Le clausole di prelazione sono quel tipo di clausole limitative del trasferimento di quote che attribuiscono ai soci il diritto di essere preferiti a terzi - a parità di condizioni - in caso di alienazione della partecipazione. Dal punto di vista strettamente operativo, il meccanismo delineato dalle clausole di prelazione prende il suo avvio con la cosiddetta denuntiatio, ossia con l’inoltro ai soci della proposta contrattuale rivolta ai sensi dell’art. 1326 c.c. al terzo cessionario. Con riguardo ai caratteri che deve assumere una valida denuntiatio si ritiene che essa debba contenere tutte le condizioni contrattuali stabilite con il terzo, con conseguente onere di forma se il contratto rientra tra le ipotesi previste dall’art. 1350 c.c. I soci, infatti, devono essere messi in condizione di acquisire la piena consapevolezza dell’affare e di valutare la convenienza dell’esercizio della prelazione; esigenza che deve essere soddisfatta per mezzo di un’indicazione analitica di tutti gli elementi della proposta. Da qui la necessità che la denuntiatio contenga tutte le condizioni dell’offerta e, in particolare, il nominativo del terzo interessato all’acquisto, trattandosi di tutelare, in relazione al riscontro di una volontà delle parti che assegni rilevanza all’intuitus personae, non soltanto uno specifico interesse a conservare una particolare omogeneità (anche familiare) della compagine sociale, ma anche l’esigenza di permettere una valutazione circa l’opportunità di esercitare o meno la prelazione, atteso che la serietà e congruità dell’offerta possono dipendere anche dalla persona dell’offerente e dovendosi dall’altra parte consentire ai soci titolari del diritto di prelazione la valutazione circa l’ingresso nella società di nuovi soci. Si ritiene, inoltre, che la denuntiatio debba indicare il prezzo offerto o concordato con il potenziale acquirente.
Per quanto concerne le conseguenze della violazione delle clausole che limitano la circolazione di partecipazioni di s.r.l., occorre distinguere tra le clausole che abbiano natura parasociale e quelle inserite nello statuto della società. La violazione delle prime comporterà la responsabilità del socio che abbia violato la norma parasociale, ma nessuna conseguenza potrà essere ravvisata sul piano dell’organizzazione sociale. Le conseguenze sono diverse nell’ipotesi in cui il patto di prelazione non sia previsto nel patto parasociale e venga inserito, piuttosto, con apposita clausola, dai soci stipulanti nell’atto costitutivo o nello statuto della stessa società. Infatti, alla clausola statutaria di prelazione deve attribuirsi efficacia reale, i cui effetti sarebbero opponibili anche al terzo acquirente. Ad ogni modo è ormai pacifico che la realità della clausola non può condurre alla nullità del trasferimento operato in violazione del patto di prelazione, non versandosi in ipotesi di violazione di norma imperativa, né alla declaratoria di nullità per impossibilità dell’oggetto per indisponibilità della partecipazione ceduta; può condurre unicamente ad una pronuncia d’inefficacia del trasferimento in favore del socio pretermesso e/o della società. Più in particolare si ritiene che la violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporti l’inopponibilità, nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione, della cessione della partecipazione societaria (che resta, però, valida tra le parti stipulanti), nonché l’obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, secondo i principi generali in tema di inadempimento delle obbligazioni.
In forza del disposto di cui all’art. 2479 ter, comma 3, c.c. le delibere societarie possono essere impugnate, entro tre anni dalla relativa iscrizione nel registro delle imprese, da chiunque vi abbia interesse, qualora siano stata adottate in assenza assoluta di informazione o se aventi oggetto impossibile ed illecito. In particolare, ricorre l’ipotesi di assenza assoluta di informazione nel caso di delibera assembleare assunta nella completa carenza di convocazione dell’assemblea.
In merito alla prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare nei confronti degli amministratori, in ragione dell’onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione “iuris tantum” di coincidenza tra il “dies a quo” di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull’amministratore la prova contraria della diversa data, anteriore, di insorgenza e percepibilità dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito [nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto la notifica alla società fallita di cinque cartelle di pagamento da parte dell’Agenzia delle Entrate come fatto, di per sé solo e senza ulteriori elementi, non certo suscettibile di essere sintomo di assoluta evidenza dell’incapienza patrimoniale della società e, dunque, non idoneo a consentire un’anticipazione del termine di decorrenza della prescrizione rispetto alla data del fallimento].
