In tema di liquidazione delle società di capitali, ove l’assemblea che ha deliberato lo scioglimento della società e la nomina del liquidatore non abbia determinato i poteri attribuiti a quest’ultimo alla stregua delle indicazioni contenute nell’art. 2487, co. 2, c.c., il liquidatore è investito, in forza dell’art. 2489, co. 1, c.c., del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società (ivi inclusa dunque la proposizione di un'azione di responsabilità nei confronti del precedente liquidatore). Alla stregua del principio appena richiamato e della rinunciabilità dell’azione prevista dall’art. 2476, co. 5, c.c., l’eccezione di improcedibilità dell’azione fondata sulla mancanza della delibera assembleare di autorizzazione alla proposizione dell’azione di responsabilità nei confronti del liquidatore e sull’invocata applicazione analogica della norma dettata dall’art. 2393 c.c. in materia di s.p.a. non merita accoglimento, non essendo lo stesso art. 2393 c.c. applicabile analogicamente alle s.r.l.
L’amministratore di fatto e quello di diritto rispondono in solido del danno cagionato alla società con le proprie condotte concorrenti, commissiva e omissiva e analogo principio vale per i liquidatori ai quali si applicano le norme sulla responsabilità dell’amministratore in forza del rinvio operato dall’art. 2489 c.c.
La responsabilità degli amministratori verso la società è di natura contrattuale e trova la sua fonte tanto nella violazione degli obblighi che hanno un contenuto specifico e già determinato dalla legge o dall’atto costitutivo, quanto nella violazione di obblighi definiti attraverso il ricorso a clausole generali, quali l’obbligo di amministrare la società e perseguirne l’oggetto sociale con la diligenza professionale esigibile ex art. 1176, co. 2, c.c., nonché quello di amministrare senza conflitto di interessi. Altra e distinta forma di responsabilità è quella degli amministratori verso i creditori della società come conseguenza dell’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, la cui natura extracontrattuale presuppone l’assenza di un preesistente vincolo obbligatorio tra le parti ed un comportamento dell’amministratore funzionale ad una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da renderlo inidoneo per difetto ad assolvere la sua funzione di garanzia generica, con conseguente diritto del creditore di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di adempiere. L’azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l.fall. compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c. ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, patrimonio visto unitariamente come garanzia sia per i soci sia per i creditori sociali. Dal carattere unitario dell’azione ex art. 146 l.fall. discende che il curatore, potendosi avvalere delle agevolazioni probatorie proprie delle azioni contrattuali, ha esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombendo per converso sui convenuti l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
Il thema probandum, nell’ambito dell’azione in questione, si articola pertanto nell’accertamento di tre elementi: l’inadempimento di uno o più degli obblighi di cui sopra, il danno subito dalla società e il nesso causale, mentre il danno risarcibile sarà quello causalmente riconducibile, in via immediata e diretta, alla condotta (dolosa o colposa) dell’agente sotto il duplice profilo del danno emergente e del lucro cessante, dunque commisurato in concreto al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, positivo o omissivo, non fosse stato posto in essere. Ad ogni modo, nell’accertamento della responsabilità degli amministratori deve tenersi conto del principio della insindacabilità nel merito delle scelte di gestione, in quanto il giudice non può apprezzare il merito dei singoli atti di gestione, valutandone, così, l’opportunità e la convenienza: ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice, dunque, non può essere l’atto in sé considerato e il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì, esclusivamente, le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi agli amministratori. Pertanto, alla luce del principio di insindacabilità del merito gestorio, non ogni atto dannoso per il patrimonio sociale è idoneo a fondare la responsabilità dell’amministratore che lo abbia compiuto; al contempo, non tutte le violazioni di obblighi derivanti dalla carica comportano necessariamente una lesione del patrimonio sociale e, dunque, l’individuazione di un danno risarcibile. Infatti, non tutti i comportamenti illeciti degli amministratori danno luogo infatti a responsabilità risarcitoria, ma solo quelli che abbiano causato un danno al patrimonio sociale rendendolo incapiente, danno che deve essere legato da un nesso eziologico ai suddetti illeciti.
Il titolare del marchio registrato ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica un segno identico o simile allo stesso marchio, per prodotti o servizi identici o affini a quelli per cui tale marchio è stato registrato. In base all'art. 20 c.p.i., la contraffazione ha luogo nel caso di utilizzo indebito di un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, qualora a causa della identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. Il rischio di confusione si concretizza quando il consumatore, dotato di media avvedutezza, collega ad un marchio, un segno imitante, senza distinguere i due prodotti, caratterizzati da elementi essenziali comuni, mentre il rischio di associazione si concretizza quando, pur senza incorrere in confusione, il detto consumatore associa mentalmente il segno contraffatto a quello oggetto di marchio d'impresa, sulla base dell’elemento o degli elementi di quest'ultimo, dotati di capacità distintiva e presenti anche nel primo.
