Ai fini del riconoscimento della tutela autorale ad un oggetto ai sensi dell’art. 2, n. 10, l.d.a. contribuiscono vari aspetti quali il carattere di notorietà dell’opera, la fama internazionale dell’ideatore, l’esposizione delle opere in prestigiose sedi museali a livello internazionale, nonché il grado di trasposizione dell’idea artistica da parte dell’autore, la produzione non meramente seriale e l’astrazione dell’oggetto dalla mera utilità.
Costituisce contraffazione di marchio il suo uso non autorizzato da parte di terzi come titolo di una iniziativa di vendita on line e a fini identificativi dell’artista.
Sussiste l’illecito della concorrenza sleale per imitazione servile nei casi di imitazione di disegni e modelli altrui che possiedono una capacità distintiva che ne individua agli occhi del pubblico la provenienza da una determinata impresa.
In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall'identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato.
La fattispecie di cui all’art 2598 n.3 cc attiene a forme di slealtà concorrenziale realizzata con meccanismi diversi rispetto a quelli afferenti i casi tipici di cui all’ art 2598 n.1 e 2 cod. civ., sussistendo concorrenza sleale ai sensi della norma de qua quando l’imprenditore si avvalga di qualsiasi mezzo contrario alla correttezza e nel contempo idoneo a danneggiare l’altrui impresa. La norma di cui all’art 2598 n.3 cc costituisce invero una disposizione aperta che spetta al giudice riempire di contenuti, avuto riguardo alla naturale atipicità del mercato ed alla rottura della regola della correttezza commerciale, sì che in tale previsione rientrano tutte quelle condotte che, coerentemente con la suddetta ratio, ancorché non tipizzate, abbiano come effetto l'appropriazione illecita del risultato di mercato della impresa concorrente.
Rientrano nella competenza della Sezione Specializzata Impresa anche le materie che, come l’uso indebito del nome ai sensi dell’art 7 c.c., presentano ragioni di connessione, anche impropria, con quelle di competenza delle sezioni specializzate ai sensi dell’art 134 c.p.i.
Ai sensi dell’art. 7 c.c. “la persona ... che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni”, onde il titolare di un nome (prenome e/o cognome) può impedirne qualsiasi uso indebito, intendendosi per “indebito” non solo il vero e proprio uso usurpativo del nome altrui a fini di identificazione personale – idoneo come tale a creare confusione con altri soggetti –, ma anche ogni altro impiego del nome che possa recare pregiudizio all’identità, intesa estensivamente come il riflesso esteriore della complessiva personalità di un soggetto, come nel caso in cui la lesione del diritto alla corretta identificazione di un soggetto agli occhi della collettività avvenga con l’attribuzione al soggetto di atti, dichiarazioni, iniziative e attività – anche in ambito e per finalità commerciali – cui egli sia totalmente estraneo.
In un’operazione di fusione, secondo la stessa logica per cui la società incorporante non acquisisce la denominazione sociale dell’incorporata – che è elemento identificativo di un soggetto che non esiste più e non un “bene” del patrimonio aziendale che viene acquisito per effetto della vicenda riorganizzativa della fusione – allo stesso modo, ai sensi dell’art. 7 c.c., non potrà usare il nome di un socio defunto, senza il consenso degli eredi, qualora questi abbiano acconsentito all’inclusione del medesimo solo in relazione alla società incorporata di cui era amministratore. Ciò in ragione del fatto che sussiste la mera possibilità per gli eredi di subire un pregiudizio nel vedersi attribuire un’attività a cui sono totalmente estranei o, addirittura, concorrenti.
L’avvalersi del cognome di un soggetto noto nella comunità locale, in particolare associato a un’attività storica e ben radicata nel territorio, costituisce violazione delle norme sui segni distintivi dell’impresa qualora tale uso avvenga senza il consenso degli eredi e sia finalizzato a trarre vantaggio dalla notorietà del nome per attrarre clientela. La modifica della denominazione sociale e dell'insegna aziendale, introducendo tale cognome in un contesto commerciale concorrente, configura altresì atto di concorrenza sleale qualora induca il pubblico a confondere le due attività imprenditoriali e a far erroneamente ricondurre a sé il prestigio accumulato dalla precedente gestione familiare.