L’azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 L.F. compendia in sé, in un'unica azione finalizzata alla reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia dei soci e dei creditori, le azioni di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., di talché la curatela attrice ha la possibilità di cumulare i vantaggi di entrambe le azioni, sul piano del riparto dell’onere della prova e dei limiti al risarcimento del danno (art. 1225 c.c.), come anche del regime della prescrizione (art. 2393 comma 4, 2941 n. 7, 2949 e 2394 comma 2 c.c.). Ebbene, stante la natura anche contrattuale dell’azione di responsabilità ex art. 146 L.F. (attesa la natura contrattuale dell’azione ex art. 2393 c.c. in essa compendiata), il curatore che agisce in giudizio ha solo l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni degli obblighi imposti ed il nesso di causalità fra queste e il danno verificatosi, mentre incombe sul convenuto l’onere di allegare e provare i fatti idonei ad escludere od attenuare la sua responsabilità, ovvero la non imputabilità a sé degli inadempimenti contestatigli. Spetta, infine, all’attore l’onere di allegazione e prova, sia pure mediante presunzioni, dell’esistenza di un danno concreto, ovvero del depauperamento del patrimonio sociale e dalla riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente.
L’omessa/irregolare tenuta delle scritture contabili non comporta di per sé un danno per la società stessa o per i creditori sociali. Postulare che l’amministratore debba rispondere dello sbilancio patrimoniale della società accertato in sede fallimentare solo perché non ha tenuto o non ha correttamente tenuto la contabilità sociale e, dunque, non ha consentito alla Curatela la ricostruzione completa delle vicende societarie, significherebbe attribuire al risarcimento del danno una funzione prettamente sanzionatoria, in quanto si prescinderebbe dall’accertamento del nesso eziologico tra l’inadempimento contestatogli e il danno sofferto dal patrimonio della società: appare del tutto evidente come la contabilità registri gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, senza però determinarli; è da quegli accadimenti che deriva il danno patrimoniale, non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità.
Il curatore fallimentare che intenda far valere la responsabilità dell’ex-amministratore per violazione degli obblighi di cui agli artt. 2484 c.c. e ss. deve anche allegare che, successivamente alla perdita del capitale sociale, l’amministratore ha intrapreso iniziative imprenditoriali connotate dall’assunzione di rischio economico-commerciale e compiute al di fuori di logiche conservative nella prospettiva della liquidazione, individuare tali iniziative ed indicare le conseguenze negative che sono derivate dalle illegittime condotte gestorie. In particolare, la Curatela che agisce in giudizio ha l’onere di allegare e provare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè della ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuta, invece, a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d’impresa e non abbiano una finalità liquidatoria; spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari.
Nell’ambito dei contratti di acquisizione di partecipazioni sociali, le clausole di price adjustments, ossia le clausole che prevedono che il corrispettivo della cessione possa essere adeguato per far fronte alla minore consistenza patrimoniale societaria, attengono alla determinazione della misura dell’obbligazione a carico dell'acquirente e assolvono alla loro funzione di tutela di quest'ultimo intervenendo ex ante, mediante l’adeguamento della prestazione ancora da adempiere.
Tali clausole, quindi, differiscono dalle clausole di indemnity, le quali hanno – al contrario – ad oggetto l’assunzione volontaria di un’ulteriore obbligazione autonoma in capo al venditore, consistente nella dazione all'acquirente di un indennizzo al ricorrere di prederminate circostanze.
Le clausole di price adjustment non sono soggette al termine ordinario decennale di prescrizione (come le clausole di indemnity) ma, per la loro natura e il loro modo di operare, sono soggette alla disciplina dell’art. 1495 c.c. A tal riguardo, l'azione del compratore contro il venditore per far valere la garanzia a norma dell'articolo 1495 c.c. si prescrive, alla stregua del comma 3 di tale disposizione, in ogni caso nel termine di un anno dalla consegna del bene compravenduto e ciò anche se i vizi non siano stati scoperti o non siano stati tempestivamente denunciati o la denuncia non fosse neppure necessaria. Posto che ai sensi dell’art. 2935 c.c. la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, nel caso di cessione di partecipazioni sociali tale data coincide con la data dell'atto definitivo di cessione delle quote e dalla relativa iscrizione nel registro delle imprese.