Le condotte distrattive aventi a oggetto disponibilità liquide della società e beni aziendali poste in essere dal socio costituiscono certamente una fonte di danno per la società, danno del quale non può che essere chiamato a rispondere (anche) l’amministratore di diritto il quale – consentendo al socio la gestione dei rapporti con i clienti senza alcuna formalizzazione, omettendo qualsivoglia controllo o contestazione sul suo operato e anzi agendo nei confronti dei debitori contestando la legittimazione dello stesso a ricevere i pagamenti, senza invece intraprendere alcuna iniziativa nei suoi confronti – con la sua condotta inerte ha violato gli obblighi di diligenza connessi alla carica.
In tema di società di capitali, l'amministratore, pur nominato quando la società si trovi già in stato di insolvenza, è tenuto a prendere atto dell’impossibilità di proseguire l’attività d'impresa e chiedere il fallimento ex art. 14 l. fall., non essendo sufficiente per escluderne la responsabilità il mancato compimento di attività non conservativa (nella specie, l'inerzia dell'amministratore aveva comportato la maturazione di maggiori interessi passivi e sanzioni del valore di circa un milione e mezzo di euro, aggravando in tal modo lo stato di indebitamento della società).
Le disposizioni degli artt. 13 della legge 183/1976, 1 della legge 92/1979 e 11 della legge 17/1981, che consentono la costituzione di società di ingegneria, hanno parzialmente abrogato il divieto (di cui all'art 2 della legge 1815/1939) di esercizio in forma anonima di attività ingegneristica per l'ipotesi in cui l'apporto intellettuale dell'ingegnere sia uno dei vari fattori del più complesso risultato promesso, ma non per quella in cui l'attività oggetto del contratto tra committente e società consista in un'opera di progettazione interamente rientrante nell'attività professionale tipica dell'ingegnere e dell'architetto (e non in un'attività preparatoria e accessoria rispetto all'indicata progettazione). Di conseguenza, è nullo il contratto che affida ad una società l'esecuzione di incarichi rientranti totalmente nell'ordinaria attività del libero professionista.
La violazione del divieto posto dall'art. 2 della legge 1815/1939 priva la parte attrice del diritto al compenso pattuito, nonché di agire per ottenere l'equo indennizzo previsto dall'art. 2041 c.c. L'art. 2231 c.c stabilisce infatti che, quando l'esercizio di un'attività professionale è condizionato all'iscrizione in un albo o elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione.
Il riconoscimento del diritto, al fine della interruzione della prescrizione, ex art. 2944 cod. civ., è configurabile in presenza dei requisiti della volontarietà, della consapevolezza, della inequivocità, della esternazione e della recettizietà, requisiti che devono coesistere nello stesso atto, restando escluso che questo possa essere ricomposto a posteriori attraverso l’integrazione a mezzo dei risultati di attività probatoria svolta nel processo. Ne consegue che la ricognizione interruttiva della prescrizione non può essere ricollegata alla correlazione tra una singola voce, complessiva e generica, di bilancio, ed un atto interno di contabilità specificativo, in quanto, in tale ipotesi, il bilancio non è fornito di quel carattere specificatorio necessario per integrare la manifestazione di consapevolezza idonea alla ricognizione del singolo debito, mentre l’atto interno, pur dotato di specificità, è, però, privo della esteriorizzazione implicante la manifestazione di consapevolezza.
All’approvazione del bilancio, non può attribuirsi il valore di una rinuncia tacita alla prescrizione. Poiché la funzione del bilancio è quella di informare i soci e i terzi dell’attività svolta dagli amministratori attraverso la rappresentazione contabile dello stato patrimoniale della società e dei risultati economici della gestione, la relativa delibera di approvazione integra gli estremi di una dichiarazione di scienza, che solo a certe condizioni può integrare gli estremi di un atto negoziale.
Il sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c. rappresenta uno strumento processuale «finalizzato alla tutela di una ragione restitutoria e non (genericamente) creditoria», garantendo la «custodia» e la «gestione temporanea» di «beni mobili» (altro…)
La delibera assembleare di una società di capitali è nulla per illiceità dell’oggetto quando è contraria a norme dettate a tutela dell’interesse generale, che trascende quello dei singoli soci, e che siano dirette a impedire una deviazione dallo scopo essenziale economico - pratico del contratto e del rapporto di società. Pertanto, qualora, in relazione alla deliberazione del bilancio sociale, siano dedotte violazioni del principio di chiarezza e precisione del bilancio, la nullità della deliberazione ben può concretamente configurarsi se i fatti asseritamente contrari a quel principio si rivelino idonei ad ingenerare, per tutti gli interessati, incertezze ovvero erronee convinzioni circa la situazione economico - patrimoniale essendo posta la verità e la chiarezza di questo a tutela non soltanto del o dei singoli soci, bensì di tutti i terzi e dei creditori in particolare.
