A norma dell’art. 2332 c.c., il rilievo della nullità del contratto costitutivo di una s.p.a., una volta che la stessa sia stata iscritta nel registro delle imprese e che così formalmente costituita abbia avviato la propria attività, si converte, ove sia stato oggetto di accertamento principale, in una causa di scioglimento dell’ente con effetti ex nunc, in ragione della necessità di garantire la stabilità dei traffici giuridici e, dunque, le ragioni dei terzi che abbiano interagito con la suddetta persona giuridica. Non discendendo dal rilievo del vizio genetico effetti retroattivi e ripristinatori, restano, inoltre, esigibili dalla società gli obblighi di conferimento dovuti dai soci sino a quando non siano stati soddisfatti i creditori sociali (art. 2332, co. 3, c.c.).
L’accoglimento della domanda di accertamento della nullità dell’ente non preclude lo scrutinio della domanda di pagamento, avanzata dalla società dichiarata nulla, di un debito a carico di un socio. Infatti, ove tale debito non sia connesso alla prosecuzione dell’attività sociale, considerata la ratio del secondo comma dell’art. 2332 c.c. (che pure parla di “conferimenti”), deve giungersi non già alla declaratoria di inammissibilità della domanda, bensì al suo esame nel merito. La pretesa creditoria non postula, infatti, la prosecuzione dell’attività da parte della società, ma è conseguenza degli obblighi assunti dai soci nei suoi confronti che restano fermi ex art. 2332, co. 2, c.c., per tali dovendosi intendere tutte le obbligazioni, principali o accessorie, che trovino titolo diretto o indiretto nel contratto di società.
In tema di concorrenza sleale, al fine di accertare l'esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile, è necessario che la comparazione tra i medesimi avvenga non attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti, ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore e tenendo, quindi, conto che, quanto minore è l'importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazioni sensoriali, anziché da dati che richiedano un'attenzione riflessiva, e considerando altresì che il divieto di imitazione servile tutela l'interesse a che l'imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente. L'imitazione rilevante ai sensi dell'art. 2598, n. 1, cod. civ. non esige la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante, e cioè idonee, in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, sempreché la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle caratteristiche funzionali del prodotto; ne consegue che, in caso di utilizzo di confezioni identiche a quelle della impresa concorrente, sussiste l'illecito predetto se tale comportamento è idoneo ad indurre il consumatore in inganno sulla provenienza del prodotto. La sussistenza di una reale possibilità di confusione tra prodotti di imprese concorrenti va apprezzata dal punto di vista dei consumatori dei prodotti stessi che siano di media diligenza e intelligenza, ma anche con riferimento al tipo di clientela cui il rapporto è destinato [nel caso di specie, avente ad oggetto detergenti, il Tribunale ha ritenuto sussistente la concorrenza sleale in ragione delle dimensioni, colori e forma similari delle bottiglie impiegate per il confezionamento del prodotto, dell’identità di forma e colore dei tappi, della somiglianza delle indicazioni relative alle diverse profumazioni dei vari prodotti, nonché della somiglianza per forma e colorazione del logo riprodotto sulle etichette, il tutto dato anche conto del fatto che il pubblico di riferimento era rappresentato dal consumatore medio].
In tema di diritto di autore, il progetto architettonico preliminare che si connoti come opera dell'ingegno, in quanto frutto di creatività ed assistito da novità ed originalità, anche se successivamente trasfuso nel progetto definitivo, conserva il diritto ad essere tutelato quando venga utilizzato autonomamente, anche a fini meramente espositivi. La legge n. 633/1941 tutela all'art. 2, comma 1, n. 5, i disegni e le opere dell'architettura, così riconoscendo autonoma rilevanza sia alla fase progettuale (i disegni) che a quella esecutiva (le opere). [Nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto che, pur muovendo dalla medesima idea ispiratrice, i progetti delle parti in causa fossero dotati ciascuno di una propria individualità rappresentativa, e, per l’effetto, accertata l’assenza di plagio/contraffazione, ha rigettato le pretese di parte attrice].
Nel caso di rapporti di debito/credito tra i soci e società che attengono al rapporto societario, qualora il tema dell'assenza di quietanze firmate dai soci destinatari dei rimborsi di somme erogate a titolo di finanziamento risulti espressamente affrontato in sede assembleare, prevale - sul principio della libera valutazione da parte del giudice di merito dei libri e delle scritture contabili, e quindi anche del bilancio, dell'impresa soggetta a registrazione ai sensi dell'art. 2709 c.c. - il principio di vincolatività delle delibere assembleari nei confronti di tutti i soggetti legati dal rapporto sociale, compresi i soci eventualmente dissenzienti che non abbiano proposto rituale impugnazione.