Le delibere invalide ai sensi del primo comma dell’art. 2479 ter c.c. devono essere impugnate entro novata giorni dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci. Si tratta di un termine di decadenza, cui non si applicano gli istituti della sospensione e dell’interruzione disciplinati dagli artt. 2941 e 2943 c.c. Tale termine per impugnare decorre dalla data di iscrizione della deliberazione nel libro delle decisioni e si applica a tutti i tipi di decisione dei soci, siano esse adottate con il metodo assembleare ovvero mediante consultazione scritta o mediante consenso espresso e prescinde dalla data di verbalizzazione e dalla data di iscrizione nel registro imprese. Il dies a quo per l’esercizio dell’impugnativa decorre esclusivamente dalla data di trascrizione nel libro delle decisioni dei soci, non rilevando la data di iscrizione al Registro delle Imprese, nel caso in cui la delibera sia soggetta ad iscrizione, trattandosi di un termine unico, come illustrato nella Relazione governativa al D.lgs. n. 6 del 2003. Tale disciplina trova la sua ragion d’essere nell’elevato grado di partecipazione alla vita dell’ente da parte dei soci di talché la pubblicità interna rappresentata dai libri sociali assume maggior rilevanza rispetto a quella che si realizza tramite il Registro delle Imprese.
Il principio di proporzionalità e il connaturato principio di parità di trattamento dei soci esposti dal comma 2 dell’art. 2468 c.c. in forza dei quali sono attribuiti ai soci i medesimi diritti, in misura per l’appunto proporzionale alla misura della partecipazione, costituiscono regole dispositive, poste a tutela dell’interesse dei soci, che possono essere derogate in nome del rilievo personalistico che informa anch’esso l’aspetto organizzativo del nuovo tipo sociale della S.r.l. ed in forza del quale assume rilievo statutario l’intuitus personae. Il terzo comma disciplina l’ipotesi in cui l’autonomia negoziale voglia introdurre deroghe al principio di uguaglianza e di proporzionalità del contenuto delle partecipazioni sociali. L’eventuale deroga all’uguaglianza ed alla proporzionalità si estrinseca nell’attribuzione di particolari diritti a singoli soci ed esclude invece la loro incorporazione in partecipazioni sociali comprensive di diritti diversi rispetto alle altre. Con particolare riferimento alla nomina degli amministratori, l’art. 2475 c.c. prevede che i soci nominino uno o più amministratori della società con decisione ai sensi dell’art. 2479 c.c., salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo. La norma dell’art. 2468, 3° comma c.c. legittima la previsione pattizia di meccanismi di designazione degli amministratori diversi dalla decisione dei soci assunta dall’art. 2479 c.c.
L’attribuzione di uno o più diritti particolari a tutti i soci di una s.r.l. deve invece ritenersi ammissibile in considerazione del tenore letterale dell’art. 2468, comma 3, c.c., che non esclude che i diritti particolari possano riguardare tutti i soci e dell’autonomia statutaria riconosciuta al tipo sociale s.r.l., in forza della quale i soci possono decidere di attribuire rilevanza alle persone di tutti i soci.
L'azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori di società di capitali ha natura contrattuale, il che comporta l’onere, in capo all’attore, di provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l'onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi imposti.
In sede di verifica dell'adempimento da parte dell'amministratore al dovere di agire con la dovuta diligenza, comunque non possono essere sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali compiute dagli amministratori, sempre che si tratti di scelte relative alla gestione dell'impresa sociale e, pertanto, caratterizzate dall'assunzione di un rischio, quali la cessione del ramo d'azienda in quanto tale, rientrando questa nell’estrinsecazione della libertà di gestione aziendale, ma è consentito denunciarne le modalità, se pregiudizievoli [nel caso in esame è stata individuata la colpa grave degli amministratori nella loro azione sia con riferimento alle modalità di cessione sia con riferimento all’inerzia nell’incasso / recupero del prezzo].
Gli amministratori, tutti, sono chiamati a svolgere, tra le altre, una funzione di vigilanza (cfr. art. 2392, comma 2, c.c.) e rispondono dei danni derivanti alla società dall’omissione al tale dovere. La funzione di vigilanza deve essere svolta con particolare scrupolo dai membri del Consiglio di Amministrazione a cui non sono delegate attività gestorie.
Poiché la legge consente all’amministratore privo di deleghe, in attuazione della propria funzione di vigilanza, di esaminare i documenti relativi all’amministrazione, compiere atti di ispezione, chiedere agli amministratori delegati di riferire in consiglio in merito all’andamento della società, dal mancato compimento di alcuna di queste attività e dal mancato controllo dell'operato dell'amministratore con deleghe da parte degli amministratori non esecutivi, con conseguente mancata limitazione del pregiudizio al patrimonio sociale, consegue la responsabilità solidale di questi ultimi per omessa vigilanza ai sensi degli artt. 2476 e 2392, comma 2, c.c..
