quello in base al quale in tema di prova dell'inadempimento di obbligazioni, opera a favore del creditore, il quale abbia provato l'esistenza dell'obbligazione e l'esigibilità del credito, la presunzione di persistenza del diritto oltre il termine di scadenza; pertanto il creditore è esonerato dall'onere della prova dell'inadempimento e grava sul debitore la prova del fatto estintivo o della mancanza della colpa; tale presunzione non opera allorquando siano dedotti non l'inadempimento dell'obbligazione ma l'inesatto adempimento o la violazione di un obbligo accessorio (quale, ad esempio, l'obbligo di informazione), la cui prova incombe sul deducente. Pertanto, una volta dimostrata l'esistenza del contratto preliminare di cessione del ramo d'azienda nonché la disponibilità del contraente alla stipula del contratto definitivo, in assenza di prova contraria, il giudice dovrà dichiarare la risoluzione del contratto per inadempimento.

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Azione di responsabilità esercitata dal curatore: prescrizione e determinazione del danno
Il dies a quo per il calcolo della prescrizione dell’azione di responsabilità ex art. 2394, comma 2, c.c. esercitata dalla...

Il dies a quo per il calcolo della prescrizione dell’azione di responsabilità ex art. 2394, comma 2, c.c. esercitata dalla curatela fallimentare ex art. 146 l. fall. non è rappresentato dal momento della commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, bensì dal (successivo) momento dell’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti.

Una volta accertata la responsabilità dell’amministratore convenuto, per liquidare il danno derivante da una gestione della società condotta in spregio dell’obbligo di cui all’art. 2486 c.c., il giudice può ricorrere in via equitativa, nel caso di impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all’incompletezza dei dati contabili ovvero alla notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento, al criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali. La condizione è che tale ricorso sia congruente con le circostanze del caso concreto, e che quindi sia stato dall’attore allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state specificate le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta.

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Può il fallito intraprendere una nuova attività di impresa?
Salve le ragioni dei creditori concorsuali, tutelate mediante la non opponibilità ope legis (art.44) degli atti compiuti dal fallito, questi non...

Salve le ragioni dei creditori concorsuali, tutelate mediante la non opponibilità ope legis (art.44) degli atti compiuti dal fallito, questi non perde la capacità negoziale; nulla vieta, pertanto, che egli possa proseguire fuori dal fallimento, una precedente attività o anche intraprenderne una nuova.

Non possono trovare accoglimento – e quindi concorrere sulla massa fallimentare - le istanze di ammissione al passivo per crediti, anche previdenziali, sorti in ragione della nuova attività d’impresa posta in essere dal fallito, non essendo stato acquisito all’attivo del fallimento alcun utile, né adottato alcun provvedimento ai sensi dell’art.46 co.3 l.f.

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Azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare. In particolare, la prescrizione
Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c.,...

Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento dell’ente confluiscono nell’unica azione di responsabilità, esercitabile da parte del curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall., la quale, assumendo contenuto inscindibile e connotazione autonoma rispetto alle prime – attesa la ratio ad essa sottostante, identificabile nella destinazione, impressa all’azione, di strumento di reintegrazione del patrimonio sociale, unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali – implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne muta i presupposti. Ne consegue che i fatti addotti a fondamento della domanda identificano l’azione in concreto esercitata dal curatore e, in particolare, la disciplina in materia di prova e di prescrizione, quest’ultima in ogni caso quinquennale, ma, se fondata sulle circostanze idonee ad attivare l’azione sociale, con decorrenza non dal momento in cui l’insufficienza patrimoniale si è manifestata come rilevante per l’azione esperibile dai creditori, bensì dalla data del fatto dannoso e con applicazione della sospensione prevista dall’art. 2941, n. 7, c.c., in ragione del rapporto fiduciario intercorrente tra l’ente ed il suo organo gestorio.

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall. cumula inscindibilmente i presupposti e gli scopi sia dell’azione sociale di responsabilità – la quale si ricollega ad una violazione da parte degli amministratori nell’esercizio delle loro attribuzioni di specifici obblighi di derivazione legale o pattizia che si sia tradotta in un pregiudizio per il patrimonio sociale –, sia dell’azione spettante ai creditori sociali ex art. 2394 c.c. – che integra una fattispecie di responsabilità extracontrattuale e tende alla reintegrazione del patrimonio sociale diminuito dall’inosservanza degli obblighi facenti capo all’amministratore.