Il patto di prelazione inserito nello statuto di una società di capitali ed avente ad oggetto l’acquisto delle azioni sociali ha efficacia reale e, in caso di violazione, è opponibile anche al terzo acquirente. A differenza della clausola di prelazione di acquisto di quote sociali contenuta in un patto parasociale che ha effetti obbligatori tra le parti – con conseguente rilievo della sua violazione solo sul piano risarcitorio – quella contenuta nello statuto ha efficacia reale e, in caso di violazione è opponibile anche al terzo acquirente.
Il socio di una società di capitali che lamenti la violazione del suo diritto di prelazione nel caso di vendita di azioni sociali, statutariamente previsto, non può limitarsi a dimostrare in giudizio l’esistenza del suddetto patto, ma deve anche allegare e provare che dalla violazione è derivata una lesione del suo interesse a rendersi acquirente delle azioni trasferite a terzi, perché l’interesse del socio pretermesso non consiste nel mero rispetto del procedimento di cessione. L’interesse ad agire, in termini generali, costituisce, infatti, una condizione per far valere il diritto sotteso mediante l’azione, e s’identifica nell’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice. In particolare, nell’azione di mero accertamento, esso presuppone uno stato di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico, tale da arrecare all’interessato un pregiudizio concreto ed attuale, che si sostanzia in un’illegittima situazione di fatto continuativa e che, perciò, si caratterizza per la sua stessa permanenza.
I segni distintivi di fatto possono articolarsi in maniera separata, sicché è astrattamente possibile che un imprenditore abbia preusato il segno per la ditta-denominazione sociale, senza aver fatto uso dello stesso come marchio, per contraddistinguere merci prodotte o servizi forniti, onde la necessità, in caso di affermazione del possesso di un marchio di fatto, che colui il quale chieda di affermare il conseguimento di un proprio diritto fornisca, al riguardo, una prova completa sia della ditta-denominazione sociale sia di quello del segno in funzione di marchio (e della conseguente notorietà di esso), atteso che l’uso di fatto di un segno in funzione di ditta/denominazione sociale non ne comporta l'automatica e meccanica estensione in funzione di marchio e viceversa. [Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che la dicitura “il Dollaro”, originariamente soprannome dell'attore, abbia assunto nel corso del tempo valenza identificativa dell’attività commerciale esercitata dalla stesso, divenendo così un marchio di fatto, senza che assuma rilievo determinante, in senso contrario, l’assenza di un’insegna esterna che è stata apposta solo successivamente.]
I cosiddetti "marchi deboli" sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto, per non essere andata la fantasia che li ha concepiti oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento dello stesso, ovvero per l'uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo. Un marchio, tuttavia, può essere valido, benché "debole", per l'esistenza di un pur limitato grado di capacità distintiva e la sua "debolezza" non incide sulla sua attitudine alla registrazione, ma soltanto sull'intensità della tutela che ne deriva, atteso che sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte, in ciò differenziandosi rispetto al marchio cd. forte, per il quale sono illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l'identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo, che costituisce l'idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante.
L’art. 2378, co. 3, c.c. disciplina il procedimento cautelare diretto a ottenere la sospensione dell’esecuzione delle delibere (o decisioni) ed è un procedimento a cognizione sommaria nel quale il giudice è tenuto a verificare la sussistenza del fumus boni juris e del periculum in mora, procedendo, con riferimento a tale ultimo profilo, a una comparazione tra il pregiudizio che deriverebbe al ricorrente dall’esecuzione e quello che deriverebbe alla società dalla sospensione della delibera.
Il termine “esecuzione”, utilizzato dall’art. 2378, co. 3, c.c., non intende fare riferimento soltanto ad una fase strettamente materiale di attuazione della decisione, ma ad una più ampia condizione di efficacia della deliberazione, rispetto alla quale l’esecuzione è un momento puramente eventuale. Una diversa interpretazione – considerato che l’art. 35 d.lgs. 5/2003 attribuisce agli arbitri, ai quali secondo l’art. 34 è possibile devolvere solo le controversie aventi ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, il potere di disporre la sospensione dell’efficacia della delibera – finirebbe infatti per restringere immotivatamente l’ambito della tutela cautelare proprio nelle controversie aventi ad oggetto diritti indisponibili. Ne consegue che pure le delibere tecnicamente prive di esecuzione, cioè idonee a produrre effetti giuridici anche in assenza di una specifica attività esecutiva (quali sono ad esempio quelle di approvazione del bilancio, aventi mera efficacia dichiarativa), possono essere sospese ex art. 2378, co. 3, c.c.