Nelle operazioni di fusione tra due società, entrambe aventi come denominazione sociale il nome e cognome dei rispettivi soci fondatori, il diritto della società incorporante di cambiare la propria denominazione sociale con quella della società incorporata – possibile solo se sia stato manifestato consenso espresso a che ciò avvenga – si reputa inequivocabilmente rinunciato se la società incorporante non adotti tempestivamente, rispetto all’evento fusione, le procedure interne necessarie a mutare la propria denominazione.
Qualora due società di capitali abbiano come denominazione lo stesso cognome, ai sensi dell’art.2564 c.c. il conflitto tra i segni distintivi deve essere risolto attribuendo prevalenza all’iscrizione nel registro delle imprese che è intervenuta per prima, non essendo rilevante che una delle due società abbia incorporato tramite fusione altra società avente il medesimo cognome nella denominazione, in quanto questa, per mezzo della fusione, ha cessato di esistere insieme al proprio nome.
La domanda di nullità di un contratto va sempre proposta nei confronti della controparte negoziale e, in caso di cessione del credito (anche in blocco, nell’ambito delle operazioni di cartolarizzazione), l’azione deve indirizzarsi verso il soggetto cedente e non verso il cessionario, rimasto estraneo a quel rapporto. La cartolarizzazione dà infatti luogo ad un fenomeno di cessione del credito e non anche del contratto da cui il credito deriva, con la conseguenza che eventuali vizi sostanziali del negozio giuridico possono essere fatti valere nei soli confronti della società cedente, titolare del rapporto originario.
Il debitore ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni opponibili al cedente: sia quelle attinenti alla validità del titolo costitutivo del credito, sia quelle relative ai fatti modificativi ed estintivi del rapporto anteriori alla cessione o anche posteriori al trasferimento, ma anteriori all’accettazione della cessione o alla sua notifica o alla sua conoscenza di fatto.
L’accertamento da parte della Banca d’Italia dell’illiceità di alcune clausole delle Norme Bancarie Uniformi trasfuse nella modulistica contrattuale predisposta in attuazione delle suddette intese non esclude che in concreto la nullità del contratto a valle debba essere valutata dal giudice adito alla stregua degli artt. 1418 ss. c.c. e che possa trovare applicazione l’art. 1419 c.c., laddove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rivenienti dalle intese illecite.
I contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall'Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, co. 2, lett. a), l. n. 287 del 1990 e 101 del TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, co. 3 della legge citata e dell’art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l'intesa vietata - perché restrittive, in concreto, della libera concorrenza -, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti.
Il provvedimento n. 55 del 2/5/2005 emesso dalla Banca d'Italia in funzione di Autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi possiede, al pari di quelli emessi dall'Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un'elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle misure sanzionatorie che siano in esso pronunciate. Il giudice del merito è tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell'intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo all'attuazione o meno della prescrizione contenuta nel menzionato provvedimento con cui è stato imposto all'ABI di estromettere le clausole vietate dallo schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario. Inoltre, va allocato in capo all’attore l’onere della prova dell’adesione, da parte della banca convenuta, alla ipotizzata intesa restrittiva anticoncorrenziale, inclusa la circostanza che la fideiussione omnibus rilasciata sia conforme al modello contrattuale, che si assume lesivo della normativa antitrust e che la libertà di scelta del fideiussore sia stata effettivamente lesa.
La l. 287/1990 detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia un interesse processualmente rilevante alla conservazione del suo carattere competitivo, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura, o alla diminuzione, di tale carattere per effetto di un’intesa vietata, tenuto conto, da un lato, che, di fronte a un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto a una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza e, dall'altro, che il cosiddetto contratto a valle costituisce lo sbocco dell'intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti. Pertanto, siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce un danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l'azione di accertamento della nullità dell'intesa e di risarcimento del danno, di cui all'art. 33 della l. 287/1990.