L’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci di una società, esperibile dal curatore fallimentare ex art. 146 l. fall., è soggetta alla prescrizione quinquennale, con decorso, in base alla norma generale di cui all’art. 2935 c.c., dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e, cioè, quanto all’azione sociale di responsabilità, dal giorno in cui sono percepiti i fatti dannosi posti in essere dagli amministratori e il danno conseguente e, quanto all’azione dei creditori sociali, dal giorno in cui si è manifestata, divenendo concretamente conoscibile, l’insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare i loro crediti. In particolare, con riferimento all’azione dei creditori sociali, la prescrizione decorre non già dalla commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, ma dal successivo momento dell’oggettiva conoscibilità del dato di fatto costituito dall’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali – anche se lo stesso sia stato in concreto ignorato – come si ricava con certezza dall’art. 2394 c.c., che subordina la proponibilità dell’azione al manifestarsi dell’evento dannoso, e cioè dal momento che, non coincidendo con il determinarsi dello stato di insolvenza, ben può risultare anteriore o posteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento nelle varietà delle fattispecie concrete.

L’insufficienza patrimoniale, che assume rilievo ai fini della decorrenza della prescrizione, è data dall’eccedenza delle passività sulle attività: tale situazione si distingue, quindi, dall’insolvenza, che costituisce il presupposto per la dichiarazione di fallimento ed è determinata dall’impossibilità per il debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni che, come tale, non implica necessariamente un’eccedenza delle passività sulle attività e può anche essere determinata da una situazione di semplice illiquidità. L’insufficienza patrimoniale può manifestarsi anche prima della dichiarazione di fallimento. In tali casi, l’onere della prova incombe su colui il quale eccepisca l’intervenuta prescrizione.

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È onere degli amministratori dimostrare di aver rispettato il dovere di gestione conservativa ex art. 2486 c.c. in caso di perdita totale del capitale sociale
In presenza di un patrimonio netto negativo la normale prosecuzione dell’attività sociale costituisce violazione di quanto disposto dall’art. 2486 c.c.,...

In presenza di un patrimonio netto negativo la normale prosecuzione dell’attività sociale costituisce violazione di quanto disposto dall’art. 2486 c.c., che limita espressamente il potere di gestione della società, da parte degli amministratori, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale. Spetta agli amministratori l’onere di dimostrare che la prosecuzione dell’attività sia avvenuta nel rispetto dell’art. 2486 c.c. e, cioè, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale e che non sia invece proseguita la gestione ordinaria e caratteristica dell’attività di impresa con assunzione di nuovo rischio imprenditoriale, in un’ottica di tipo speculativo e compiendo atti di gestione di tipo non liquidatorio.

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Liquidazione del danno da lite temeraria
La pronuncia ex art. 96, co. 3, c.p.c. introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo...

La pronuncia ex art. 96, co. 3, c.p.c. introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia deflazionando il contenzioso ingiustificato, ciò che esclude la necessità di un danno di controparte pur se la condanna è prevista a favore della parte e non dello Stato. L’aver subito un’azione manifestamente infondata per mala fede o colpa grave, ovvero per inosservanza della normale prudenza nei casi previsti dal secondo comma dell’art. 96 c.p.c., può configurare di per sé e secondo le circostanze del caso un danno risarcibile. Si è in sostanza inserita nel sistema una fattispecie di responsabilità da abuso del diritto d’azione ex se causativa di danno non patrimoniale, consistente nell’aver subito una iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario. In merito alla liquidazione del danno ex art. 96, co. 3, c.p.c., si impone al giudice di osservare un criterio equitativo in applicazione del quale la responsabilità patrimoniale della parte in mala fede ben può essere (anche) calibrata sull’importo delle spese processuali o su un loro multiplo, sempre con il limite della ragionevolezza.

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Opponibilità ai terzi della cessazione dalla carica di amministratore e sindacato sull’operato dell’organo amministrativo
Considerato che ai sensi dell’art. 2385, ult. co., c.c. la cessazione degli amministratori dall’ufficio per qualsiasi causa deve essere iscritta...

Considerato che ai sensi dell’art. 2385, ult. co., c.c. la cessazione degli amministratori dall’ufficio per qualsiasi causa deve essere iscritta entro trenta giorni nel registro delle imprese e considerato, inoltre, che l’art. 2193 c.c. dispone che i fatti di cui la legge prevede l’iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l’iscrizione a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza, l’eventuale cessazione dalla carica di amministratore per essere opponibile ai terzi creditori sociali deve necessariamente essere iscritta nel registro delle imprese

Se è vero che le determinazioni dell’imprenditore - ovvero del suo organo amministrativo - sono tradizionalmente considerate esenti da sindacato in sede giurisdizionale, ciò non significa che l’amministratore della società sia libero di adottare qualsivoglia decisione, essendo questi comunque tenuto ad espletare il proprio incarico con la diligenza professionale prescritta ex lege, la quale si estrinseca nella fase preliminare all’adozione della decisione e si fonda sull’acquisizione delle conoscenze tecniche e fattuali necessarie in relazione al caso di specie. Ne consegue, dunque, che il giudizio de quo possa investire unicamente l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostante e con quelle modalità.