L’azione di nullità di una delibera assembleare può essere proposta da chiunque vi abbia interesse e, considerate le ricadute sul valore della quota da liquidare, l’interesse del socio escluso a impugnare le delibere di approvazione dei bilanci relativi agli esercizi che precedono l’esclusione permane.
In caso di impugnazione del bilancio di una società di capitali, le asserite violazioni devono essere provate dall’impugnante. Né giova obiettare che non si può pretendere l’adempimento da parte del socio impugnante di un onere di prova negativo.
Secondo il principio della insindacabilità nel merito delle scelte di gestione, il giudice, investito di un’azione di responsabilità per condotta negligente degli amministratori, non può apprezzare il merito dei singoli atti di gestione, valutandone, così, l’opportunità e la convenienza. La gestione della società, infatti, in quanto attività d’impresa, comporta fisiologicamente un alto margine di rischio e richiede il riconoscimento di un ampio potere discrezionale in capo all’organo amministrativo in relazione alla scelta delle operazioni da intraprendere: se fosse possibile compiere una valutazione sull’opportunità e convenienza delle scelte di gestione, si legittimerebbe un’indebita ingerenza dell’autorità negli affari sociali, in pregiudizio all’autonomia ed indipendenza dell’organo amministrativo e con probabile paralisi del normale svolgimento dell’attività d’impresa. Ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice, dunque, non può essere l’atto in sé considerato e il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì, esclusivamente, le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi agli amministratori.
Se, alla luce del principio di insindacabilità del merito gestorio appena richiamato, non ogni atto dannoso per il patrimonio sociale è idoneo a fondare la responsabilità dell’amministratore che lo abbia compiuto; d’altro canto, non tutte le violazioni di obblighi derivanti dalla carica comportano necessariamente una lesione del patrimonio sociale e, dunque, l’individuazione di un danno risarcibile. Non tutti i comportamenti illeciti degli amministratori danno luogo infatti a responsabilità risarcitoria, ma solo quelli che abbiano causato un danno al patrimonio sociale rendendolo incapiente, danno che deve essere legato da un nesso eziologico ai suddetti illeciti.
Eventuali irregolarità nella tenuta delle scritture contabili e nella redazione dei bilanci possono certamente rappresentare lo strumento per occultare pregresse operazioni illecite ovvero per celare la causa di scioglimento prevista dall’art. 2484, n. 4, c.c. e così consentire l’indebita prosecuzione dell’ordinaria attività gestoria in epoca successiva alla perdita dei requisiti di capitale previsti dalla legge, ma in tali ipotesi il danno risarcibile è rappresentato all’evidenza, non già dalla misura del "falso", ma dagli effetti patrimoniali delle condotte che con quei falsi di sono occultate o che grazie a quei falsi sono state consentite. Tali condotte dunque devono essere specificamente contestate da chi agisce per il risarcimento del danno, non potendo il giudice individuarle e verificarle d’ufficio.
Il danno oggi non viene più dunque automaticamente identificato nella differenza tra attivo e passivo fallimentare, a meno che non si dimostri che il dissesto economico della società e il conseguente fallimento si siano verificati per fatto imputabile agli amministratori.
Non è sufficiente, ai fini della configurabilità della responsabilità degli amministratori, addurre che l’evento dannoso è pari al disavanzo fallimentare, bensì occorre dimostrare non solo la specifica violazione dei doveri imposti dalla legge ma anche la correlazione tra tali violazioni e il pregiudizio arrecato alla società. In altri termini, il danno arrecato dagli amministratori responsabili di violazioni della legge e dello statuto va “debitamente provato e quantificato in relazione al concreto pregiudizio arrecato da ciascun atto di mala gestio”.
Non è sufficiente, ai fini della configurabilità della responsabilità degli amministratori, addurre che l’evento dannoso è pari al disavanzo fallimentare, bensì occorre dimostrare non solo la specifica violazione dei doveri imposti dalla legge ma anche la correlazione tra tali violazioni e il pregiudizio arrecato alla società.
Tale danno può essere individuato in via presuntiva nella differenza fra attivo e passivo solo in caso di radicale impossibilità di ricostruire le vicende societarie per mancanza o assoluta inattendibilità delle scritture contabili, a condizione che sia allegato e dimostrato uno specifico inadempimento, imputabile all’amministratore, tale da determinare specifici effetti pregiudizievoli – c.d. “inadempimento qualificato” – che non può consistere nell’omessa tenuta delle scritture contabili.