L’omessa convocazione del socio, nelle s.r.l. che seguono il metodo assembleare, integra l’ipotesi di nullità dell’assoluta assenza di informazione prevista dall’art. 2479 ter, co. 3, c.c.
Ai fini della sospensione necessaria del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c. non è sufficiente che, tra due controversie, sussista una mera pregiudizialità logica, ma è necessaria l’obiettiva esistenza di un rapporto di pregiudizialità giuridica, il quale ricorre solo quando la definizione di una delle controversie costituisca l’indispensabile antecedente logico-giuridico dell’altra, l’accertamento della quale debba avvenire con efficacia di cosa giudicata.
Quando le società in house sono partecipate da più enti pubblici, la funzione di controllo sulle stesse, non potendo essere esercitata individualmente da ogni singolo ente, deve necessariamente essere esercitata collettivamente ossia dall’insieme della compagine pubblica partecipante alla società. Infatti il significato della partecipazione di un ente pubblico a una società partecipata “interamente” da altri enti pubblici sta, proprio, nella predisposizione di una formula organizzativa che consenta l’esercizio in comune di servizi da parte di enti pubblici aventi interessi omogenei, in coerenza con la ratio della legge istitutiva degli ATO (D. Lgs 152/2006 e successive modifiche).
Ai fini della concessione del sequestro conservativo, ricorre il requisito del fumus boni juris quando sia accertata, con un’indagine sommaria, la probabile esistenza del credito, restando riservato al giudizio di merito ogni altro accertamento in ordine alla sua effettiva sussistenza e al suo ammontare. Tale accertamento si risolve in una prognosi di fondatezza della pretesa del creditore.
Alla luce del principio di insindacabilità del merito gestorio, non tutti i comportamenti illeciti degli amministratori danno luogo a responsabilità risarcitoria, ma solo quelli che abbiano causato un danno al patrimonio sociale rendendolo incapiente, danno che deve essere legato da un nesso eziologico ai suddetti illeciti. L’irregolare tenuta della contabilità e redazione dei bilanci integrano una violazione dei doveri dell’amministratore, potenzialmente, ma non necessariamente, foriera di danno per la società. Eventuali irregolarità nella tenuta delle scritture contabili e nella redazione dei bilanci possono certamente rappresentare lo strumento per occultare pregresse operazioni illecite ovvero per celare la causa di scioglimento prevista dall’art. 2484, n. 4, c.c. e così consentire l’indebita prosecuzione dell’ordinaria attività gestoria in epoca successiva alla perdita dei requisiti di capitale previsti dalla legge; ma in tali ipotesi il danno risarcibile è rappresentato non già dalla misura del falso, ma dagli effetti patrimoniali delle condotte che con quei falsi si sono occultate o che, grazie a quei falsi, sono state consentite. Tali condotte, dunque, devono essere specificamente contestate da chi agisce per il risarcimento del danno, non potendo il giudice individuarle e verificarle d’ufficio.
In tema di reati fallimentari, i consulenti commercialisti o esercenti la professione legale concorrono nei fatti di bancarotta quando, consapevoli dei propositi distrattivi dell’imprenditore o degli amministratori della società, forniscano consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o li assistano nella conclusione dei relativi negozi ovvero ancora svolgano attività dirette a garantire l’impunità o a favorire o rafforzare, con il proprio ausilio o con le proprie preventive assicurazioni, l’altrui proposito criminoso.
Il timore, cui si riferisce la norma di cui all’art. 671 c.p.c., deve essere fondato – cioè supportato dalla presenza o di elementi oggettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, oppure di elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci fondatamente presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, ponga in essere atti dispositivi, idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio –, nonché riferito alla perdita della garanzia del credito e, quindi, alla eventualità che detto patrimonio subisca alterazioni tali da compromettere, in caso di inadempimento, la realizzazione coattiva del credito.
Il sistema dei controlli nelle società di capitali è un sistema composito che coinvolge una pluralità di soggetti e organi, quali gli amministratori non esecutivi e gli amministratori indipendenti, i sindaci, i revisori, il comitato per il controllo interno, l’organismo di vigilanza di cui al d.lgs. 231/01 e il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari nelle società quotate di cui all’art. 154 bis t.u.f., allo specifico fine di ottenere, grazie all’eterogeneità dei controlli, una garanzia rafforzata dell’osservanza delle regole di corretta amministrazione. La particolare conformazione della struttura societaria induce a doveri più intensi, come quando la società sia parte di un gruppo o si tratti di società a ristretta base familiare, soggetta perciò a influenze esterne anche pregiudizievoli.