 

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Esclusione del socio di società cooperativa
Rappresenta orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità quello per il quale nel giudizio di opposizione a deliberazione di esclusione del...

Rappresenta orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità quello per il quale nel giudizio di opposizione a deliberazione di esclusione del socio di società cooperativa, quest’ultima, pur se formalmente convenuta, ha sostanziale veste di attore, sicché ha l'onere di provare la sussistenza dei fatti addebitati al socio, nonché la loro riconducibilità ad una delle cause di esclusione previste dallo statuto.

L’esclusione del socio di società cooperativa può essere deliberata dall’organo amministrativo nel caso di “gravi inadempienze delle obbligazioni derivanti dalla legge o dal contratto sociale, dai regolamenti – ove esistenti – o dal rapporto mutualistico”, costituendo grave inadempimento quando il socio con il proprio comportamento renda meno agevole il perseguimento dei fini mutualistici (cfr. Cass. civ. Sez. I, 01/06/1991, n. 6200). Sussiste pertanto grave inadempimento là dove, in caso di applicazione della normativa prevista dall'art. 98 del R.D. 1165/1938, l’eventuale protrazione della detenzione sine titulo di un immobile rappresenta condotta idonea a incidere negativamente sullo scopo mutualistico della società e, per l’effetto, causa di esclusione dalla medesima.

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Azione revocatoria ordinaria esperita dal curatore fallimentare
Il termine triennale per l’esercizio dell’azione revocatoria ex art. 66. L. fall. non trova applicazione nelle ipotesi di azione revocatoria...

Il termine triennale per l’esercizio dell’azione revocatoria ex art. 66. L. fall. non trova applicazione nelle ipotesi di azione revocatoria ordinaria esperita dal curatore fallimentare (cfr. ex multis Cass. civ. 868/2018 e 4244/2019).

Ciò premesso, l’azione revocatoria ordinaria ha una finalità cautelare e conservativa del diritto di credito, essendo diretta a conservare nella sua integrità la garanzia generica assicurata al creditore del patrimonio del debitore ed a ricostituirla in presenza di un atto di disposizione che la pregiudichi, accertandone la inefficacia nei confronti del debitore stesso. Pertanto, condizione essenziale della tutela revocatoria in favore del creditore è il pregiudizio alle ragioni dello stesso, per la cui configurabilità non è necessario che sussista un danno concreto ed effettivo essendo sufficiente un pericolo di danno derivante dall’atto di disposizione, il quale abbia comportato una modifica della situazione patrimoniale del debitore tale da rendere incerta la esecuzione coattiva del debito o da comprometterne la fruttuosità. Tale variazione, quantitativa o qualitativa che sia, deve essere provata dal creditore che agisce in revocatoria, mentre è onere del debitore, per sottrarsi agli effetti dell’azione provare che il proprio patrimonio residuo sia tale da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore, secondo una valutazione ex ante, fatta cioè al momento del compimento dell’atto dispositivo.

L’azione revocatoria accoglie, peraltro, una nozione di credito non limitata in termini di certezza, liquidità ed esigibilità, ma estesa fino a comprendere le legittime ragioni o aspettative di credito in coerenza con la sua funzione propria, volta a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore anche nei confronti dei creditori eventuali. È, dunque, sufficiente una semplice aspettativa che non si riveli prima facie pretestuosa e che possa valutarsi come probabile, se non definitivamente accertata.

Quanto all’elemento soggettivo, allorché l’atto sia compiuto successivamente al sorgere dell’aspettativa di credito, unica condizione richiesta è la consapevolezza in capo al debitore di arrecare pregiudizio alle ragioni creditorie e, qualora si tratti di azione a titolo oneroso, che di esso fosse consapevole anche il terzo.

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Valutazione equitativa del danno da prosecuzione illegittima dell’attività
Per ricorrere al criterio equitativo per la determinazione del danno è necessaria l’allegazione e la prova delle ragioni impeditive di...

Per ricorrere al criterio equitativo per la determinazione del danno è necessaria l'allegazione e la prova delle ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta. Pertanto, è possibile ricorrere al criterio equitativo soltanto se non sia possibile una ricostruzione analitica del danno lamentato.

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