La nullità per violazione della disciplina antitrust è espressamente prevista per le intese illecite tra imprenditori, non anche per i contratti stipulati a valle, rispetto ai quali, qualora costituiscano lo sbocco delle intese illecite e ne rappresentino l'esecuzione, l'ordinamento giuridico riconosce soltanto la tutela risarcitoria a favore del contraente danneggiato.
La nullità dell’intesa a monte non si comunica al contratto collegato a valle. Infatti, per affermare la nullità derivata di un contratto a valle rispetto a quella dichiarata del contratto a monte tra soggetti diversi, salva la prova della illiceità e contrarietà a norma imperativa della convenzione, è necessario dimostrare un nesso di dipendenza delle fideiussioni con la deliberazione dell'ABI ovvero un collegamento negoziale nel suo significato tecnico. Tuttavia, la circostanza che l'impresa collusa uniformi al programma anticoncorrenziale le manifestazioni della propria autonomia privata non appare sufficiente a privare il successivo contratto a valle di una autonoma ragione pratica. Inoltre, i contratti conclusi in aderenza alla prassi di seguire gli schemi ABI neppure possono qualificarsi come illeciti ex se, atteso che sebbene l'art. 2 della legge 287/1990 vieti le suddette intese sancendone la nullità ad ogni effetto, nulla dispone circa le sorti dei rapporti commerciali tra le imprese parti dell’intesa anticoncorrenziale e altri contraenti. Non è sufficiente la semplice violazione della norma imperativa dell’art. 2 della legge 287/1990, ma occorre che per effetto di tale violazione si determini una situazione di oggettiva incompatibilità tra il precetto posto dalla disposizione antimonopolistica e la regola negoziale contenuta nei contratti a valle dell’intesa. È dunque necessario che la proibizione contenuta nella norma, che fa divieto alle imprese di conformare la propria condotta e le proprie scelte strategiche secondo standard comportamentali illeciti, investa anche il precetto che le parti si sono date e in base al quale intendono disciplinare i propri rapporti a valle.
Ai fini del risarcimento del danno per violazione delle disposizioni sul diritto della concorrenza, l’art. 7 d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3 dev’essere interpretato nel senso che la decisione definitiva con cui l’autorità garante della concorrenza e del mercato accerta una violazione antitrust costituisce prova privilegiata, nei confronti dell'autore della condotta, della sussistenza del comportamento contestato, salvo che, in sede risarcitoria, sia possibile offrire prove di segno contrario. L’effetto derivante dalla natura di prova privilegiata è, però, circoscritto alla natura della violazione e alla sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, ma non anche al nesso di causalità e all'esistenza e quantificazione del danno, da indagarsi specificamente in sede risarcitoria, dinanzi al giudice civile, secondo gli ordinari criteri di imputazione dell’onere della prova.
Pur tenendo conto della possibile asimmetria informativa esistente tra le parti nell'accesso alla prova, va mantenuto fermo l'onere dell'attore, che agisce per il risarcimento del danno da violazione antitrust, di indicare, in modo sufficientemente plausibile, i seri indizi dimostrativi della fattispecie denunciata come idonea ad alterare la libertà di concorrenza e a ledere il suo diritto di godere del beneficio della competizione commerciale, con la precisazione che si deve trattare di elementi di cui egli possa essere in possesso o ai quali possa comunque accedere nella sua ordinaria attività e senza particolari difficoltà. Spetta, invece, al giudice l’onere di valorizzare gli strumenti di indagine e conoscenza che le norme processuali già prevedono, interpretando estensivamente le condizioni stabilite dal codice di procedura civile in tema di esibizione di documenti, richiesta di informazioni e consulenza tecnica d'ufficio, al fine di esercitare, anche officiosamente, quei poteri d'indagine, acquisizione e valutazione di dati e informazioni utili per ricostruire la fattispecie anticoncorrenziale denunciata. Sussiste, però, un onere per la parte attrice di dare conto di tutti gli elementi di cui possa essere in possesso o ai quali possa comunque accedere nella sua ordinaria attività e senza particolari difficoltà.