La responsabilità omissiva del soggetto tenuto, per funzione, ad esercitare un controllo sull’agire di altri è per fatto proprio colpevole, purché si riscontrino la condotta almeno colposa e il nesso di causa con il danno, dovendosi ritenere ormai espunta anche dal diritto civile la responsabilità oggettiva, la responsabilità per fatto altrui o quella da mera posizione.
I doveri di controllo imposti ai sindaci ex artt. 2403 ss. c.c. sono configurati con particolare ampiezza, estendendosi a tutta l’attività sociale, in funzione della tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali; né riguardano solo il mero e formale controllo sulla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, essendo loro conferito il potere-dovere di chiedere notizie sull’andamento generale e su specifiche operazioni, quando queste possono suscitare perplessità, per le modalità delle loro scelte o della loro esecuzione. Compito essenziale è di verificare il rispetto dei principi di corretta amministrazione: dovere del collegio sindacale è di controllare in ogni tempo che gli amministratori compiano la scelta gestoria nel rispetto di tutte le regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale, alla stregua delle circostanze del caso concreto.
Ai fini dell’affermazione della responsabilità dei membri degli organi di controllo, è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità. Ricorre il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l’illecito perpetrato dagli amministratori, ai fini della responsabilità dei primi, secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale, se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione dei poteri sindacali avrebbe ragionevolmente evitato l’illecito, tenuto conto di tutte le possibili iniziative che il sindaco può assumere esercitando i poteri-doveri propri della carica, quali: la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403 bis c.c., la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 ss. c.c., la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446 e 2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ai sensi dell’art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. ed ogni altra attività possibile ed utile.
Non è sufficiente ad esonerare i sindaci della società da responsabilità, in presenza di una illecita condotta gestoria posta in essere dagli amministratori, la dedotta circostanza di esserne stati tenuti all’oscuro o di avere assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, qualora i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta degli amministratori, sebbene fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite e reagire ad esse, prevenendo danni ulteriori.
L’obbligo di vigilanza impone – prima ancora che la verifica sulla regolarità formale degli atti e delle relazioni degli amministratori – la ricerca di adeguate informazioni, in particolare da parte dei componenti dell’organo sindacale, la cui stessa ragion d’essere è il provvedere al controllo sulla gestione. Onde sussiste la colpa in capo al sindaco già per non avere rilevato i c.d. segnali d’allarme, individuati dalla giurisprudenza anche nella stessa soggezione della società all’altrui gestione personalistica.
Le dimissioni presentate non esonerano il sindaco di società di capitali da responsabilità, in quanto non integrano un’adeguata vigilanza sull’operato altrui e sullo svolgimento dell’attività sociale, per la pregnanza degli obblighi assunti proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato altrui e perché la diligenza richiesta al sindaco impone, piuttosto, un comportamento alternativo; le dimissioni diventano anzi esemplari della condotta colposa tenuta dal sindaco, rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità.
Neppure l’essere stato designato alla carica solo dopo la commissione dell’illecito è di per sé circostanza sufficiente ad esimere il sindaco da responsabilità, in quanto l’accettazione della carica comporta comunque l’assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo; né la responsabilità per il ritardo nell’adozione delle misure necessarie viene meno per il fatto imputabile al precedente amministratore, una volta che, assunto l’incarico, fosse esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio.
Ai fini dell’esonero dalla responsabilità è necessario invece che i componenti dell’organo di controllo – gravati dal relativo onere probatorio a fronte dell’allegazione dell’inerzia e della prova del fatto illecito gestorio da parte dell’attore – abbiano esercitato o tentato di esercitare l’intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge, fino alla denuncia all’autorità giudiziaria civile e penale, in mancanza delle quali concorrono nell’illecito civile commesso dagli amministratori della società per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti per legge. Anche la semplice minaccia di ricorrere ad un’autorità esterna può costituire deterrente, sotto il profilo psicologico, al proseguimento di attività antidoverose da parte dei delegati; la condotta impediente omessa va valutata nel contesto complessivo delle concrete circostanze, in quanto l’inerzia del singolo, nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo degli altri acquista efficacia causale, dato che, all’opposto, una condotta attiva giova a rompere il silenzio sollecitando, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge ed ai principi di corretta amministrazione un analogo atteggiamento degli altri.
La responsabilità dell’amministratore di società di capitali per il ritardo nell’adozione delle misure necessarie a contenere le perdite e per la mancata richiesta di fallimento nonostante la vistosità ed irreversibilità del dissesto non viene meno per effetto della responsabilità del precedente amministratore nell’aver occultato detto stato, una volta che di questo egli abbia avuto contezza.