Il socio moroso gode dei diritti di informazione tra i quali quello di convocazione, dato che secondo il dettato dell'art. 2466 c.c. non può solo esercitare il diritto di voto ed è quindi interdetto dalla partecipazione alle decisioni assembleari. E' pertanto nulla, ex art. 2479 tre, comma 3, c.c., la delibera assembleare assunta in difetto di convocazione del socio moroso.
Con riferimento al riparto dell’onere della prova, qualora il creditore agisca in giudizio nei confronti del debitore, sia per l’adempimento del contratto che per la risoluzione ed il risarcimento del danno, il creditore deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento [nel caso di specie, un sindaco agiva in giudizio nei confronti della società per ottenere il pagamento delle competenze maturate ed il titolo consisteva nella nomina assembleare con determinazione del compenso].
Secondo quanto dispone l’art. 670 c.p.c., il giudice può autorizzare il sequestro giudiziario quando è controversa la proprietà o il possesso dei beni ed è opportuno provvedere alla loro custodia o alla loro gestione temporanea, alla luce di una relazione di strumentalità tra il provvedimento cautelare richiesto e il provvedimento definitivo che potrà essere adottato all’esito del giudizio di merito. Tale norma va interpretata estensivamente, ammettendo tale tutela cautelare non solo in relazione alle tipiche azioni di rivendicazione, reintegrazione o manutenzione, ma anche nel caso in cui sia proposta o debba proporsi un’azione di natura personale come, ad esempio, le azioni contrattuali di risoluzione, rescissione, nullità o annullamento, purchè essa richieda una statuizione sulla proprietà, sul possesso o sulla restituzione di una cosa da altri detenuta. Inoltre, il termine “possesso” contenuto nella norma, non va inteso in senso strettamente tecnico – giuridico, rientrando in esso anche la detenzione, qualificata e non qualificata, del bene.
Al fine di garantire la stabilità delle decisioni del consiglio di amministrazione e di non paralizzare la gestione societaria, il legislatore limita il potere di impugnare la delibera contraria a legge o statuto, al collegio sindacale e agli amministratori assenti o dissenzienti. Al socio non è invece consentito impugnare la delibera contraria a legge o statuto, se non nel caso in cui la stessa sia lesiva dei suoi diritti, ossia quando comporta una lesione diretta, e non meramente riflessa, di un diritto soggettivo, patrimoniale o amministrativo (e non di un mero interesse), che appartiene al socio in ragione della partecipazione alla compagine sociale e quindi uti socii.
Il fatto che l’interesse che si assume leso sia un interesse pubblico oppure che il socio sia un ente pubblico non incide sulla disciplina dell’impugnabilità delle delibere del consiglio di amministrazione di una s.p.a., in quanto se l’ente pubblico sceglie di perseguire alcune delle proprie finalità istituzionali mediante partecipazione in una s.p.a., è sottoposto alla disciplina dettata dal codice civile per tale società. Nessuna deroga prevede, infatti, l’art. 4 comma 2 lett. c) del D. Lgs. 175/2016 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), trattandosi di normativa che si limita ad individuare le condizioni alle quali le amministrazioni pubbliche possono acquistare e mantenere partecipazioni in società.
Il mancato pagamento del residuo prezzo costituisce inadempimento imputabile e di non scarsa importanza, che integra i presupposti di cui all’art. 1453 c.c. per la risoluzione del contratto di cessione di quote sociali.
Il creditore che agisce per la risoluzione di un contratto, per il risarcimento del danno o per l’adempimento deve soltanto provare la fonte del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento; spetta al debitore fornire prova di aver esattamente adempiuto o di non aver potuto adempiere per una causa non imputabile.
Il riparto dell’onere della prova si fonda, da una parte, sul principio di persistenza del credito desumibile dall’art. 2697 c.c., in virtù del quale, una volta provata dal creditore l’esistenza di un diritto destinato ad essere soddisfatto entro un certo termine, grava sul debitore l’onere di dimostrare l’esistenza del fatto estintivo, costituito dall’adempimento. In secondo luogo, rileva il principio della vicinanza della prova: per il creditore sarebbe eccessivamente gravoso dover provare un fatto negativo inerente alla sfera del debitore come l’inadempimento.