Il metodo di accertamento di tipo statistico della violazione antitrust, basato sulla frequenza dell’evento indagato all’interno di un campione rappresentativo, può essere utilizzato dall’autorità amministrativa ai fini dell’adozione del provvedimento sanzionatorio, ma non è, invece, ammesso nell’ambito del processo civile, al fine di inferire l’esistenza del fatto ignoto. La mera successione temporale di eventi, sulla base delle quali sono costruite le rilevazioni statistiche, non è, infatti, idonea a dare conto della corretta ricostruzione delle catene causali che portano alla valutazione di singoli eventi. Un apporto cognitivo di tale natura potrebbe, invero, rivestire al più un mero carattere indiziario o rafforzativo e confermativo di altri elementi di prova, dal complesso dei quali poter accertare il fatto da provare.
Perché un’invenzione possa dirsi nuova ai sensi dell’art. 46 c.p.i., è necessario che essa non sia già conosciuta o utilizzata da altri ovvero che non risulti già brevettata o descritta in pubblicazioni diffuse in Italia o all’estero.
Per stato della tecnica deve intendersi tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico nel territorio dello Stato o all’estero prima della data del deposito della domanda di brevetto, mediante una descrizione scritta o orale, una utilizzazione o un qualsiasi altro mezzo.
Laddove la datazione di un’anteriorità non sia provata con certezza, l’anteriorità non è validamente opponibile.
La disciplina della tutela del diritto d’autore sulle opere fotografiche contempla attualmente tre ipotesi: 1) le opere d’ingegno che ricadono sotto la previsione dell’art. 2 n. 7 L.D.A. e che godono della tutela d’autore ai sensi degli artt.12 e ss., 20 e ss. e 171 e ss.; 2) le fotografie semplici, vale a dire le “immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale o sociale”, prive del carattere creativo, pur essendo caratterizzate da una qualche attività personale del fotografo, quanto meno nella ricerca del soggetto da fotografare, e tutelate, più limitatamente, ai sensi degli artt.87 e ss. L.D.A., come tipici diritti connessi; 3) le fotografie di “scritti, documenti, carte di affari, oggetti materiali, disegni tecnici e prodotti simili”, prive di tutela ex art.87, 2° comma L.D.A.
Ai fini della distinzione tra la prima e la seconda categoria di fotografie meritevoli di tutela, occorre verificare se sussista o meno un atto creativo, che sia espressione di un’attività intellettuale preponderante rispetto alla tecnica materiale, così che la modalità di riproduzione del dato fotografato trasmetta un messaggio ulteriore e diverso rispetto alla visione oggettiva di esso, rendendo una soggettiva interpretazione che permetta di individuare l’opera tra le altre analoghe. La fotografia è creativa quando è capace di evocare suggestioni o comunque di lasciare trasparire l’apporto personale del fotografo e non si limiti a riprodurre e documentare determinate azioni o situazioni reali. L’apporto creativo deve potersi desumere da una precisa attività del fotografo, volta o alla valorizzazione degli effetti ottenibili con l’apparecchio (inquadratura, prospettiva, cura della luce, del tutto peculiari) o alla scelta del soggetto (intervenendo il fotografo sull’atteggiamento o sull’espressione, se non creando addirittura il soggetto stesso), purché emerga una prevalenza del profilo artistico sull’aspetto prettamente tecnico. In sintesi la professionalità nella cura dell’inquadratura e la capacità di cogliere in modo efficace il soggetto fotografato non sono sufficienti a qualificare la fotografia come creativa, essendo invece a questo fine necessarie anche la originalità e la creatività della fotografia.
Anche l’autore delle fotografie non creative gode di un diritto morale connesso o, quantomeno, un diritto alla paternità in considerazione del generale diritto di ogni individuo alla paternità delle proprie azioni, nonché in considerazione della tutela prevista per il fotografo dagli artt. 87 e segg. LDA. In particolare, l’importanza che emerge dall’art. 90, co. 1, LDA, della presenza sulla foto del nome dell’autore, nonché la necessità, prevista dall’art. 91 LDA, dell’indicazione del nome dell’autore, se risulta sulla foto riprodotta, in caso di riproduzioni fotografiche in antologie per uso scolastico o, comunque, per uso scientifico e didattico e l’analoga previsione contenuta nell’at.98 LDA in caso di ritratto fotografico, consentono di ritenere la rilevanza giuridica del diritto alla paternità anche nel caso dell’autore di fotografie non creative.
Il diritto di rivendicare la paternità dell'opera consiste non soltanto in quello di impedire l'altrui abusiva auto o eteroattribuzione di paternità, ma anche nel diritto di essere riconosciuto come l'autore dell'opera, indipendentemente dalla parallela, ma pur solo eventuale, attribuzione ad altri, e la violazione del diritto importa l'obbligo del responsabile di risarcire il danno non patrimoniale arrecato.
Se gli internet service provider, pur non responsabili dell'illecito, sono qualificabili come intermediari, possono essere destinatari di ordini inibitori a prescindere dalla sussistenza di dolo o colpa.
Affinché l'ordine inibitorio del giudice possa essere ritenuto operante anche con riferimento a condotte future (nel caso di specie, il blocco di futuri siti web lesivi dei diritti dell'attrice) è necessario che vi sia effettiva coincidenza oggettiva e soggettiva con le condotte censurate: in altre parole, è necessario che tali condotte risultino attuative del medesimo comportamento illecito e che siano poste in essere dai medesimi soggetti o da soggetti ad essi direttamente collegati.
La concessione di un lasso temporale tra l'ordine dell'autorità giudiziaria e il computo della penale non va inteso come possibilità di conformarsi all’ordine in un momento successivo alla sua comunicazione.
La registrazione non è una condicio sine qua non per l'esistenza del marchio, posto che l'ordinamento conosce anche il marchio di fatto, non registrato, e riconosce anche la possibilità di tutelare il medesimo [artt. 2569, secondo comma, e 2571 c.c. nonché art. 12, comma 1, lett. a), c.p.i.]
L’inserimento in un contratto di fideiussione di una clausola di pagamento a prima richiesta e senza eccezioni vale di per sé a qualificare il negozio come contratto autonomo di garanzia. Ciononostante, in materia di contratto autonomo di garanzia, la previsione, nel testo contrattuale, della clausola “a prima richiesta e senza eccezioni” fa presumere l’assenza dell’accessorietà, la quale, tuttavia, può derivarsi, in difetto, anche dal tenore dell’accordo, ed in particolare dalla presenza di una clausola che fissa al garante il ristretto termine di trenta giorni per provvedere al pagamento dietro richiesta del creditore, insufficiente per l’effettiva opposizione delle eccezioni, e dalla esclusione, al contempo, della possibilità per il debitore principale di eccepire alcunché al garante in merito al pagamento stesso
Dalla qualificazione di un contratto come contratto autonomo di garanzia discende l’inapplicabilità dell’art. 1957 c.c., in difetto di diversa previsione da parte dei contraenti, poiché tale disposizione, collegata al carattere accessorio dell’obbligazione fideiussoria, instaura un collegamento necessario ed ineludibile tra la scadenza dell’obbligazione di garanzia e quella dell’obbligazione principale e, come tale, rientra tra quelle su cui si fonda l’accessorietà del vincolo fideiussorio, per ciò solo inapplicabile ad una obbligazione di garanzia autonoma.
La titolarità di un marchio può essere validamente assunta anche da soggetti che non sono titolari di impresa e che non si propongano un’utilizzazione diretta del segno, ma che intendano appropriarsi della prerogativa di disporne, cedendolo o consentendone l’uso ad imprenditori interessati ad approfittare del valore suggestivo e pubblicitario da esso acquisito.